Ahmad Hussein al-Shara, alias Abu Mohammed al-Jolani, vorrebbe che si pensasse che fosse un uomo cambiato. In questi giorni, al-Jolani, un agente di 41 anni di al-Qaeda e Stato Islamico con una taglia di 10 milioni di dollari sulla testa, non vomita più fuoco e zolfo jihadisti. Invece, predica il pluralismo, la tolleranza religiosa, la diversità e il perdono mentre i suoi ribelli di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) prendono il controllo di Damasco, la capitale siriana.

Con la caduta del Presidente Bashar al-Assad per Mosca, in Russia, la presa di 54 anni dell’intera famiglia Assad sulla Siria è giunta al termine. Ora molti nel Paese e nella comunità internazionale chiedono quale sia il vero al-Jolani.

In una recente intervista, al-Jolani, il volto dei ribelli siriani, ha insistito sul fatto che la sua evoluzione era naturale. “Una persona ventenne avrà una personalità diversa da quella di qualcuno di trent’anni o quarenta, e certamente qualcuno di cinquant’anni. Questa è la natura umana”, ha detto al-Jolani.

Il vero al-Jolani probabilmente emergerà nel modo in cui si avvicina alla formazione di un governo di transizione post-Assad, nonché ai diritti, alla sicurezza e alla protezione delle minoranze. Questi includono gli alawiti musulmani sciiti da cui provengono gli Assad e che hanno a lungo sostenuto il loro governo brutale.

Inoltre, anche coloro che mettono in dubbio la sincerità della sua conversione suggeriscono che al-Jolani potrebbe essere l’unico comandante ribelle che può tenere insieme la Siria. “Non c’è potere militare locale per resistere o competere con Jolani”, ha detto un socio del leader ribelle quando si identificava ancora pubblicamente come jihadista. L’ex socio ha avvertito che se al-Jolani fallisce, la Siria, come la Libia, diventerà uno stato distranato da milizie armate rivali.

Al-Jolani “non è cambiato affatto, ma c’è una differenza tra essere in battaglia, in guerra, uccidere e gestire un paese”, ha detto l’ex socio. Ha suggerito che la posizione più moderata e conciliante del leader ribelle derivava dal riconoscimento che la sete di sangue settaria dello Stato Islamico era un errore. Ha anche dichiarato che al-Jolani “ora si considera uno statista” e ha affermato che il leader ribelle potrebbe seguire i suggerimenti di trasformare il gruppo in un partito politico trasferendo la sua ala militare a un esercito siriano ricostituito.

Nel frattempo, il gruppo paramilitare HTS si è mosso rapidamente per salvaguardare gli edifici pubblici a Damasco e gestire la presenza di fazioni pesantemente armate nella capitale. “Presto vieteremo raduni di persone armate”, ha detto Amer al-Sheikh, un funzionario della sicurezza dell’HTS.

Al-Jolani ha bisogno di guadagnare fiducia internazionale

Il 10 dicembre 2024, i ribelli hanno nominato Mohammed al-Bashir primo ministro ad interim per quattro mesi. Non era immediatamente chiaro quale sarebbe stato il passo successivo.

Al-Bashir gestiva il governo della Salvezza guidato dai ribelli nella loro roccaforte nella regione settentrionale di Idlib in Siria. Da quando HTS ha lanciato la sua offensiva, ha assistito le città catturate, tra cui Aleppo, Hama e Homs, nell’installazione di strutture di governance post-Assad.

Oltre a garantire la sicurezza interna e la stabilità, al-Jolani dovrà garantire il sostegno internazionale per la ricostruzione e la riabilitazione della Siria traumatizzata e devastata dalla guerra. Per farlo, al-Jolani e HTS dovranno convincere le minoranze siriane, i segmenti dei musulmani sunniti della maggioranza siriana e la comunità internazionale che hanno genuinamente cambiato i loro colori e non sono lupi travestiti da pecora.

Un record discutibile dei diritti umani che è persistito molto tempo dopo che hanno sconfessato il jihadismo aggrava i problemi di reputazione di HTS e al-Jolani. Non più tardi nell’agosto 2024, le Nazioni Unite hanno accusato il gruppo di ricorrere a uccisioni extragiudiziali, torture e reclutamento di bambini soldato.

“HTS ha detenuto uomini, donne e bambini di sette anni. Includevano civili detenuti per aver criticato l’HTS e aver partecipato a manifestazioni “, ha detto il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite in un rapporto. “Questi atti possono equivalere a crimini di guerra”.

Anche così, questa settimana, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria Geir Pedersen ha riconosciuto che HTS ha cercato di affrontare le preoccupazioni negli ultimi giorni.

“La realtà finora è che l’HTS e anche gli altri gruppi armati hanno inviato buoni messaggi al popolo siriano”, ha detto Pedersen. “Hanno inviato messaggi di unità, di inclusività… Abbiamo anche visto… cose rassicuranti sul campo”.

Pedersen si riferiva alle assicurazioni ribelli date alle minoranze, all’impegno a non imporre restrizioni sull’abbigliamento femminile, all’amnistia per il personale di arruolo dell’esercito di Assad, ai ribelli che raggiungono i funzionari governativi di Assad e agli sforzi per salvaguardare le istituzioni governative.

I funzionari degli Stati Uniti hanno fatto eco a Pedersen nonostante la designazione statunitense di HTS come organizzazione terroristica.

Incidenti a Damasco e Hama

Sullo sfondo del suo curriculum negli ultimi anni nell’amministrazione della regione di Idlib, l’ultima roccaforte ribelle in Siria quando le linee di battaglia della guerra civile erano congelate nel 2020, al-Jolani ha cercato di proiettare un’immagine di tolleranza, riconciliazione e capacità di fornire beni e servizi pubblici.

Al-Jolani trasformò Idlib, storicamente la provincia più povera del paese, nella sua regione in più rapida crescita, nonostante il suo dominio autocratico e i frequenti attacchi aerei siriani e russi. A suo merito, non ci sono state importanti segnalazioni di attacchi contro cristiani, alawiti e altre minoranze o atti di vendetta contro i rappresentanti del regime di Assad, compresi i militari. Inoltre, non c’è stato alcun sacco di massa mentre i combattenti dell’HTS hanno preso il controllo di città e paesi, tra cui Damasco.

Questo non vuol dire che tutto si sia svolto senza incidenti. Un residente di Damasco ha riferito che uomini armati non identificati avevano bussato alla porta di un conoscente e chiesto della sua religione. Un vicino è tornato a casa per trovare la sua porta rotta e il suo appartamento sacconnato. Allo stesso modo, un edificio governativo vicino è stato saccheggiato nonostante le istruzioni dei leader ribelli contro la violazione della proprietà pubblica. I ribelli hanno imposto un coprifuoco notturno a Damasco per mantenere la legge e l’ordine.

In precedenza, un uomo di Hama ha detto ai prigionieri seduti a terra con le mani legate dietro di loro in un video sui social media: “Guariremo i cuori dei credenti tagliandovi la testa, maiali”.

La dichiarazione di HTS sulle armi chimiche siriane

Nel frattempo, con Israele che bombarda gli arsenali siriani di armi strategiche, compresi i siti di armi chimiche sospette, l’HTS ha perso un’opportunità di raccogliere inequivocabilmente la fiducia. In una dichiarazione, il gruppo ha detto che salvaguarderà le restanti scorte di armi chimiche del paese e garantirà che non siano utilizzate contro i cittadini. Questo è un netto contrasto con il regime di Assad, che ha usato armi chimiche in diverse occasioni contro i civili siriani.

Sulla scia della caduta di Assad, l’Organizzazione per il proibizione delle armi chimiche (OPCW), il cane di guardia delle Nazioni Unite sulle armi chimiche, ha dichiarato di aver contattato autorità siriane non identificate “al fine di sottolineare l’importanza fondamentale di garantire la sicurezza di tutti i materiali e le strutture relative alle armi chimiche”.

HTS ha risposto, dicendo: “Affermiamo chiaramente che non abbiamo intenzione o desiderio di usare armi chimiche o armi di distruzione di massa in nessuna circostanza. Non permetteremo l’uso di alcuna arma, qualunque essa sia, contro i civili o [permettere loro di] diventare uno strumento di vendetta o distruzione. Consideriamo l’uso di tali armi un crimine contro l’umanità”.

Il gruppo si sarebbe fatto un favore offrendosi di distruggere sotto supervisione internazionale le scorte di armi chimiche che cadono nelle sue mani e/o chiedendo all’OPCW di assistere nella ricerca di tali armi.

 

 

 

 

30 Aprile 2025Oltre alle autobiografie, sono ben 4 le encicliche firmate da Papa Francesco, scomparso pochi giorni fa, durante suo Pontificato: ‘Lumen Fidei’ (29 giugno 2013), ‘Laudato si’’ (24 maggio 2015), ‘Fratelli tutti’ (3 ottobre 2020) e ‘Dilexit nos’ (24 ottobre 2024). Lumen Fidei ‘Lumen Fidei’ è la prima enciclica firmata da Papa Francesco, pubblicata il 29 giugno 2013, nell’Anno della Fede. Il testo, però, è frutto di un lavoro iniziato da Papa Benedetto XVI (che ha poi passato il testimone a Francesco) con la sua trilogia di encicliche papali. Le prime due erano state ‘Deus Caritas Est’ (2006) e ‘Spe Salvi’ (2007). Papa Francesco nell’incipit scrive che Benedetto XVI “aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a ‘confermare i fratelli’ in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo”. L’enciclica affronta il tema della fede, completando la trilogia sulle virtù teologali dopo Deus caritas est (carità) e Spe salvi (speranza). La fede è presentata come una luce che guida il cammino dell’umanità, radicata nell’amore e nella verità, e capace di fondare la convivenza sociale e la ricerca del bene comune. “Si è visto – si legge nel testo dell’enciclica – che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita”. Chi crede, vede. Chi crede, non è mai solo, perché la fede è un bene per tutti, un bene comune che aiuta a distinguere il bene dal male, a edificare le nostre società, donando speranza. La fede non separa l’uomo dalla realtà, ma lo aiuta a coglierne il significato più profondo. In un’epoca come quella moderna- scrive il Papa- in cui il credere si oppone al cercare e la fede è vista come un’illusione, un salto nel vuoto che impedisce la libertà dell’uomo, è importante fidarsi ed affidarsi, umilmente e con coraggio, all’amore misericordioso di Dio che raddrizza le storture della nostra storia. Quindi, il Papa dimostra lo stretto legame tra fede, verità e amore, quelle affidabili di Dio. La fede senza verità non salva – dice il Pontefice – Resta solo una bella fiaba, soprattutto oggi in cui si vive una crisi di verità a causa di una cultura che crede solo alla tecnologia o alle verità del singolo, a vantaggio dell’individuo e non del bene comune. Il grande oblio del mondo contemporaneo – evidenzia il Papa – è il rifiuto della verità grande, è il dimenticare la domanda su Dio, perché si teme il fanatismo e si preferisce il relativismo. Al contrario, la fede non è intransigente, il credente non è arrogante perché la verità che deriva dall’amore di Dio non si impone con la violenza e non schiaccia il singolo. Per questo è possibile il dialogo tra fede e ragione: innanzitutto, perché la fede risveglia il senso critico ed allarga gli orizzonti della ragione; in secondo luogo, perché Dio è luminoso e può essere trovato anche dai non credenti che lo cercano con cuore sincero. Chi si mette in cammino per praticare il bene- sottolinea il Papa- si avvicina già a Dio. L’enciclica parla anche del rapporto tra fede e ragione, che devono essere sempre in costante dialogo tra loro, in costante comunicazione. Si parla anche dell’importanza di trasmettere la fede, così che possa risuonare in ogni luogo e passare di generazione in generazione. Perché la fede è, come recita l’enciclica di Papa Francesco, un bene comune. Laudato Si’ Pubblicata il 18 giugno 2015, ‘Laudato Si’’ è la prima enciclica dedicata interamente all’ecologia, ma è la seconda enciclica di Papa Francesco, con una chiara citazione del Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi. Suddivisa in sei capitoli, l’Enciclica raccoglie, in un’ottica di collegialità, diverse riflessioni delle Conferenze episcopali del mondo e si conclude con due preghiere, una interreligiosa ed una cristiana, per la salvaguardia del Creato. In essa Papa Francesco parla di ‘ecologia integrale’, collegando la difesa dell’ambiente con la giustizia sociale. Il testo denuncia il degrado ambientale, i cambiamenti climatici, la cultura dello scarto e l’inquinamento, sollecitando una responsabilità collettiva e nuovi modelli economici e di consumo. Il Papa invoca un rapporto armonioso con il creato e con gli altri, promuovendo uno sviluppo sostenibile che parta dai più poveri. Dedicata alla ecologia integrale, il pontefice sottolinea il legame inscindibile tra l’umanità e la Creazione. Francesco mette ripetutamente allerta dai rischi derivati dalla mancata attenzione alla cura della casa comune. “Oggi – afferma il Papa – non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri. Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. E’ preoccupante il fatto che alcuni movimenti ecologisti difendano l’integrità dell’ambiente, e con ragione reclamino dei limiti alla ricerca scientifica, mentre a volte non applicano questi medesimi princìpi alla vita umana”. Il Papa mette in guardia dalle gravi conseguenze dell’inquinamento e da quella “cultura dello scarto” che sembra trasformare la terra, “nostra casa, in un immenso deposito di immondizia”. Dinamiche che si possono contrastare adottando modelli produttivi diversi, basati sul riutilizzo, il riciclo, l’uso limitato di risorse non rinnovabili. Anche i cambiamenti climatici sono “un problema globale”, spiega l’Enciclica, così come l’accesso all’acqua potabile, che va tutelato in quanto “diritto umano essenziale, fondamentale ed universale”, “radicato nell’inalienabile dignità” dell’uomo. Centrale, inoltre, la tutela della biodiversità perché ogni anno, a causa nostra, “scompaiono migliaia di specie vegetali e animali che i nostri figli non potranno vedere”. E “non ne abbiamo il diritto”, sottolinea Francesco, Gli uomini sono tutti custodi del Creato, un dono che Dio gli ha regalato, e per questo se ne devono prendercene cura, salvaguardandolo quanto più possibile. Ognuno può fare qualcosa nel suo piccolo per migliorare la salute del pianeta. L’ecologia integrale diventi un nuovo paradigma di giustizia, perché la natura non è una “mera cornice” della vita umana.Si rivolge però anche a tutti coloro che occupano un ruolo di responsabilità, sia esso economico, politico oppure sociale. La sua speranza infatti è che accolgano a braccia aperte queste sue parole e facciano qualcosa per riuscire finalmente a salvare l’ambiente. Viene sottolineata l’esistenza di un “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud del mondo, connesso a squilibri commerciali. “Il debito estero dei Paesi poveri – infatti – si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico”. Fratelli tutti ’Fratelli Tutti’, enciclica firmata in un luogo simbolo, sulla tomba di San Francesco ad Assisi, indica che siamo tutti sulla stessa barca, che nessuno si può salvare da solo, ma promuovendo una fraternità realizzata con i fatti, non di parole. Promuovere una fraternità vera significa costruire ponti in un’epoca caratterizzata dall’innalzamento di muri. Quindi ‘No’ allo sfruttamento dei più deboli e degli indifesi. La lettera è incentrata sui temi della fraternità e dell’amicizia. È necessario sradicare la cultura dell’indifferenza e tornare ad amarci l’un l’altro, a esserci di sostegno e di aiuto ogni giorno della nostra vita. È importante guardare a coloro che sono meno fortunati, dal punto di vista economico, esistenziale, sociale, materiale, e cercare di aiutarli a risollevarsi dalla loro situazione. il Papa la definisce una “Enciclica sociale” che mutua il titolo dalle “Ammonizioni” di San Francesco d’Assisi, che usava quelle parole “per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo”. Il Poverello “non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio”, scrive il Papa, ed “è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna” . L’Enciclica mira a promuovere un’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale. A partire dalla comune appartenenza alla famiglia umana, dal riconoscerci fratelli perché figli di un unico Creatore, tutti sulla stessa barca e dunque bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme. Motivo ispiratore più volte citato è il Documento sulla fratellanza umana firmato da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar nel febbraio 2019. Aperta da una breve introduzione e articolata in otto capitoli, l’Enciclica raccoglie – come spiega il Papa stesso – molte delle sue riflessioni sulla fraternità e l’amicizia sociale, collocate però “in un contesto più ampio” e integrate da “numerosi documenti e lettere” inviate a Francesco da “tante persone e gruppi di tutto il mondo” (5). Nel primo capitolo, “Le ombre di un mondo chiuso”, il documento si sofferma sulle tante storture dell’epoca contemporanea: la manipolazione e la deformazione di concetti come democrazia, libertà, giustizia; la perdita del senso del sociale e della storia; l’egoismo e il disinteresse per il bene comune; la prevalenza di una logica di mercato fondata sul profitto e la cultura dello scarto; la disoccupazione, il razzismo, la povertà; la disparità dei diritti e le sue aberrazioni come la schiavitù, la tratta, le donne assoggettate e poi forzate ad abortire, il traffico di organi. Secondo il Papa, “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali”. Oggi – sottolinea il pontefice – si avverte “la perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di decostruzionismo” che porta a “nuove forme di colonizzazione culturale”. Riferendosi alla pandemia di Covid, il pontefice rileva che “passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più gli altri, ma solo un noi. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare”. In definitiva – osserva Francesco – è “impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni”. “L’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano cuori che si lasciano completare. La statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore”. Dilexit Nos L’enciclica ‘Dilexit Nos’, pubblicata nel 2024,  è incentrata sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù ed interamente dedicato al culto del Sacro Cuore di Cristo. Secondo le intenzioni del Papa si tratta di una enciclica che raccoglie “le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture, per riproporre oggi, a tutta la Chiesa” il culto del Sacro Cuore di Gesù “carico di bellezza spirituale”. “Si potrebbe dire che io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone”, afferma il pontefice. Francesco scrive sull’onda delle crisi internazionali sempre più acute (la “Terza guerra mondiale a pezzi”, come la definisce lui): infatti, in queste pagine, il Pontefice chiede a quel mondo “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia” di “recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore”. L’enciclica invita a superare la frammentazione dell’individualismo moderno, recuperando la dimensione comunitaria, sociale e missionaria dell’amore di Cristo. Nel 1956, con la ‘Haurietis acquas’, Pio XII scriveva per ravvivare il culto del Cuore di Gesù e invitare la Chiesa a meglio comprenderne e attuarne le varie forme di devozione, di “massima utilità” per le necessità della Chiesa ma anche “vessillo di salvezza” per il mondo moderno. Erano i tempi più bui della Guerra Fredda. “Dilexit nos” ripercorre tradizione e attualità del pensiero “sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo”, invitando a rinnovare la sua autentica devozione per non dimenticare la tenerezza della fede, la gioia di mettersi al servizio e lo slancio della missione. È infatti nel Cuore di Cristo che “possiamo trovare tutto il Vangelo” e “riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare”. Secondo Francesco, incontrando l’amore di Cristo, “diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune”. L’auspicio è che il mondo, “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore”. Il primo capitolo, “L’importanza del cuore”, spiega perché occorre “ritornare al cuore” in un mondo nel quale siamo tentati di “diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato”. È il cuore “che unisce i frammenti” e rende possibile “qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo”. E il mondo può cambiare “a partire dal cuore”. Il secondo capitolo si sofferma sui gesti e sulle parole d’amore di Cristo, mentre il terzo “Questo è il cuore che ha tanto amato” spiega come la Chiesa rifletta e abbia riflettuto “sul santo mistero del Cuore del Signore”. Il Papa sottolinea che “la devozione al Cuore di Cristo è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto significa l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che possiamo affermare ancora una volta che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo”. Di qui l’invito a rinnovare la devozione al Cuore di Cristo anche per contrastare “nuove manifestazioni di una ‘spiritualità senza carne’ che si moltiplicano nella società”. È necessario tornare alla “sintesi incarnata del Vangelo” davanti a “comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti”. Negli ultimi due capitoli, il Pontefice mette in luce i due aspetti che “la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo: l’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario”. Nel quarto, “L’amore che dà da bere”, rilegge le Sacre Scritture, e con i primi cristiani, riconosce Cristo e il suo costato aperto in “colui che hanno trafitto” che Dio riferisce a se stesso nella profezia del libro di Zaccaria. Diversi Padri della Chiesa hanno menzionato “la ferita del costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito”, in primis Sant’Agostino, che “ha aperto la strada alla devozione al Sacro Cuore come luogo di incontro personale con il Signore”. Tra i devoti, l’Enciclica ricorda San Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, Santa Teresa di Lisieux, Santa Faustina Kowalska, San Giovanni Paolo II. L’ultimo capitolo “Amore per amore” approfondisce la dimensione comunitaria, sociale e missionaria della devozione al Cuore di Cristo, che, nel momento in cui “ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli”. L’amore per i fratelli è infatti il “gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore”, come ha testimoniato, ad esempio, San Charles de Foucauld. Il testo si conclude con una preghiera di Francesco: “Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!”. [...] Read more...
30 Aprile 2025Il conteggio non è finito, ma le elezioni certamente sì. Il Partito Liberale del Canada, sotto la nuova guida di Mark Carney, è pronto a formare il prossimo governo, con la maggioranza dei seggi (172 su 343), o a capo della coalizione. La domanda ora è, molto semplicemente: come è successo? In effetti, il risultato è stato una sorpresa per quasi tutti, ma tre fattori si sono combinati per cambiare le cose. Quando l’ex leader liberale e primo ministro Justin Trudeau si è dimesso il 6 gennaio, il divario nei sondaggi sembrava insormontabile: i liberali avevano una media del 20% mentre i loro principali sfidanti, il Partito Conservatore del Canada sotto Pierre Poilievre, erano più del doppio, con un voto al 44%. Questo è stato il primo fattore. La popolarità di Trudeau era ai minimi di tutti i tempi e le prospettive dei liberali sono migliorate quasi da un giorno all’altro, il divario si è ridotto al 40% per i conservatori e al 32% per i liberali entro la metà di marzo. Fu allora che il secondo fattore giocò la sua parte: la scelta di un nuovo leader del partito (e primo ministro), Mark Carney, che ha immediatamente indetto elezioni anticipate. Dopo di che, i sondaggi si sono ulteriormente ridotti, il tutto nel contesto del terzo fattore: l’insistenza del presidente Donald Trump sul fatto che il Canada dovrebbe diventare il 51° stato. Accanto al suo suggerimento che gli Stati Uniti potrebbero acquisire la Groenlandia, la proposta, vista da molti come una “minaccia”, ha alienato molti elettori dal partito percepito come più vicino a Trump: i conservatori di Poilievre. Questo non può essere sopravvalutato: tra gli over 60, “Trattare con Donald Trump” è stato il fattore più importante nel decidere come votare e metà degli elettori più anziani intendeva sostenere i liberali di Carney. Il significato delle osservazioni di Trump non può essere ignorato. Carney sarà un candidato alla continuità, portando avanti le politiche di Trudeau, come hanno affermato i conservatori? O sarà un cauto cambio di ritmo, essendo una “persona molto diversa” da Trudeau e persino, secondo Poilievre, plagiando le politiche della piattaforma dei conservatori? È, naturalmente, difficile da dire. Prima delle elezioni, Carney non aveva mai ricoperto una carica elettiva, quindi la sua traiettoria come politico è difficile da prevedere. Ma questo è il punto: Carney non è un politico. Quello che possiamo valutare è il suo passato, specialmente in Gran Bretagna, dove è stato governatore della Banca d’Inghilterra per sette anni, essendo la prima persona nata all’estero in quel ruolo, dopo i suoi cinque anni e mezzo come governatore della banca centrale del Canada. Durante il suo periodo nel Regno Unito, Carney è sempre stato considerato un po’ fuori passo con il mercato del lavoro britannico. Nel 2013, The Guardian lo ha descritto come “l’estraneo”, che aveva “letto male la flessibilità” del nostro mercato non riuscendo a prevedere quanto velocemente sarebbe caduta la disoccupazione. Carney ha insistito sul fatto che i tassi di interesse dovrebbero rimanere il più bassi possibile, con solo un “rapido calo” della disoccupazione che ha portato al loro aumento. Quella caduta è arrivata: nel corso del suo governo, la disoccupazione britannica è scesa dal 7,8% nel 2013 al 4,8% nel 2016, il più basso dal 2005. Tuttavia, i tassi di interesse della Gran Bretagna si sono appiattiti a meno dell’1% durante il suo mandato. Il periodo di Carney come governatore è segnato da un’estensione dell’indipendenza operativa iniziata quasi vent’anni prima, portando la banca sempre più fuori passo con l’elettorato. In risposta alle critiche dell’allora leader laburista Jeremy Corbyn, nel 2015, Carney ha sostenuto che “l’influenza del Cancelliere sulla banca si sarebbe verificata solo in circostanze estreme”. La grande sfida – e il cambiamento – all’atteggiamento di Carney è arrivata in vista e all’indomani della Brexit. Nonostante abbia insistito sul fatto che i politici, anche e soprattutto il Cancelliere dello Scacchiere, dovrebbero stare alla larga dagli affari della Banca d’Inghilterra, Carney è stato visto come un’abbandono di questa posizione neutrale in opposizione all’uscita dall’Unione Europea, accusato dai principali politici dell’epoca di essere parte del “Progetto Paura” per aver sostenuto il lato rimanente. Inoltre, ha insistito sul suo atteggiamento anche dopo che il voto è stato approvato, sostenendo una diminuzione dei tassi di interesse sulla scia del voto. Questo mix di difesa dell’indipendenza operativa alla fine della Banca e interferenza nelle questioni politiche quando gli andava bene è il simbolo dell’intero approccio di Carney alla governance: la tecnocrazia. Tanto che Jacobin descrisse Carney come un “Tecnocrate Straordinario”, mentre Sol White lo definì “un Tecnocrate nell’era populista” e Jillian Kestler-D’Amours lo descrisse come un “tecnocrate sotto steroidi”. Ma è questo che serve il Canada? Parte dell’attrazione per l’allora cancelliere George Osborne nel nominare Carney erano le sue credenziali ed esperienze, che sono certamente necessarie per una posizione come il governatore della Banca d’Inghilterra, ma la natura decisamente internazionalista delle sue credenziali significava che Carney era sempre un po’ distanta dalle persone che il suo approccio colpiva. Questo non è vero per il Canada ora? A quanto pare, “ha trascorso gran parte della campagna di leadership liberale presentandosi ai canadesi”. Inoltre, il tempo di Carney in Gran Bretagna è stato in un ambiente politico radicalmente diverso, che diverge sia dalla Gran Bretagna ora, sia dal Canada dai primi anni 2010. Come ha sottolineato Yuan Yi Zhu, il Canada affronta: un’economia stagnante con solo l’1,4% di crescita nel decennio precedente al 2024; un’immigrazione alle stelle che sta aggravando una crisi abitativa che colpisce più duramente i giovani; e, come sottolineato dai dirigenti energetici il mese scorso, una crisi energetica imminente. Un tecnocrate ha il suo posto, di sicuro, ma l’impulso tecnocratico di Carney prevarrà sulla sua sensibilità politica? Data la mancanza di prove per quest’ultimo, lo suggerirebbe certamente. [...] Read more...
29 Aprile 2025Vivono nella loro patria ma come forestieri, partecipano a tutto come cittadini ma da tutto distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è straniera. ​​​​​​​(Anonimo, Lettera a Diogneto, II sec. d.C.)   Quando ci si riferisce alla Chiesa cattolica come attore geopolitico occorre sempre tenere presente la sua generale capacità – e volontà – di concentrarsi su tendenze di lungo termine, facendo dunque prevalere l’elemento temporale su quello spaziale. L’azione della Chiesa, peraltro, deve necessariamente esprimersi attraverso lo spazio, dimensione anch’essa in grado di affermare in pieno la ‘diversità’ dei cristiani, come mirabilmente descritto dall’anonimo autore del passo in epigrafe, tratto da un importante testo del cristianesimo dei primi secoli. Con queste premesse, è indubbio che la Chiesa cattolica, forte di quasi un miliardo e mezzo di fedeli e di un’autorità centralizzata (a differenza delle altre fedi, cristiane e no), rientra a buon diritto nel novero delle ‘grandi potenze’ geopolitiche. Una potenza disarmata, ma portatrice di un ineguagliabile soft power e di una capacità di mobilitazione tuttora fortissima, nonostante gli alti e bassi della storia. Dal punto di vista della concreta declinazione dell’influenza sovranazionale esercitata dalla Santa Sede, poi, coloro che – come lo scrivente – hanno avuto occasione di interagire per ragioni professionali con i diplomatici vaticani non possono non apprezzarne le grandi doti e l’alta capacità di farsi strumento dell’internazionalizzazione del messaggio cristiano. Anche se non sempre il Pontefice da poco scomparso ne ha utilizzato a fondo le potenzialità, preferendo spesso una sorta di ‘diplomazia personale’ e coinvolgendo anche il Dicastero per i Rapporti con gli Stati nei tentativi – oggi in parte arenati – di riforma della Curia romana. Anche con questo caveat, non vi è dubbio che il pontificato Bergoglio ha saputo restituire un certo slancio alla Chiesa cattolica sulla scena geopolitica e mediatica mondiale, fin dall’azione tendente a evitare un intervento statunitense in Siria nel 2013 e dall’invito in Vaticano rivolto congiuntamente, l’anno successivo, a Shimon Peres e Abu Mazen. Francesco è stato il primo Pontefice a riconoscere (e favorire) un certo allontanamento della Chiesa cattolica dall’Occidente, con il quale essa si era in precedenza pressoché identificata pur criticandone spesso – si pensi a Papa Ratzinger – la deriva individualistica e il crescente relativismo morale; e a dare voce alle istanze del cosiddetto ‘Sud globale’, criticando l’unipolarismo statunitense seguito alla fine della Guerra Fredda. Questo epocale mutamento di orizzonte si è prodotto parallelamente a un nuovo approccio alle questioni sociali, con l’adozione di posizioni molto critiche nei confronti del capitalismo e delle crescenti disuguaglianze economiche mondiali. Bergoglio è stato da molti definito ‘populista’, tributario dunque della tendenza – in Argentina soprattutto di origine peronista ma in gran parte condivisa dal locale cattolicesimo – a quasi ‘sacralizzare’ il popolo, considerato ‘innocente’, ma sottoposto alla corruzione delle élites. Tale retaggio spiega almeno in parte la citata avversione all’Occidente: la geopolitica bergogliana è stata di fatto fondata su tali tratti distintivi, che ben la possono avvicinare a posizioni terzomondiste. Di qui la contrarietà di Francesco al modello statunitense, soprattutto nella sua declinazione trumpiana; e la parallela avversione alle politiche vaticane della maggioranza conservatrice dell’episcopato USA. Ben diversa, ovviamente, l’attenzione riservata dal Papa argentino al subcontinente latinoamericano, dimostrata fin dai primi anni di pontificato con il patrocinio del riavvicinamento fra Cuba e l’amministrazione Obama, ma anche con il successo della sua prima visita apostolica, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio 2013 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. ​Eppure, Bergoglio non è riuscito ad arginare, proprio in Sudamerica, l’impetuosa avanzata dei cristiani evangelici, una forza religiosa con molti appoggi proprio negli Stati Uniti e portatrice di un messaggio ben diverso da quello cattolico, soprattutto per il favore che riserva al successo economico. Oggi i cattolici sono ancora maggioranza in America Latina, ma con numeri piuttosto risicati, di poco superiori al 50% (dal circa 80% degli anni Novanta del secolo scorso); mentre gli evangelici hanno più che triplicato il loro peso negli ultimi vent’anni, mettendo addirittura nel mirino per il prossimo decennio il ‘sorpasso’ del cattolicesimo in Brasile. Tutto ciò non può non colpire in un panorama generale di leggero aumento dei fedeli cattolici nel mondo, che sono passati durante il pontificato di Bergoglio da 1,25 a 1,39 miliardi soprattutto per merito del contributo africano: a partire dalla Repubblica Democratica del Congo che, già nel 2020, ha sottratto al Brasile il primato di Paese con la più numerosa popolazione cattolica. Peraltro, proprio l’episcopato africano si è in buona parte distinto, negli ultimi tempi, per un orientamento tendenzialmente conservatore, poco allineato con quello del Papa. Anche l’Asia è rientrata fra gli obiettivi primari dell’azione di Papa Bergoglio: esempio principale di tale orientamento è stata l’apertura verso la Cina culminata nell’’accordo provvisorio’ sulla nomina dei vescovi, sottoscritto il 22 settembre 2018 dopo vari anni di negoziato. L’intesa, secondo la quale il governo cinese propone i nominativi dei candidati vescovi mentre il Pontefice conserva l’ultima parola sulla loro nomina, costituisce uno dei principali risultati dell’azione geopolitica bergogliana, superando la storica divisione fra la Chiesa cinese ‘ufficiale’ e quella ‘clandestina’ e ponendo tutti i vescovi del Paese in piena comunione con il Papa. Si è trattato di un vero e proprio cambio di paradigma nei rapporti fra Pechino e il Vaticano, che ha favorito il superamento di quella estraneità cinese alla Chiesa cattolica da molti considerata sostanzialmente irriducibile. L’accordo, peraltro, è stato ed è criticato da varie correnti cattoliche, che lo considerano una concessione troppo generosa nei confronti di un governo che limita tuttora i diritti dei credenti (con particolare ma non esclusivo riferimento alla situazione dei diritti umani a Hong Kong); altri lo hanno invece lodato, considerandolo un passo avanti nella tutela dei fedeli cinesi. In ogni caso, l’intesa ha mostrato il pragmatismo di Bergoglio, che ha modificato le precedenti posizioni in proposito della Santa Sede, basate su una severa difesa del principio di libertà religiosa. Occorrerà vedere come evolverà la situazione con il nuovo Pontefice: la validità dell’accordo, per il momento, è stata prorogata fino al 2028, un tempo comunque ridotto sia – come si è detto – per la Chiesa cattolica, sia per il millenario ‘Impero del Centro’. Nel frattempo, la Santa Sede continua a essere uno dei pochi Stati a riconoscere Taiwan e a mantenervi una propria rappresentanza diplomatica. Per quanto riguarda Medio Oriente e Palestina, Francesco – confermando la posizione vaticana a favore della soluzione ‘due popoli, due Stati’ – ha intensificato l’appoggio e la preoccupazione della Santa Sede nei confronti del popolo palestinese, esprimendosi fra l’altro in maniera molto severa a riguardo dell’eccessiva violenza esercitata da Israele sugli abitanti di Gaza dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e utilizzando in proposito, sia pure in chiave dubitativa, il termine ‘genocidio’. Le sue dure critiche, ripetute in più occasioni, gli hanno alienato le già scarse simpatie del governo israeliano, come si è potuto constatare anche in occasione della sua morte con le fredde condoglianze giunte solo dopo vari giorni. Gli ambienti cattolici conservatori, a loro volta, hanno spesso contestato l’atteggiamento considerato distratto di Bergoglio verso le discriminazioni subite dalle minoranze cristiane in diversi Paesi islamici. Infine l’Europa, di rilevanza non primaria nella visione del Pontefice arrivato ‘quasi dalla fine del mondo’, ma tornata al centro dell’attenzione internazionale con l’invasione russa dell’Ucraina. Mai come in questo caso si è manifestata l’azione di Papa Bergoglio in favore della pace, già in precedenza iniziata con la famosa denuncia della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ suscitata e sostenuta dall’industria degli armamenti. Da citare soprattutto, in tema di Ucraina, l’intervista del 2022 al ‘Corriere della Sera’, in cui Francesco accusò la NATO di avere “abbaiato” alle porte della Russia; e il successivo elogio del “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”, che suscitò l’indignazione di Kiev e lo fece includere da qualcuno nel novero dei sostenitori di Mosca, ma che costituiva in realtà un riflesso della postura critica verso l’Occidente citata in precedenza. Proprio questa ‘lontananza’ dall’Occidente – di cui sono state eco anche le posizioni ambientaliste espresse nell’enciclica ‘Laudato Si’’, oltre alle battaglie in difesa dei migranti – e il favore verso un ordine internazionale più spostato verso le periferie del mondo resteranno l’impronta più caratteristica del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Se i risultati della sua azione saranno permanenti si vedrà negli anni e nei decenni prossimi: certo, il suo successore si troverà di fronte l’immane compito di proseguirla, correggendone magari alcuni aspetti problematici e preservando il ruolo della Chiesa cattolica nel mondo, anche tornando indietro rispetto ai forse eccessivi atteggiamenti da ‘uomo comune’ tanto cari al Papa argentino. Un mondo, l’attuale, sempre più complesso e difficile, nei confronti del quale il ‘distacco’ cristiano descritto nella Lettera a Diogneto, ben lontano dal voler significare isolamento, potrebbe ancora rappresentare un’importante carta da giocare. 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6 Maggio 2025Raggiunto velocemente (ieri ufficializzato) l’accordo di Große Koalition tra CDU/CSU e SPD, la nomina a Cancelliere del leader dell’Unione Cristiano-Democratica, Friedrich Merz, sembrava scontata tanto che Olaf Scholz, riporta la Bild, in procinto di cedere il posto, aveva già deciso di festeggiare insieme ai suoi ministri con una ‘cena rustica’ bagnata da un barile da 10 litri di birra del Sauerland trasportato da lui stesso dentro il baule della sua auto. Invece, il colpo di scena: Merz non ha raggiunto la maggioranza al Bundestag necessaria per essere eletto Cancelliere. È la prima volta che succede nella storia della repubblica tedesca. La chiamata al voto, proseguita in modo spedito, si è chiusa alle 9:35. Il risultato, uscito circa trenta minuti dopo, ha lasciato tutti sbalorditi: per l’elezione erano necessari 316 voti, ma al primo turno, per il leader dell’Unione hanno votato 310 parlamentari a favore, 307 contro, 3 si sono astenuti e un voto è risultato non valido. Secondo i calcoli dei media tedeschi a Merz sarebbero mancati 18 voti dalle file della sua maggioranza. Sulla carta, infatti, i gruppi parlamentari della cosiddetta piccola Grosse Koalizion, la coalizione nero-rossa, poteva contare su una maggioranza ridotta: 328 seggi (208 la Cdu-Csu e 120 la Spd) rispetto alla soglia dei 316 voti necessari. Merz aveva dichiarato di aspettarsi di essere eletto cancelliere al primo turno, sotto gli occhi di Angela Merkel, giunta in aula per assistere alla sua nomina. Ma qualcosa è andato storto. A guastare la sua festa sarebbero stati 18 franchi tiratori. Infatti Merz, ha ottenuto solo 310 voti favorevoli. Il ‘tradimento’ dell’accordo di governo sarebbe stato favorito dal voto segreto. Dopo l’appello nominale, il responsabile del gruppo parlamentare dell’Unione, Steffen Bilger (CDU), ha annunciato che il partito era pienamente rappresentato. Altrettanto ha fatto la SPD. “È una novità assoluta: mai prima d’ora un cancelliere designato era stato bocciato alle elezioni del Bundestag dopo un’elezione federale e il successo delle trattative di coalizione”, ha scritto Die Welt. Sei voti sotto la maggioranza necessaria, 18 in meno del totale della nuova coalizione, sembrano pochi, ma pesano in quanto non promettono bene per l’aspirante cancelliere e per la tenuta del nuovo esecutivo, a sei mesi dalla fine della ‘coalizione semaforo‘ a guida SPD, crollata proprio a causa della mancanza di compattezza tra le forze della maggioranza di governo. Tino Chrupalla, numero due del partito di estrema destra Alternative für Deutschland, ha detto al ‘Corriere della Sera’: «Oggi è un buon giorno per la Germania. Certamente non ha avuto il nostro voto». «Merz dovrebbe farsi da parte e andrebbe spianata la strada per elezioni generali», ha affermato alla Deutsche Welle la leader dell’AfD, Alice Weidel, convinta che oggi sia «una giornata positiva per la Germania». La stessa Weidel ha poi scritto su X che l’accaduto dimostra ”le basi deboli su cui si fonda la coalizione tra Cdu/Csu e Spd”, sostenendo anche che Merz, ”primo candidato alla carica di cancelliere nella Repubblica Federale Tedesca a fallire al primo turno”, ha “pagato il prezzo di tutte le sue macchinazioni in vista delle elezioni, una mostruosa frode elettorale mai vista prima”. Secondo il co-presidente del gruppo dei Verdi, Bas Eickhout, “una Germania instabile non aiuta l’Europa”, e ha aggiunto che per Merz “non è stato un buon inizio” e “sulla sua leadership c’è ancora da lavorare”. Dello stesso avviso Özdemir Cem, ex leader dei Verdi: «È una catastrofe per la Germania e per la democrazia». La situazione ha suscitato reazioni anche a livello internazionale: “Quello che è successo stamattina è un fulmine a ciel sereno, non era mai successo nella storia tedesca. In Europa come in Germania c’è un paesaggio politico frammentato e teso, la mancata elezione di stamattina è stata una cosa veramente inattesa”, ha detto la capogruppo dei liberali di Renew al Parlamento europeo, la francese Valerie Hayer. Merz aveva vinto le elezioni del 23 febbraio, ma era stata una non-vittoria: il risultato della CDU era stato un risultato buono, ma inferiore alle aspettative, mentre il partito di estrema destra, AfD, si attestava come il secondo partito più votato in Germania. Il leader della CDU non piace a parte dell’SPD e dell’AfD. Ma non va dimenticato che Merz ha anche dei nemici interni al suo partito e si può ipotizzare che qualcuno gli abbia voluto far pagare il voto sull’immigrazione con AfD a gennaio e quello più recente con SPD sul riarmo. Si sarebbe già riunito l’Ufficio di presidenza del Bundestag per stabilire il calendario dei prossimi turni di votazione. Anche al secondo turno, come al primo, comunque, sarà necessaria la maggioranza assoluta. Secondo quanto appreso sia dalla Bild sia da WELT, oggi non ci sarà un secondo turno di votazioni per l’elezione del cancelliere. Il giorno prescelto potrebbe essere venerdì, a meno che i due terzi del Bundestag non accettino, sempre con una votazione, di anticiparlo a mercoledì. Il Bundestag vota tre volte per eleggere il cancelliere, per le prime due votazioni serve la maggioranza assoluta, alla terza viene eletto cancelliere chi ha più voti. Il Parlamento ha 14 giorni per arrivare al via libera definitivo sulla nomina di Merz, termine oltre il quale il candidato non sarebbe più eleggibile. La maggioranza si trova ora di fronte ad un bivio: velocizzare i tempi, con il rischio però di assistere a una seconda bocciatura che darebbe un altro duro colpo alla stabilità del nuovo esecutivo, o prendersi tempo per discutere con gli alleati un modo per evitare una fumata nera. Secondo la Legge fondamentale, in particolare l’articolo 63, che contiene le regole per l’elezione del Cancelliere, spiega lo Spiegel, «se il candidato non viene eletto, il Bundestag può eleggere un Cancelliere entro 14 giorni dallo scrutinio con più della metà dei suoi membri». E quindi: «Se Merz dovesse avere l’impressione di poter ottenere più successo in un secondo turno di votazioni rispetto al primo, potrebbe ricandidarsi in qualsiasi momento. Nell’arco di due settimane possono essere effettuate più schede con candidati diversi. Ma per essere eletti hanno bisogno anche della maggioranza assoluta di almeno 316 voti». Non c’è limite al numero di votazioni possibili, sebbene sia sempre richiesta la maggioranza assoluta. Se durante questa fase non si arriva all’elezione del cancelliere, il processo elettorale entra in una terza fase in cui viene eletta la persona che ottiene il maggior numero di voti (maggioranza relativa). Quindi, la nomina di Merz probabilmente avverrà comunque, ma intanto la leadership di Merz parte ammaccata. Se così non fosse, toccherebbe al Presidente della Repubblica decidere se nominare effettivamente Merz cancelliere o sciogliere il Parlamento. L’estrema destra di AfD spinge affinché si torni al voto il prima possibile. La bocciatura fa crollare le borse europee virano in negativo dopo il voto: a Francoforte l’indice Dax, debole in apertura degli scambi, si appesantisce a -1,09%, a Milano il Ftse Mib segna -0,30%, Parigi-0,60%, Londra debole a -0,01%. [...] Read more...
6 Maggio 2025L’integrazione economica non eliminerà tutti gli attriti, ma rafforzerà le dipendenze reciproche e stabilirà canali chiari per il dialogo sulla prevenzione dei conflitti     Negli ultimi anni, l’Asia orientale ha assistito a un’intensificazione delle tensioni in materia di sicurezza tra Cina, Corea del Sud e Nord, Giappone e Taiwan, manifestandosi in frequenti pattuglie, incursioni di difesa aerea navale e manovre militari sempre più assertive vicino alle acque e allo spazio aereo contesi. Questi attriti coesistono con una profonda interdipendenza economica: nel 2024, il commercio totale regionale di merci ha raggiunto i 108 trilioni di dollari, crescendo del 3 per cento rispetto all’8% dell’anno precedente, mentre le esportazioni di servizi ammontavano a 880 miliardi di dollari e le entrate del turismo transfrontaliero si sono avvicinate a 130 miliardi di dollari. Gli afflussi diretti esteri di investimenti nella regione si sono attestati a 255 miliardi di dollari orientali, rendendo l’Asia il più grande destinatario del mondo per il quarto anno consecutivo. La tesi di questo saggio è che la cooperazione economica strategica sostenuta in settori non sensibili attraverso quadri istituzionali adattativi rafforzati e la gestione preventiva dei meccanismi di crisi può effettivamente ridurre gli incentivi ai conflitti, promuovere la comprensione reciproca e raggiungere una stabilità avanzata a lungo termine, prosperità condivisa tra queste economie interconnesse. Le lamentele storiche hanno creato una complessa rete di sfiducia nella regione. Nel 2024, la disputa delle isole Senkaku/Diaoyu tra Cina e Giappone ha portato a dodici proteste diplomatiche formali. Nel frattempo, lo Stretto di Taiwan ha visto circa 180 uscite aeree cinesi vicino alla linea mediana durante lo stesso periodo. Inoltre, nel Mar Ovest, Seoul e Tokyo si sono scambiate nove obiezioni ufficiali riguardanti le incursioni intorno agli isolotti di Dokdo (noti anche come Takeshima). Anche la zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan ha dovuto affrontare un aumento significativo delle intrusioni, con un aumento del 28% anno su anno. Questi eventi sottolineano la durata delle questioni legacy risalenti ai ricordi di guerra, alla colonizzazione irrisolta e alle rivendicazioni di sovranità, amplificando la retorica nazionalista e limitando la flessibilità diplomatica. Nonostante le tensioni in corso, i legami economici hanno mostrato una notevole resilienza. Nel 2024, il commercio di merci a doppio senso tra Cina e Giappone ha superato i 330 miliardi di dollari, rendendola una delle più grandi relazioni bilaterali economiche al mondo. Le esportazioni di semiconduttori di Taiwan hanno raggiunto i 160 miliardi di dollari, rappresentando il 62% della capacità globale di fabbricazione dei wafer. Nel frattempo, le spedizioni di chip e display della Corea del Sud hanno totalizzato 142 miliardi di dollari, evidenziando il valore critico delle catene di approvvigionamento che abbracciano i principali centri di produzione della regione. Inoltre, gli scambi di servizi intraregionali si sono espansi, con la Corea del Sud che esporta 45 miliardi di dollari in servizi digitali ai suoi vicini e il Giappone che riceve 70 miliardi di dollari in ricevute per il turismo e i viaggi d’affari. Queste solide illustrazioni illustrano quanto siano diventati profondamente integrati i flussi di approvvigionamento e la catena di capitale, suggerendo che i costi economici e i conflitti di potrebbero superare i benefici di sicurezza percepiti. Gli accordi multilaterali hanno aumentato le opportunità di cooperazione. Il partenariato economico globale regionale (RCEP), entrato in vigore nel gennaio 2022, comprende Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e dieci nazioni dell’ASEAN. Insieme, questi paesi rappresenteranno circa il 29 per cento del PIL globale entro il 2024, generando un risparmio tariffario cumulativo stimato di 480 miliardi di dollari. Oltre all’RCEP, l’accordo globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico (CPTPP) ha attirato l’interesse della Corea del Sud, di Taiwan e di altre economie osservatori, indicando una potenziale espansione che potrebbe fornire benefici nella liberalizzazione dei servizi e degli investimenti. Nel 2025, i primi sviluppi hanno evidenziato un consorzio verde trilaterale che ha impegnato 12 miliardi di dollari per la ricerca congiunta sull’idrogeno offshore, l’energia eolica e le batterie di stoccaggio. Nel frattempo, una coalizione di produttori di semiconduttori di Taiwan, Corea del Sud e Giappone si è concentrata su progetti collaborativi avanzati volti alle tecniche di litografia di nuova generazione. Tuttavia, ostacoli significativi impediscono un’integrazione più profonda. I sentimenti nazionalisti sono forti, come evidenziato da un sondaggio del gennaio 2025 che indica che il 49 per cento degli intervistati giapponesi vede la Cina come una grave minaccia alla sicurezza, mentre il 55 per cento dei sudcoreani ha opinioni sfavorevoli sulle intenzioni regionali del Giappone. Ciò crea sfide per raccogliere sostegno interno per iniziative politiche congiunte. A Taiwan, i dibattiti sull’identità e l’allineamento economico attraverso lo stretto mostrano che il 42 per cento dei cittadini è cauto riguardo a una più profonda integrazione, complicando gli sforzi per formalizzare la partecipazione ai forum multilaterali. Inoltre, la coercizione economica è diventata uno strumento di stato; a metà del 2024, i controlli cinesi sulle esportazioni di gallio e germanio hanno imposto una stima di 18 miliardi di dollari in costi aggiuntivi alle industrie dei semiconduttori a valle in Giappone e Taiwan. Allo stesso tempo, la Corea del Sud deve affrontare pressioni intensificate per navigare negli obblighi dell’alleanza concorrenti a causa delle restrizioni sulle esportazioni di tecnologia, in particolare nella microelettronica avanzata e nell’intelligenza artificiale. Queste dinamiche sottolineano un paradosso: l’integrazione economica rimane politicamente profonda e la concorrenza strategica minaccia costantemente di svelare i guadagni reciproci. Gli sforzi di diversificazione della catena di approvvigionamento hanno iniziato a rimodellare i modelli di commercio, con Giappone e Taiwan che hanno investito 25 miliardi di dollari in capacità di produzione alternativa di semiconduttori al di fuori della Cina tra il 2023 e il 2025, e le partnership con la Corea del Sud che accelerano nel sud-est asiatico per l’elettronica di assemblaggio del valore di 18 miliardi di dollari. L’alto costo del disaccoppiamento, a circa 45 miliardi di dollari di PIL perso in quattro economie di valore se le catene dovessero frammentarsi completamente, suggerisce che l’interdipendenza funziona ancora come una forza che frena l’escalation dei conflitti. Eppure lo spettro delle misure commerciali improvvise armate rimane reale; tariffe e aumenti inaspettati, divieti di esportazione potrebbero infliggere danni economici sproporzionati data la densità del commercio intraregionale. Per utilizzare la cooperazione economica come mezzo per raggiungere una stabilità regionale duratura, i responsabili politici dovrebbero dare priorità a partenariati specifici del settore che riducano le preoccupazioni per la sicurezza massimizzando i benefici condivisi. Le infrastrutture energetiche verdi, la salute pubblica digitale e l’agricoltura resiliente al clima sono aree eccellenti per la collaborazione trilaterale e quadrilaterale, in quanto non rientrano in interessi militari o di intelligence immediati. Il finanziamento congiunto di ricerca e sviluppo, proposto a 8 miliardi di dollari all’anno e gestito attraverso un segretariato ampliato Cina-Giappone-Corea, potrebbe accelerare i progressi tecnologici nel combustibile idrogeno, nell’eolico offshore e nella cattura del carbonio. Allo stesso tempo, i quadri istituzionali devono adattarsi: se RCEP dovrebbe creare un meccanismo informale di osservazione per Taiwan che consenta la partecipazione a comitati settoriali senza pregiudicare le posizioni sovrane, e il vertice Cina-Giappone-Corea incorpora un sistema di allarme precoce economico con indicatori trasparenti, come restrizioni di credito improvvisi oni aggiustamenti tariffari improvvisi, per segnalare i rischi emergenti. Anche i quadri istituzionali devono adattarsi. RCEP dovrebbe istituire un meccanismo di osservazione informale per Taiwan, consentendo la sua partecipazione a comitati settoriali senza compromettere la sovranità. Inoltre, il vertice Cina-Giappone-Corea dovrebbe implementare un sistema di allarme economico precoce con indicatori trasparenti, come improvvise restrizioni al credito o brusche variazioni tariffarie, per identificare i rischi emergenti. Le hotline del commercio delle controversie sotte da alti funzionari del ministero potrebbero offrire consultazioni e rapidamente disinnescare le ritorsioni unilaterali. Nel frattempo, i consigli d’affari e i consorzi accademici, nell’ambito della diplomazia di Track II, possono sviluppare reti transfrontaliere che rimangono isolate dai cicli elettorali. In conclusione, implementando partnership settoriali mirate, innovazioni adattive istituzionali e protocolli di risposta rapida, l’Asia orientale può trasformare la sua fitta rete in un cuscinetto affidabile contro i conflitti geopolitici. Mentre l’integrazione economica non eliminerà tutti gli attriti, rafforzerà le dipendenze reciproche e stabilirà canali chiari per il dialogo sulla prevenzione dei conflitti. Insieme, Cina, Corea del Sud, Giappone e Taiwan possono migliorare la resilienza regionale, ridurre i rischi di errori di calcolo e posare le basi per una pace e una prosperità sostenibili. [...] Read more...
6 Maggio 2025I laburisti e i conservatori hanno tre anni per cambiare le cose e riconquistare la fiducia degli elettori. E sarà tutt’altro che facile   Le elezioni locali tenutesi in Inghilterra giovedì scorso sono state un altro momento fondamentale nella politica britannica? Il successo del partito populista di estrema destra Reform UK, che ha ottenuto 677 seggi in consiglio, minaccia di frantumare il sistema bipartitico che ha dominato la politica del paese per più di un secolo. Sia il Partito Laburista al governo che il Partito Conservatore di opposizione hanno avuto una notte lividi. Nessuno di questi due colossi dell’establishment ha fatto appello agli elettori, il che significa sfide sismiche ai loro partiti e leader. Naturalmente, non è solo in Gran Bretagna che i partiti tradizionali hanno sofferto negli ultimi anni. Dove sono i repubblicani francesi e il Partito Socialista? E negli Stati Uniti, il tradizionale Partito Repubblicano è effettivamente crollato ed è stato preso in assalto dal movimento “Make America Great Again” di Donald Trump. I partiti anti-establishment sono in aumento, a sinistra e a destra, in tutta Europa. Circa un terzo degli europei ora vota per i partiti non tradizionali. La fedeltà al partito sta calando e le tendenze degli elettori sono più mutevoli. Suggerisce un’insoddisfazione diffusa in un momento di crisi economica e politica identitaria. Quindi, ciò che sta accadendo in Gran Bretagna è tutt’altro che unico. La domanda nella mente di molte persone è se questo possa dare un impulso al viaggio di Nigel Farage a Downing Street. Il leader di Reform potrebbe diventare primo ministro? Questa è una domanda valida. Ha il talento politico ed è uno dei comunicatori politici più efficaci del paese. È un marchio, è riconoscibile ed è un sempre presente nei media. L’opportunismo è il suo forte e non c’è un carro su cui non salterà se aiuta la sua ascesa al potere. La riforma ha trasformato le previsioni psefologiche in realtà di voto. Da quando il governo laburista sotto Keir Starmer è salito al potere la scorsa estate, i sondaggi d’opinione hanno mostrato che la riforma è aumentata rapidamente. Le elezioni della scorsa settimana sono state la prima volta che questo potrebbe essere trasmesso in reali guadagni politici, tra cui un quinto membro del Parlamento grazie a un’elezione suppletiva in cui una grande maggioranza laburista è stata rovesciata. Sarebbe imprudente per i laburisti e i conservatori vedere questo solo come un voto di protesta. La disaffezione sembra essere più profonda di questo, nella misura in cui sempre più elettori sono pronti a fidarsi di Reform con il loro voto. Ma un’elezione generale non è probabile fino al 2029. Molto cambierà da qui ad allora. Il Labour potrebbe riprendersi dalle difficili decisioni finanziarie che ha preso finora, compresa l’imposizione di tasse impopolari. I conservatori potrebbero abbandonare il nuovo leader inefficace Kemi Badenoch, ma per chi? Alcuni ipotizzano un ritorno per Boris Johnson, l’unico politico di destra che può competere per il tempo di trasmissione con Farage e andare testa a testa con lui. La riforma ha le sue debolezze. Dipende quasi totalmente da Farage. Senza di lui, crolla, piuttosto come potrebbe MAGA senza Trump. Sotto Farage, ci sono anche alcuni personaggi estremamente poco attraenti con opinioni che il loro leader non vorrebbe che fossero trasmesse. La riforma è anche lacerata da controversie di personalità. E come nuovo partito ha poca esperienza di governo effettivo, quindi, mentre inizia a prendere il controllo dei consigli locali, le prestazioni della riforma saranno valutate da vicino. Le politiche della riforma devono ancora subire il tipo di analisi forense che porterebbe un’elezione generale. Gli elettori vogliono che l’economia rimetta sulla strada giusta, ma cosa offre la riforma qui? Una posizione anti-immigrazione è nel suo DNA, ma ha le soluzioni? Le persone saranno scordeggiate dal suo approccio islamofobo e da quello che molti vedono come razzismo sottilmente mascherato in termini di atteggiamenti nei confronti degli immigrati? In che misura il Trumpismo ha influenzato le questioni? Ha potenziato le forze populiste in tutta Europa e altrove. Il movimento MAGA ha ispirato molti. Ai suoi seguaci piace vedersi come insorti. Eppure, contro questo, Trump è anche una responsabilità. Le sue politiche tariffarie sono appena benvenute al di fuori degli Stati Uniti. La vicinanza di Trump al presidente russo Vladimir Putin è anche un problema per artisti del calibro di Farage, che è consapevole di non voler essere scelto come burattino di Mosca. Essere pronti a resistere a Trump sembra offrire un vantaggio elettorale in alcuni paesi. Il Partito Liberale era giù e fuori in Canada, ma gli attacchi di Trump hanno permesso a Mark Carney di rivendicare una vittoria improbabile. In Australia, Anthony Albanese ha vinto un secondo mandato schiacciante contro un avversario definito Trump australiano. I laburisti e i conservatori hanno tre anni per cambiare le cose e riconquistare la fiducia degli elettori. Questo sarà tutt’altro che facile. I laburisti possono fare appello alla sinistra e al centro della politica britannica, che eviterà la riforma, così come le minoranze etniche, che avranno paura. I conservatori affrontano la scelta familiare se abbracciare la riforma – forse anche fondersi con essa per creare un unico blocco politico di destra – o trovare un modo per differenziarsi più chiaramente dal suo rivale. Non sorprenderti se Badenoch ha una breve durata di vita come leader. In ogni caso, la politica britannica è in una corsa accidentata. Ciò che l’elettorato desidera è un governo competente con un piano realistico. L’errore sarebbe che altri partiti imitassero Reform come la via da seguire. Questo è stato un voto “una piaga su tutte le vostre case”. La soluzione per i partiti mainstream è migliorare il loro gioco o affrontare l’oblio. [...] Read more...
6 Maggio 2025Israele annuncia l’occupazione (e quindi l’annessione?) dell’intera Gaza e dello «spostamento» della sua popolazione   Tutto si può dire, proprio tutto quello che si vuole su Israele e la sua politica, ma non si può in nessun caso negare che ha sempre fatto quello che ha detto. Magari in tempi prolungati, nascondendo la mano, fingendo di essere distratta, ma sempre. Del resto, gli ebrei o meglio i sionisti, da molto prima della nascita dello stato di Israele si sono proposti, dopo avere scartato la Patagonia e l’Uganda e non sono che altro, di stabilirsi in Palestina, fuggendo (solo in parte in verità) proprio da quella Europa, in particolare orientale, che li discriminava, li minacciava in termini deliberatamente razzisti, sia pure spesso venati da contrasti di carattere religioso. In conseguenza, di quella decisione, a partire dall’inizio del ‘900 molti, per lo più, europei si trasferirono a vivere in Palestina, dove, checché una mentalità colonialista ben nota dicesse, già vivevano altri popoli. ‘Trasferirsi’ non voleva evidentemente dire andarvi in villeggiatura, ma chiaramente e esplicitamente: andarvi per costituirvi uno stato per gli ebrei e per i sionisti, là, dove inizialmente uno ‘Stato’ non c’era, ma una popolazione sì: fino al 1918 sotto dominazione ottomana, dal 1918, spezzato arbitrariamente in due parti, sotto dominazione britannica, dal 1947 in parte sotto dominazione dello stato di Israele, in altra parte sotto occupazione egiziana (la odierna striscia di Gaza) e in altra, infine, annessa (ma poi progressivamente erosa dalla occupazione israeliana a partire dal 1967) da quel re di Giordania, inventato dalla Gran Bretagna per governare quel pezzo di Palestina che sua maestà britannica aveva deciso di distaccare dalla Palestina, chiamandola Giordania, per compensarne il re Hussein, cui prima aveva promesso parte dell’Arabia Saudita. Ma questa è storia, banale e molto sommaria. Come è storia banale (cioè ben nota, anche se non ricordata) che fin dall’inizio la popolazione ebraico-sionista immigrata in Palestina, si trovò a dovere competere con la popolazione già ivi residente, che, ostile alla occupazione altrui, rendeva difficile se non impossibile costituire uno Stato per gli immigrati ebreo-sionisti, in presenza di una maggioranza di popolazione non ebrea-sionista sul territorio prescelto. Colpisce oggi, e colpisce in maniera in gran parte positiva, ma in altra parte molto negativa, una intervista di Liliana Segre, senatrice a vita della Repubblica, che fino ad oggi ha pochissimo se non nulla parlato della situazione in Palestina, ma che lo fa oggi, finalmente, con una intervista sul ‘Corriere della Sera’ dove esordisce affermando: «Vedo due popoli, quello israeliano e quello palestinese, in trappola, incapaci di liberarsi da una sorta di condanna a odiarsi e a combattersi a vicenda …  il fanatismo teocratico e sanguinario di Hamas e delle altre fazioni terroristiche che hanno provocato la nuova guerra. Ma, senza con questo confondere un esecutivo democraticamente eletto con un gruppo terroristico, sento anche una profonda repulsione verso il governo di Benjamin Netanyahu e verso la destra estremista, iper-nazionalista e con componenti fascistoidi e razziste al potere oggi in Israele», per poi aggiungere: «È chiaro che, dopo un trauma come quello del 7 ottobre, qualunque governo israeliano avrebbe reagito con durezza. Ma la guerra a Gaza ha avuto connotati di ferocia inaccettabili e non è stata condotta secondo i principi umanitari e di rispetto del diritto internazionale che dovrebbero guidare Israele» Non conosco Liliana Segre, non ne ho un indirizzo e non seguo i ‘social’ e quindi non solo non faccio gli insulti dei quali giustamente si lamenta, ma nemmeno li conosco. Però, mi piacerebbe discutere pacatamente con lei almeno su alcune sue affermazioni. 1. La definizione di “popolo” implica un legame territoriale storico: quello palestinese lo ha, quello ebraico è un popolo di immigrati; 2. Al di là delle (spesso discutibili) “forme” della democrazia, non basta una elezione legittima a rendere lecite le cose che l’eletto fa: Mussolini, Hitler per fare degli esempi. E nemmeno lo fa la trasformazione in “autarchia” o simili di un “regime democratico”: Putin o Trump come molti dicono; 3. Hamas non rappresenta, forse, tutto il “popolo” palestinese, ma ne è una parte rilevante e riconosciuta da moltissimi palestinesi come un referente attendibile, cioè come un o una parte di un Movimento di Liberazione nazionale, legittimato dal diritto internazionale a esercitare la garanzia della autodeterminazione dei popoli e cioè legittimato ad usare la forza, nel rispetto (attivo e passivo) delle Convenzioni Ginevra ecc.: talvolta non accade, i Tribunali servono a questo, per tutti; 4. Nel diritto internazionale “volere” una cosa non vuol dire averne diritto. Volere una cosa sbagliata non implica perdere il diritto ad avere quella che spetta legittimamente; 5. Nel 1990 un ebreo-sionista Iztak Rabin, redasse un trattato con un arabo-palestinese mussulmano, Yasser Arafat, che risolveva il problema dei “due stati”. Israele, nega, morto Rabin, che quel trattato abbia valore e comunque lo ha stracciato, con la collaborazione del presidente USA Clinton, che lo aveva firmato per garanzia. Ma il diritto internazionale afferma che i trattati vanno rispettati da tutte le parti e in tutte le loro parti; 6. Infine, e questo nemmeno è un problema marginale anche se ignorato finora dalla Comunità internazionale, con la propria legge fondamentale sulla natura dello stato di Israele, quest’ultima si è auto-definita uno stato razzista; va senza dire che in Israele manca un organismo come il (secondo me provvidenziale) Bundesamt für Verfassungschutz, che possa “avvertire” gli organi responsabili dello stato e il suo popolo, del rischio di diventare razzista a tutti gli effetti Se ne potrebbe discutere con pacatezza e rispetto reciproco, magari non pretendendo di decidere a priori cosa nel diritto internazionale sia il genocidio, così come l’aggressione, ecc. Specie nello stesso giorno, nelle stesse ore in cui Israele annuncia l’occupazione (e quindi l’annessione?) dell’intera Gaza e dello «spostamento» della sua popolazione: art. 6,c Statuto della Corte Penale Internazionale: «Deliberately inflicting on the group conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part». Sono certo che la signora Segre conosce perfettamente l’inglese! Si potrebbe, ma non mi illudo. [...] Read more...
5 Maggio 2025Tra le crescenti tensioni in Medio Oriente, sta emergendo un quadro inaspettato: Donald Trump, che ha perseguito le politiche più dure contro l’Iran durante il suo primo mandato, sta ora, attraverso negoziati indiretti, ponendo le basi per quello che alcuni chiamano un “grande affare” con Teheran. Eppure, proprio mentre il profumo della diplomazia inizia a riempire l’aria, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha intensificato le minacce e le posizioni militari, avvertendo incessantemente di un “attacco imminente” all’Iran. Questo momento non è una coincidenza. Motivato da interessi personali e ambizione politica, Netanyahu sta mettendo da parte anche il suo alleato di lunga data Trump nel tentativo di sabotare questa potenziale svolta diplomatica, sfidando non solo l’accordo in sé, ma la credibilità di Trump come leader globale. L’accordo di Trump con l’Iran: un sorprendente ritorno alla diplomazia? Per Trump, un nuovo accordo con l’Iran potrebbe servire non solo come vittoria simbolica della politica estera, ma anche come strumento strategico per consolidare la sua posizione interna. In caso di successo, un tale accordo fornirebbe risultati tangibili per la sua amministrazione, tra cui mostrare la sua capacità di risolvere una delle sfide diplomatiche più complesse del mondo, che lui stesso ha approfondito ritirandosi dall’accordo nucleare del 2015 nel 2018. Percependo un’opportunità, Trump si è posizionato come un maestro negoziatore, fissando scadenze e insistendo sul fatto che qualsiasi risultato deve essere, nelle sue parole, “preferibilmente pacifico”, mantenendo anche le opzioni militari, come il tacito sostegno all’azione israeliana, sul tavolo. Questo potenziale accordo potrebbe neutralizzare le critiche dei conservatori hardline e di alcuni all’interno del suo stesso partito che hanno messo in discussione le sue aperture diplomatiche nei confronti dell’Iran. Potrebbe anche deviare gli attacchi dei democratici che hanno ritratto la sua politica estera come irregolare e senza agenda. Ribadendo che “l’Iran non deve mai ottenere un’arma nucleare”, Trump tenta di proiettare la forza abbracciando la diplomazia. Il suo approccio a doppio binario, che combina pressione e negoziazione, gli consente di fare appello sia ai sostenitori nazionali che favoriscono la “massima pressione” sia a un pubblico internazionale desideroso di de-escalation. Ma proprio come Trump sembra pronto a giocare questa carta vincente diplomatica, Benjamin Netanyahu interviene per complicare l’equazione. Nonostante sia stato uno degli alleati più stretti di Trump durante il suo primo mandato, beneficiando degli Stati Uniti Il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme e il ritiro dall’accordo con l’Iran – Netanyahu ora vede con sospetto i rinnovati colloqui tra Stati Uniti e Iran. Ha ripetutamente affermato che qualsiasi nuovo accordo deve portare al completo smantellamento del programma nucleare iraniano. Netanyahu: un giocatore che si rifiuta di lasciare il palco Per anni, Netanyahu ha trasformato “il timore sull’Iran” in uno strumento per consolidare il potere interno e garantire il sostegno straniero. La guerra, o anche la minaccia di essa, è stata a lungo centrale nella sua strategia di sopravvivenza politica. Ma ora affronta un enigma: se Trump, il suo ex alleato, raggiunge un accordo con l’Iran, cosa succede a quella narrazione di sopravvivenza? Cosa succede al discorso accuratamente elaborato della “minaccia iraniana” su cui ha investito così tanto? Questo è il motivo per cui Netanyahu preferisce l’opposizione al sostegno. La sua retorica aggressiva, le rivelazioni unilaterali dell’intelligence e le minacce di guerra imminente fanno tutti parte di uno sforzo per delegittimare l’iniziativa diplomatica di Trump. In sostanza, è diventato uno spoiler, non solo dell’accordo, ma del momento di Trump. Netanyahu come alleato che non è più Le recenti dichiarazioni di Netanyahu sul fatto che l’Iran sia “vicino che mai” a costruire una bomba, insieme alle minacce dirette del suo gabinetto contro Teheran, dipingono efficacemente Trump come un presidente “debole”. Non solo Netanyahu sta mettendo in discussione la leadership di Trump, ma sta anche, nei modi più sottili, incoraggiando gli oppositori nazionali di Trump, democratici e neoconservatori allo stesso modo, a rivolgersi contro di lui. Netanyahu si sta evolvendo in un alleato che non si comporta più come uno. Trump, da solo sul campo di battaglia diplomatico? Per Trump, superare la resistenza interna negli Stati Uniti è già un compito formidabile. Affronta la pressione delle tradizionali lobby pro-israeliane, dei senatori falconi e dei media conservatori. Ciò che rende la situazione ancora più complicata è lo stesso Netanyahu, un alleato che avrebbe potuto sostenere l’accordo, ma ora sta lavorando attivamente per distruggerlo. Questo non solo indebolisce Trump all’interno del Partito Repubblicano; consegna potenti punti di discussione ai democratici desiderosi di ritrarlo come instabile e inadatto a ripristinare la leadership globale dell’America. Una pace, due nemici A prima vista, può sembrare che le maggiori minacce a un accordo Trump-Iran siano repubblicani falcati o estremisti iraniani. Ma la realtà è più sfumata. Netanyahu, guidato da calcoli personali e politici, si sta sforzando di far deragliare la pista diplomatica e riportare la regione al confronto. Sa che un accordo di successo non solo aumenterebbe la statura di Trump, ma diminuirebbe anche il ruolo di Israele nel plasmare la strategia americana del Medio Oriente. E per un primo ministro che ha costruito il suo potere sul controllo della narrativa intorno all’Iran, questo è inaccettabile. Alla fine, se si raggiungerà un accordo, dovrà superare la resistenza non solo da Teheran o Washington, ma anche navigare in un campo minato posato dallo stesso Netanyahu. E se Trump riesce ad attraversare quel campo ed emergere vittorioso, potrebbe ancora mostrare una sorta di leadership che anche i suoi critici faranno fatica a respingere. [...] Read more...
5 Maggio 2025Il primo ministro britannico Keir Starmer ha incontrato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a Londra alla fine del mese scorso per discutere del futuro delle relazioni Regno Unito-UE. Lo scopo principale dell’incontro era quello di prepararsi per un vertice più ampio tra Londra e Bruxelles questo mese che si concentrerà sulla formalizzazione della cooperazione in materia di sicurezza e difesa. Dallo storico referendum del 2016 che ha portato il Regno Unito a lasciare formalmente l’UE quattro anni dopo, c’è stato un dibattito politico in corso su come dovrebbero essere le future relazioni tra il Regno Unito e l’UE. Starmer l’anno scorso ha fatto una campagna per allineare il Regno Unito più strettamente con l’UE, ma finora ha agito con cautela, consapevole che molti elettori laburisti hanno sostenuto la Brexit. Allo stesso tempo, ha cercato di distinguersi dai suoi predecessori conservatori, che erano ampiamente visti come presiedenti a negoziati caotici e improduttivi con Bruxelles. Nel manifesto elettorale del Partito Laburista del 2024, è stato preso un chiaro impegno a stabilire un nuovo patto di sicurezza con l’UE. Entrambe le parti sperano che questo accordo sia finalizzato alla fine di questo mese. Sia Londra che Bruxelles vogliono un accordo di sicurezza, ma per ragioni diverse. Per Starmer, è un’opportunità per dimostrare che rappresenta una rottura netta dal passato e può ripristinare il rapporto del Regno Unito con l’Europa. Che il primo importante accordo si concentri sulla difesa e la sicurezza non è un caso: questa è un’area politica in cui il Regno Unito ha punti di forza significativi e può portare molto sul tavolo. Il Regno Unito ha uno dei più grandi bilanci di difesa in Europa, una presenza militare globale e ampie capacità di intelligence e sicurezza informatica. Anche dal punto di vista dell’UE, un accordo è urgente. Il blocco ha recentemente annunciato un’iniziativa 150 miliardi di euro (169 miliardi di dollari) per investire nell’industria europea della difesa. Ma senza un accordo formale con il Regno Unito, le società di difesa britanniche saranno in gran parte escluse dalla partecipazione. La cooperazione con il Regno Unito migliorerebbe le capacità dell’Europa e rafforzerebbe la sicurezza transatlantica. Nonostante l’amarezza persistente legata alla Brexit in alcuni angoli di Bruxelles, la realtà geopolitica è che l’UE non può mai essere pienamente sicura senza una stretta collaborazione con la Gran Bretagna. Il Regno Unito è stato una grande potenza europea per secoli e questo rimarrà il caso indipendentemente dal suo status di appartenenza all’UE. I funzionari dell’UE sperano che il successo nel forgiare un accordo di difesa questo mese possa creare slancio per una cooperazione più profonda in altri settori, in particolare nella pesca. Poche questioni sono così controverse nell’UE come i diritti di pesca. Determinare quale paese può pescare dove, e quanto, rimane profondamente politico. In effetti, è uno dei motivi chiave per cui paesi come la Norvegia hanno scelto di rimanere fuori dall’UE. Attualmente, il Regno Unito e l’UE sono in una fase di transizione fino a giugno 2026, durante la quale gli Stati costieri dell’UE possono ancora pescare nelle acque britanniche. Alcuni funzionari dell’UE hanno lasciato intendere che i progressi nella cooperazione in materia di difesa potrebbero dipendere dal fatto che il Regno Unito offra garanzie sul futuro accesso alla pesca. Per lo meno, Bruxelles spera che accogliere il Regno Unito sulla difesa – una questione importante per Londra – generi reciprocità sulla pesca, che è una questione importante per l’UE. Al di là delle tensioni bilaterali, gli eventi globali stanno spingendo il Regno Unito e l’UE verso una maggiore cooperazione in materia di difesa. La prima è l’invasione su vasta scala della Russia dell’Ucraina nel 2022, che è servita come campanello d’allarme in tutto il continente. Ha ricordato ai responsabili politici che le affiliazioni istituzionali sono secondarie al bisogno più urgente di sicurezza e deterrenza. I dibattiti sul ruolo dell’UE nella difesa rispetto alla NATO, che in precedenza consumava così tanta larghezza di banda politica, ora sembrano quasi irrilevanti di fronte a un pericolo così chiaro e presente. Senza l’aggressione della Russia, è probabile che oggi ci sarebbe molta meno enfasi sulla necessità di rinnovati accordi di sicurezza UK-UE. Il secondo è il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Durante il suo primo mandato, Trump ha criticato gli alleati europei per aver sottoinvestito nella propria difesa, una critica che molti europei hanno riconosciuto come giusta. In risposta, gli stati europei hanno iniziato ad aumentare la spesa militare. Tuttavia, il secondo mandato di Trump ha portato un tono ancora più acuto, con Washington che ha dichiarato apertamente una guerra commerciale all’UE e ha segnalato un perno per l’Asia orientale nella sua pianificazione della difesa. Ciò ha ulteriormente galvanizzato i leader europei a guardare verso l’interno e rafforzare le loro capacità di difesa collettiva. Tuttavia, c’è il rischio che una più stretta cooperazione tra Regno Unito e UE possa venire a scapito delle relazioni speciali del Regno Unito con il primato degli Stati Uniti o della NATO nella sicurezza europea. Questo rischio deve essere gestito con attenzione. Il Regno Unito è stato storicamente uno dei più forti sostenitori della NATO e ha spesso agito a Bruxelles per bloccare le iniziative di difesa dell’UE percepite come duplicate della NATO. Qualsiasi nuovo patto con l’UE deve preservare il ruolo centrale della NATO nella difesa europea, consentendo al contempo la collaborazione in aree in cui l’UE può svolgere un ruolo complementare, come le minacce informatiche, la guerra ibrida, la sicurezza energetica, la protezione delle infrastrutture e la lotta alla disinformazione. Mentre era ancora nell’UE, il Regno Unito ha perseguito accordi di difesa bilaterali con i paesi europei, in particolare i trattati di Lancaster House del 2010 con la Francia. Questi accordi avevano lo scopo di dimostrare che la Gran Bretagna poteva assumere un ruolo di leadership nella difesa europea al di fuori delle strutture dell’UE. Ora, dopo aver lasciato il blocco, il Regno Unito sta naturalmente cercando di integrare queste relazioni bilaterali con un accordo formale con Bruxelles, senza minare il ruolo essenziale della NATO. Non ci sarà dubbio scetticismo da parte di alcuni sostenitori della Brexit e commentatori euroscettici nel Regno Unito su qualsiasi cooperazione formale per la difesa con l’UE. Ma finché è fatto in un modo che dia priorità alla NATO e renda il continente europeo più sicuro, potrebbe rappresentare un vantaggio per tutte le parti. L’UE ottiene un partner più forte e più capace in materia di difesa e il Regno Unito riafferma il suo ruolo di leadership nella sicurezza europea, garantendo al contempo che le sue alleanze con Washington e Bruxelles siano adatte alle sfide geopolitiche di oggi. [...] Read more...
5 Maggio 2025Il fondatore dei salesiani ha dato vita agli oratori, coniugando sport ed evangelizzazione, vacanze e cerimonie religiose, lavoro ed istruzione. Si tratta di civismo operativo ed in presa diretta che crea ‘cittadini con cittadinanza agita’   Nel 1844, il Congresso degli scienziati italiani, in nome della filantropia, si poneva come mainstream culturale la necessità di conservare la manodopera infantile portando come motivazione che, solo con il lavoro di fanciulli, le fabbriche italiane potevano fronteggiare il mercato internazionale (si ricorda che nello stesso anno  in  Piemonte si impiegavano 7.184 fanciulli sotto i dieci anni in fabbriche di seta, lana e cotone). Un prete di nome Don Bosco, nel 1854, dopo 8 anni di estenuante lavoro all’oratorio di Torino Valdocco si metteva di traverso a questa cultura contro i diritti umani. Giovanni Spadolini definiva Don Bosco “come nome accettato dalla morale civile italiana per l’apporto che aveva dato alla causa del proletariato, dell’avanzamento del popolo tramite  la grande complessa e universale organizzazione dei Salesiani”. E lo statista diceva: “È un Don Bosco che ha fatto parte dell’ Italia civile e minuta, che noi vorremmo chiamare perenne, al di là delle polemiche ormai consumate tra Stato e Chiesa.” Questo prete confessava il suo duplice obiettivo sacerdotale in questi termini : “Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio e a vantaggio delle anime ed intesi di operarmi per fare buoni cittadini in questa terra perché fossero poi un giorno degni degli abitatori del cielo “. E tutto questo avveniva negli oratori. In effetti gli oratori, a tutt’oggi, sono le filiali operative delle varie diocesi: evangelizzazione, sport (primeggia il calcio con più di una squadra di  calcio dei ragazzi che comunque vengono allenati da volontari, ma hanno assistenza da parte di massaggiatori e quant’altro che comunque spesso sono pagati), assistenza sociale, cultura, orientamento ed aggregazione per gli anziani e così via . Oltre allo svago, i migliori oratori si impegnano nel sociale facendo doposcuola, visitando a casa gli anziani, trovando un posto di lavoro per gli immigrati. Quando si ha bisogno di una colf si pensa subito al parroco ed all’assistISCsociale che lavora all’oratorio e spesso queste colf sono extracomunitarie. Il cineforum, il teatro, la biblioteca con i libri a prestito fanno cultura. E si raccolgono carta e stracci che si vendono per finanziare progetti concreti in Italia e  nel mondo. Si affittano le sale per le riunioni condominiali. Spesso c’è un bar dove un tempo si beveva la spuma (nera, arancione), ora il crodino e dove sì riuniscono per una partita a carte i pensionati e gli anziani. Nelle piccole e grandi città non mancano gli oratori con l’intento di orientare ragazzi e ragazze. In sintesi, punto di aggregazione e di servizi (oggi gli ‘oratori estivi’ sono parte integrante dell’economia perché i genitori che lavorano non saprebbero a chi affidare i propri figli salvo l’ancora di salvezza dei nonni). Gli oratori insegnano a stare insieme (solitamente dagli 11 ai 19 anni) e fanno coesione ed inclusione. Questo è il contributo degli oratori al civismo operativo che non è sviluppato neanche nelle scuole. Ed inoltre, per non cadere nella retorica, si è fatta una ricerca sugli oratori di Milano (2022/2023). Si è disegnata la mappa della città a 10 minuti: infatti, tramite curve isocrone, si sono  disegnate 146 ‘filiali’ raggiungibili a 10’ a piedi e centri di servizi di prossimità per la popolazione (gli oratori in Lombardia sono 2400 e sono espressione di 3068 parrocchie ;in Italia sono circa 6000). Si deve sottolineare che i segmenti dei giovani dagli 11 ai 18 anni si muovono tendenzialmente a piedi. In media ogni oratorio della Lombardia è frequentato da 180 bambini e ragazzi di cui 54% è rappresentato dalla fascia di età dei bambini fra i sei e i 12  anni. Questi centri di aggregazione giovanile rappresentano, in alcuni punti della città, l’unica offerta strutturata e flessibile (7 giorni su 7) ed organizzata, di inclusione ed aggregazione sociale. Le diverse generazioni si confrontano: ragazzi e ragazze si impegnano in progetti sociali con una attenzione particolare per i più giovani, con una missione pedagogica che integra culture ed etnie diverse valorizzando le diverse origini e confrontando ‘usi e costumi diversi’. Senza colonialismo culturale. E’ la mixité in presa diretta. Molti di questi ‘bravi ragazzi dell’oratorio’ diventano animatori per i più piccoli e costruiscono anche un pezzo di ‘soft skills’ tanto apprezzato dalle imprese. Un tempo erano considerati “solo bacia pile”,non mondani e residuali. Neanche la pandemia ha fermato gli oratori. Riconosciamo che queste attività sono il civismo operativo ed in presa diretta (la città a 10’ non a 15’) e si creano ‘cittadini con cittadinanza agita’. Ma gli oratori vengono da lontano: San filippo Neri, San Giovanni Bosco hanno creato la griffe degli oratori; hanno coniugato sport ed evangelizzazione, vacanze e cerimonie religiose. Interessante constatare che Don Bosco con i suoi oratori gestiva opere educative per i giovani per educarli ad essere onesti e capaci lavoratori per avere un uso intelligente del tempo libero come interpreti ed operatori del comune senso civico. Negli oratori si accoglievano giovani lavoratori, apprendisti merciai ambulanti, venditori di zolfanelli, lustrascarpe, spazzacamini, scalpellini, muratori, mozzi di stalla, distributori di foglietti, garzoni di bottega, servitorelli di negozianti ed erano tutti lontani dalla famiglia, dal paese. Erano semplicemente poveri ed abbandonati. E Don Bosco li difendeva e faceva coesione sociale nel ‘cortile’ dell’oratorio festivo (dove si superava l’isolamento) e promuoveva la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro. Una chiave di svolta fu anche nel 1849, quando si entrò nella dimensione delle società di mutuo soccorso e di mutuo appoggio; allora essa non era regolata  dalle leggi, ma aveva il fine  mutualistico previdenziale e assicurativo. Tutto questo era considerato una forma di autoprotezione per giovani che frequentavano l’oratorio. C’era un regolamento che stabiliva che lo scopo di questa società di mutuo soccorso era di prestare soccorso a quei compagni che cadessero infermi o si trovassero nel bisogno perché involontariamente privi di lavoro. Ognuno poteva essere ammesso nella società di mutuo soccorso iscrivendosi alla compagnia di San Luigi, ma ciascun socio pagava un soldo 5 centesimi ogni domenica ed  il soccorso, per ciascun ammalato, era di 50 centesimi al giorno fino al suo ristabilimento imperfetta sanità. Diritti e doveri civici, solidarietà, servizi di prossimità, difesa dei diritti umani ecc.: il civismo degli oratori. [...] Read more...
5 Maggio 2025L’attuale Presidente americano è incapace di fare alcunché, al punto di dichiarare che i due si odiano e lui non sa che farci!     Nella sua splendida omelia durante la Messa per il funerale di Francesco, il Cardinale Re, a prescindere dalla stupida e rituale, ‘proto-femministica’ accusa di non avere parlato delle posizioni sulle donne di Francesco, ha commesso, a mio parere un errore, forse ha detto addirittura una bugia: ha riferito ed elogiato, l’insistenza di Francesco nell’«implorare» la pace. Addirittura, me ne perdonerà il magnifico Cardinale, ha detto una bugia! Purtroppo in gran parte legata alla volutamente distorta interpretazione della frase di Francesco, relativa alla ‘bandiera Bianca’.  Ne ho già scritto, sottolineando che si tratta di una (forse deliberata, forse no, non importa, ormai) falsificazione del pensiero di Francesco. Che, appunto, la pace non la implorava, non la ha mai implorata. La pace la voleva con forza e chiedeva, pretendeva che gli uomini la realizzassero, se del caso, cedendo ciò che, giustamente o ingiustamente, pretendono o dicono di pretendere ‘in nome’ dei rispettivi popoli. Francesco, mi perdoni di nuovo Cardinale Re, parlava, doveva per forza parlare, dei conflitti attuali e non poteva, anzi aveva l’obbligo, di trattare di quei conflitti sulla base della realtà dei fatti … della loro realtà storica, non ideologica o di interesse. L’esatto contrario, cioè, di quello che ha scritto qualche giorno fa, col suo solito tono del “so tutto io, e solo io”, Galli della Loggia, che afferma: «la politica …  serve innanzi tutto a spiegare come stanno realmente le cose, quali sono i veri termini di un problema, perché le cose stanno così e chi ne ha la responsabilità». Verissimo, se solo ci spiegasse quale ‘politico’ lui conosce che fa o abbia mai fatto una cosa del genere, a cominciare da lui stesso – me ne perdoneranno: oggi mi tocca maltrattare i numi o se-dicenti tali – quando poi afferma deciso (e indimostrato): «Ad esempio a informarci chi sia Putin, a informarci circa la continua manipolazione della Costituzione russa che egli ha operato per conservare il potere; ovvero circa le idee reazionarie, imperialiste, revansciste, illiberali, e clericali che ama professare facendone la piattaforma ideologica del suo potere. Ancora: a informarci circa la cerchia di grandi ladri di Stato di cui si circonda … ». Ho parlato spesso di questo conflitto e certo non vi torno ora, basta leggerli di nuovo quegli articoletti (e qualche articolone), mi limito a ricordare che si tratta oggi in realtà di una sorta di ‘venire al dunque’ di una opposizione secolare di un certo mondo politico internazionale, per lo più colonialista o di ‘cultura’ colonialista, alla volontà e alla esigenza russa del cosiddetto ‘sbocco al Mediterraneo’. Esigenza ormai largamente superata, ma non da chi ha inventato non solo la ‘cortina di ferro’, ma anche e specialmente l’idea che la Russia siccome è cattiva (e se lo dice Galli della Loggia sarà pure vero, per carità!) deve essere sotto il controllo-minaccia di missili con testate nucleari a cento metri dai suoi confini e che non debba minimamente reagire. Francesco, tra i suoi ‘torti’ (ecco dove sbaglia il Cardinale) ha avuto quello di capirlo e quindi di trattare ‘freddamente’ (in realtà amorevolmente, permettetemelo!) Zelensky, divenuto la testa di turco di quella ideologia … glielo ha detto chiaro, ma lui aveva e ha altri interessi. Poi, ripeto, della ‘aggressione’ russa si potrebbe parlare più approfonditamente, così come, altrettanto, si dovrebbe parlare della ‘legittima difesa’ russa. Tutti, con tanto di ‘se’ dubitativo! Donald Trump, apprendista stregone, cowboy col pistolone 45 Magnum e che di storia non sa visibilmente nulla (lo dicono i suoi ex-collaboratori!), ha immaginato di potere aiutare a mettere fine o mettere fine del tutto al conflitto con due armi (o pallottole, come direbbe lui): minacciare Zelensky, comprandogli le terra rare (che lo voglia o meno: se non è colonialismo questo!) e offrire a Putin ‘una’ soluzione territoriale o poco più. All’epoca della ‘politica delle cannoniere’ sarebbe bastato, oggi no, è ridicolo! Dimenticando (o meglio, non sapendo) che l’Europa della cortina di ferro avrebbe fatto le barricate (e sorvolo sulla nostra ‘premier’, che non ha alcuna idea di cosa io stia parlando … meno male!) e che avrebbe ‘supportato’ Zelensky in funzione anti-russa … per finta: perché l’Europa (sconvolta del tutto dall’impossibile accordo Francia-Gran Bretagna … ci manca solo Harris!) finge di poter ‘difendere’ Zelenski, anche se non dice perché … (il riferimento, spesso ripetuto alla RESISTENZA italiana è solo un insulto alla resistenza, non per nulla usato dalla destra Conte in testa!) e, in qualche modo ne convince Trump: i famosi ‘ideali’ dell’Europa, puah! Al punto che quest’ultimo, felice di avere ottenuto la caramella delle terre rare (cioè nulla!), ringalluzzisce Zelensky al punto che questo letteralmente MINACCIA la Russia in occasione di una celebrazione storica dei 26.000.000 di morti subiti dalla Russia contro la Germania e l’Italia, mentre da noi si dice che la guerra l’hanno vinta USA e GB! Trump è incapace di fare alcunché, al punto di dichiarare (roba da matti!) che i due si odiano e lui non sa che farci (… mentalità da OK Corral o da avvocato divorzista!). Immaginate cosa potrebbe succedere se, dopo le azioni ridicole della Meloni e le inconcludenti e obsolete di Macron e Starmer, a Mosca nei dintorni della Piazza Rossa il 9 Maggio, scoppiasse un petardo da carnevale! E torno al Cardinale: se leggo bene, il 7 Maggio, si riunisce il Conclave … speriamo, ma davvero speriamo, che l’8 Maggio sera ci sia il nuovo Papa … sia pure un imitatore di Trump: forse salverebbe il mondo e gli esperti e docenti di geopolitica! 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5 Maggio 2025La presenza militare degli Stati Uniti nel nord-est asiatico è stata una caratteristica distintiva della sicurezza regionale sin dall’armistizio coreano del 1953. A partire dal 2025, circa 28.500 membri del personale statunitense sono di stanza in Corea del Sud, fungendo da pilastro centrale della difesa del paese e da deterrente strategico più ampio contro gli avversari regionali. Tuttavia, sotto la sua seconda amministrazione, le richieste del presidente Donald Trump di contributi finanziari significativamente maggiori dalla Corea del Sud hanno sollevato domande sul futuro delle truppe statunitensi nella penisola, introducendo incertezze strategiche durature. Questo cambiamento ha minacciato di minare la stabilità regionale, incoraggiando gli avversari a rafforzare le loro alleanze. Ha evidenziato l’urgente necessità di sforzi diplomatici innovativi, in particolare sfruttando l’ASEAN e l’Indonesia per preservare la pace e la sicurezza nella penisola coreana e oltre. La richiesta di una distribuzione più equa dei costi della difesa ha creato una significativa tensione finanziaria e politica tra Washington e Seoul. Prima dell’intervento di Trump, la Corea del Sud contribuiva con circa 920 milioni di dollari all’anno attraverso l’accordo sulle misure speciali (SMA). Trump ha cercato di aumentare questo importo di cinque volte, con Seoul che ha resistito a una proposta di pagare quasi 5 miliardi di dollari all’anno. Sebbene alla fine sia stata raggiunta una risoluzione dopo intensi negoziati, il dibattito ha evidenziato profonde vulnerabilità nella gestione dell’alleanza. I leader pubblici e politici della Corea del Sud in tutto lo spettro hanno ritenuto che le richieste irragionevoli e umilianti di Trump alimentassero il sentimento antiamericano. Si chiedeva se l’alleanza USA-ROK stesse diventando più transazionale che strategica. Questa inquadratura transazionale dell’alleanza ha eroso la percezione dell’affidabilità dell’America, facendo riconsiderare le loro dipendenze a lungo termine, facendo i responsabili politici sudcoreani. I dubbi sull’impegno militare degli Stati Uniti hanno continuato a creare più ampie incertezze nella sicurezza. La percezione che gli Stati Uniti potrebbero abbandonare il loro alleato, la Corea del Sud, ha incoraggiato il calcolo strategico della Corea del Nord, consentendo a Pyongyang di mantenere una posizione militare aggressiva mentre cercava il dialogo da una posizione di forza percepita. Nel frattempo, altri alleati americani chiave, come il Giappone e i membri della NATO, sono diventati sempre più ansiosi per le garanzie di sicurezza globale di Washington. Se gli Stati Uniti sembrano disposti a mettere a repentaglio la stabilità nel nord-est asiatico per guadagni finanziari, ci si può fidare dei loro impegni in altre regioni? Le richieste di Trump per la condivisione degli oneri e la conseguente incertezza hanno avuto un impatto significativo sulla geopolitica regionale. La Russia ha riconosciuto l’opportunità di espandere la sua influenza. I politici in Russia, che già miravano a indebolire le alleanze globali statunitensi, hanno accolto con favore l’instabilità nell’Asia orientale. Questo ambiente ha permesso a Mosca di promuovere quadri di sicurezza alternativi, come il “meccanismo di pace e sicurezza dell’Asia nord-orientale”, che ha deliberatamente escluso gli Stati Uniti. Nel 2024, Russia e Cina hanno intensificato le pattuglie militari congiunte intorno alla penisola coreana e al Mar del Giappone, inviando un segnale che erano disposti a riempire qualsiasi potere del vuoto lasciato da un restringimento degli Stati Uniti. Ruolo S. Nel frattempo, il Giappone è alle prese con significative preoccupazioni per la sicurezza. Tokyo ha a lungo fatto affidamento sull’ombrello di sicurezza degli Stati Uniti per deterrere le minacce dalla Corea del Nord e, sempre più, dalla Cina. Un ipotetico ritiro delle truppe statunitensi dalla Corea del Sud lascerebbe il Giappone esposto e più vulnerabile alla coercizione regionale. In risposta, il Giappone ha accelerato le riforme alla sua legislazione sulle forze di autodifesa, approvando una misura per consentire operazioni di autodifesa collettiva più proattive in collaborazione con gli Stati Uniti. Contemporaneamente, il Giappone ha cercato di approfondire il suo impegno con iniziative multilaterali di sicurezza come il Quad, cercando garanzie di sicurezza regionale più ampie. La Cina ha visto il potenziale U. S. ritiro dalla Corea del Sud come una benedizione mista. A portata di mano, Pechino ha accolto con favore qualsiasi erosione dell’influenza statunitense nella sua vicina periferia. Potrebbe migliorare il sovradomino strategico della Cina della penisola e rafforzare la sua leadership regionale. Tuttavia, la Cina ha anche riconosciuto che un improvviso crollo dell’ordine di sicurezza potrebbe destabilizzare la Corea del Nord, rischiando il crollo del regime e creando una crisi umanitaria lungo i suoi confini nord-orientali. I flussi di rifugiati, l’insicurezza, le minacce nucleari e le azioni imprevedibili di una disperata Pyongyang erano preoccupazioni significative per la leadership di Pechino. Se le truppe statunitensi si ritirassero dalla Corea del Sud, le conseguenze potrebbero essere significative. La Corea del Nord potrebbe interpretare questa azione come un invito a intensificare l’aggressione militare, portando potenzialmente a provocazioni contro Seoul. In risposta, la Corea del Sud e il Giappone potrebbero cercare di sviluppare le loro capacità nucleari, minando gli sforzi di non proliferazione di lunga data e innescando una pericolosa corsa agli armamenti nella regione. Inoltre, gli alleati americani in Europa, Taiwan e nel sud-est asiatico potrebbero percepire un impegno diminuito degli Stati Uniti per la sicurezza, con conseguente rivalutazione globale delle alleanze. Un vuoto di potere nella penisola coreana sarebbe certamente riempito da un crescente asse sino-russo, la mappa strategica rimodellante del nord-est asiatico. Per prevenire un esito catastrofico, è essenziale dare priorità alle iniziative di ponte diplomatico. Washington e Seoul dovrebbero rivedere e istituzionalizzare gli accordi di condivisione degli oneri attraverso accordi pluriennali a lungo termine che depoliticizzano le controversie finanziarie. Questo approccio proteggerebbe l’alleanza dai cambiamenti nella politica interna e dalle transizioni di leadership. Inoltre, il rafforzamento dei dialoghi multilaterali sulla sicurezza è altrettanto importante. Rivitalizzare il Six-Talks Party con un quadro che rinnovasse un focus non solo sulla denuclearizzazione, ma sulla creazione di un’architettura di sicurezza regionale più ampia potrebbe creare un meccanismo duraturo per la stabilità. Un’importante innovazione sarebbe l’inclusione dell’ASEAN come facilitatore neutrale in questi sforzi. I principi di lunga data dell’ASEAN di non allineamento e costruzione del consenso la rendono un attore credibile e imparziale nell’ambiente polarizzato del nord-est asiatico. Piattaforme come il Forum regionale dell’ASEAN (ARF), che include già sia la Corea del Nord che quella del Sud, offrono opportunità di dialogo e misure di rafforzamento della fiducia. Inoltre, gli Stati membri hanno mostrato le loro capacità diplomatiche ospitando vertici significativi, come l’ospite da parte di Singapore del vertice USA-Corea del Nord nel 2018 e l’ospita del Vietnam nel 2019. L’Indonesia, in quanto più grande membro dell’ASEAN e una potenza media rispettata, potrebbe svolgere un ruolo significativo. Potrebbe proporre una “Iniziativa di pace della penisola coreana” nel quadro dell’ARF. Questa iniziativa si concentrerebbe inizialmente sulla non cooperazione, insieme alla diplomazia politica, culturale e umanitaria, volta a promuovere gli scambi per ricostruire gradualmente la fiducia tra le Coree. Un altro quadro è il Piano di pace di Parigi, dove l’Indonesia ha co-ospitato come presidente con la Francia. La tradizione di neutralità e diplomazia attiva di Giacarta lo rende adatto a mediare tra l’U.S.S.R. e la Cina, così come le due Coree. Il forte impegno dell’Indonesia per la non proliferazione nucleare aumenta la sua credibilità nel sostenere rinnovati sforzi di denuclearizzazione nella penisola, in linea con accordi internazionali come il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP). Migliorare la cooperazione trilaterale tra Corea del Sud, Giappone e Stati Uniti è una pietra miliare della sicurezza regionale. Esercizi militari congiunti regolari, condivisione di informazioni e presentazione di un fronte diplomatico unificato invierebbero un messaggio deterrente forte e coerente agli avversari. Allo stesso tempo, impegnarsi in modo costruttivo con la Cina, attraverso misure che riaffermano l’impegno per la stabilità regionale e le linee aperte di comunicazione militare, può aiutare a mitigare gli errori di calcolo e promuovere accordi di sicurezza cooperativi. In conclusione, le richieste di Trump di condivisione degli oneri hanno sollevato domande sugli impegni militari degli Stati Uniti, influenzando in modo significativo il panorama strategico del nord-est asiatico. Anche se la crisi immediata potrebbe essersi placata, le vulnerabilità rivelate durante quel periodo persistono. La penisola coreana rimane un punto di infiammabilità in cui convergono la competizione delle grandi potenze, la politica delle alleanze e le tensioni nucleari. Inoltre, per preservare la pace e la sicurezza in un ambiente internazionale sempre più complesso, la regione deve ricalibrare la sua gestione delle alleanze e la diplomazia multilaterale con l’assistenza dell’ASEAN e impegnarsi costruttivamente con Cina e Russia. [...] Read more...
3 Maggio 2025Una delle tante aree in cui Elon Musk ha portato la sua motosega è il National Institutes of Health (NIH). Il suo team ha messo fine a casaccio alle sovvenzioni e tagliato i lavoratori in modi che non hanno una logica ovvia. È quasi come se lo scopo fosse quello di minare il progresso medico in ogni modo possibile. Per essere chiari, ci sono sempre modi per tagliare un’agenzia. Indubbiamente, in un budget di 50 miliardi di dollari ci sono alcuni articoli che sono uno spreco. Ci sono anche alcune aree in cui il denaro è più utile che in altre, e trarremmo beneficio da una riallocazione tra i pool di spesa. Ma la strada per combattere questo spreco e l’inefficienza richiede di studiare attentamente dove vanno i soldi. Questo sarebbe il tipo di esercizio che l’ispettore generale del Dipartimento della salute e dei servizi umani, che sovrintende al NIH, farebbe. Ma Trump l’ha licenziata il suo primo giorno in carica. Non ci sono prove che Musk e il suo team DOGE abbiano fatto alcuna analisi delle parti del budget NIH che stavano effettivamente tagliando licenziando il personale e bloccando il pagamento delle sovvenzioni. Il presidente Trump ci ha dato la logica dietro i tagli quando ha detto: “Non ne abbiamo ottenuto nulla”. Non è del tutto chiaro a chi sia il “noi” a cui si riferiva Trump. Potrebbe aver fatto riferimento a ciò che lui e la sua famiglia hanno ottenuto dai finanziamenti NIH. Dato il modo in cui ha gestito la sua presidenza, dove ha venduto apertamente favori politici, non è impossibile che si lamentasse del fatto che i dollari della ricerca della NIH non gli stavano riempiendo le tasche. Ma se vogliamo essere generosi, possiamo prendere il suo commento come un altro esempio dell’incredibile ignoranza di Trump. In realtà abbiamo ottenuto un enorme rimborso sui finanziamenti NIH. Quasi tutti i farmaci che sono stati approvati dalla FDA negli ultimi quindici anni hanno beneficiato della ricerca NIH. Questi farmaci hanno aumentato enormemente i tassi di sopravvivenza da cancro, malattie cardiache e molte altre malattie e condizioni. Forse Trump vuole contestare che abbiamo fatto progressi medici negli ultimi decenni, ma quasi tutti gli esperti medici, insieme ai milioni di beneficiari di questo progresso, non sarebbero d’accordo con lui. Se sabotiamo il flusso di finanziamenti che supporta questa ricerca, è una scommessa sicura che il progresso rallenterà sostanzialmente, a meno che altri paesi non ricoglino il gioco. Per fortuna, molti paesi sembrano pronti a sfruttare questa opportunità. Europa, Canada e altri paesi stanno cercando di assumere molti dei nostri migliori scienziati. Questo potrebbe significare che continueremo a vedere progressi medici, ma l’avanguardia del campo sarà altrove. Non sembra proprio una politica di America First. C’è anche una questione importante sui prezzi che la riduzione o l’eliminazione dei finanziamenti NIH potrebbe influenzare. Secondo la legge attuale, il governo ha diritti di marcia che in linea di principio gli consentono di imporre un prezzo più basso o di costringere licenze obbligatorie in un caso in cui la sua ricerca fosse essenziale per lo sviluppo di un farmaco. Sebbene non abbia mai usato questa autorità, la minaccia di usarla può essere un modo efficace per disciplinare le aziende farmaceutiche e costringerle ad abbassare il loro prezzo. Se i farmaci sono sviluppati da aziende farmaceutiche straniere, senza alcun finanziamento pubblico da parte del governo degli Stati Uniti, perderebbe questo strumento. Ciò potrebbe non avere importanza con l’amministrazione Trump, poiché mostra poco interesse per i prezzi dei farmaci più bassi (ha cancellato i piani per i prezzi dei farmaci negoziati in Medicare per il prossimo anno). Ma potrebbe essere importante con le amministrazioni future che potrebbero considerare i prezzi più bassi dei farmaci un’alta priorità. C’è anche una questione più profonda sul modo in cui finanziamo lo sviluppo dei farmaci più in generale. NIH finanzia principalmente più ricerche di base, ma ci sono stati casi in cui ha effettivamente finanziato lo sviluppo di un farmaco. Ad esempio, l’AZT, che è stato il primo farmaco efficace per l’AIDS, è stato originariamente sviluppato come farmaco antitumorale negli anni ’60, utilizzando i fondi NIH. Non c’è motivo in linea di principio che i fondi pubblici non possano essere utilizzati per portare i farmaci attraverso il processo di sviluppo e test. In questo caso, poiché tutta la ricerca è stata pagata in anticipo, il farmaco potrebbe essere venduto come generico economico il giorno in cui è stato approvato dalla FDA. In quella situazione, i nuovi farmaci contro il cancro sarebbero probabilmente venduti per centinaia di dollari, piuttosto che per centinaia di migliaia di dollari. È raro che sia costoso fabbricare e distribuire effettivamente un farmaco; i prezzi sono alti perché concediamo alle aziende farmaceutiche brevetti monopoli. Non avrebbe senso concedere il monopolio se il governo pagasse per la ricerca. Abbiamo avuto un recente esempio di questo tipo di accordo nella pandemia con l’operazione Warp Speed. Il governo ha pagato Moderna per lo sviluppo e la sperimentazione del suo vaccino. Incredibilmente, Trump si è poi voltato e ha dato a Moderna il controllo sul vaccino. Di conseguenza, sta facendo pagare 130 dollari per i suoi booster che probabilmente si venderebbero in un mercato libero, senza protezione, per circa 5 dollari a colpo. Il vaccino Covid Corbevax sviluppato dal dott. Peter Hotez fornisce un ottimo esempio di questo tipo di modello alternativo. È stato distribuito a centinaia di milioni di persone in India e Indonesia al costo di circa 2 dollari a colpo. Comunque, solo perché Trump ha fatto un cattivo accordo non significa che un’amministrazione più competente non possa fare di meglio. Inoltre, se il governo sta pagando per la ricerca, può anche richiedere che sia completamente open source in modo che tutti i risultati siano pubblicati sul web non appena possibile. Questo probabilmente renderebbe la ricerca più efficiente, poiché i ricercatori di tutto il mondo sarebbero in grado di costruire sui reciproci successi e imparare dai loro fallimenti. Sarebbe fantastico se una futura amministrazione potesse cercare di perseguire questo tipo di modello open source finanziato con fondi pubblici, risparmiandoci circa 500 miliardi di dollari all’anno (4.000 dollari per famiglia) su farmaci da prescrizione e altri prodotti farmaceutici. Il taglio del budget di ricerca alla NIH da parte del presidente Trump ci porta di 180 gradi nella direzione opposta. [...] Read more...
3 Maggio 2025Le relazioni intercoreane all’inizio del 2025 sono caratterizzate da un delicato equilibrio tra distensione e ostilità, influenzato dalle ambizioni nucleari di Pyongyang e dalle intricate alleanze di Seoul. Lee Jae-myung, il principale contendente alle elezioni anticipate della Corea del Sud il 3 giugno, ha rilanciato la Sunshine Policy, che promuove il dialogo e la cooperazione con la Corea del Nord. Mira a ripristinare l’impegno dopo il declino senza precedenti del commercio intercoreano a zero per la prima volta dal 1989. Con le stime che suggeriscono che la Corea del Nord potrebbe possedere abbastanza materiale fissile per un massimo di novanta testate nucleari entro il 2025, la visione di Lee Jae-myung cerca di far rivivere l’ethos di impegno della Sunshine Policy. Tuttavia, deve fare i conti con un panorama geopolitico significativamente trasformato caratterizzato dalle capacità nucleari migliorate di Pyongyang e dalle relazioni tese con Stati Uniti, Giappone, Russia e Cina. Lee ha proposto un approccio pratico per l’impegno, suggerendo la ripresa delle riunioni, l’aiuto familiare, gli scambi umanitari e culturali e la creazione di zone economiche speciali nella zona demilitarizzata per promuovere lo sviluppo reciproco. Sottolinea l’importanza del coordinamento trilaterale con Washington e Tokyo, sostenendo le garanzie di sicurezza attraverso il dialogo parallelo mentre ridimensiona esercizi provocatori come Freedom Shield per promuovere la fiducia. Il suo consigliere capo sostiene che una sospensione misurata di alcuni esercizi congiunti potrebbe facilitare i colloqui incrementali sulla denuclearizzazione e portare a un sollievo reciproco delle sanzioni. La piattaforma di Lee presenta anche progetti infrastrutturali congiunti, tra cui collegamenti ferroviari ed energetici, che ricordano le fondamenta economiche dei primi anni 2000. Inoltre, la politica incorpora meccanismi di monitoraggio e verifica modernizzati per garantire la conformità e ridurre al minimo il rischio di inversioni improvvise delle politiche. Le capacità nucleari della Corea del Nord in mare hanno aumentato significativamente le preoccupazioni per la sicurezza. Nell’aprile 2025, i media statali hanno annunciato il lancio del cacciatorpediniere da 5.000 tonnellate di classe Choe Hyon, progettato per trasportare missili balistici e da crociera con capacità nucleare. Questo sviluppo segnala le ambizioni di Pyongyang di espandere la sua portata navale. Inoltre, gli esperti stimano che la Corea del Nord abbia abbastanza materiale fissile per un massimo di novanta testate e abbia condotto oltre una dozzina di test di missili balistici, tra cui ICBM a combustibile solido e missili ipersonici, dal 2024. Inoltre, l’assistenza della Russia nella tecnologia missilistica ha sollevato ulteriori preoccupazioni sulla proliferazione dei missili balistici lanciati da sottomarini (SLBM). Questi sviluppi rendono precaria la deterrenza convenzionale, evidenziando il compito impegnativo che Lee deve affrontare nel sostenere la denuclearizzazione come prerequisito per un impegno più profondo. Tra queste minacce, gli Stati Uniti e la Corea del Sud hanno riaffermato la loro alleanza attraverso ampie esercitazioni militari. Dal 10 al 20 marzo 2025, l’Esercit Freedom Shield 19000 ha mobilitato le truppe sudcoreane e si è impegnato in operazioni multidominio, inclusi i voli strategici dei bombardieri B-1. Durante queste esercitazioni, gli intercettori Patriot Advanced Capability-3 schierati a Camp Humphreys hanno dimostrato la posizione di difesa stratificata dell’alleanza. Lee ha riaffermato pubblicamente l’impegno di sicurezza degli Stati Uniti “vestito di ferro” e ha sostenuto un ritorno graduale del controllo operativo in tempo di guerra (OPCON) a Seoul, riflettendo il suo desiderio di un maggiore controllo sovrano. Il dibattito pubblico sull’onere finanziario degli esercizi congiunti e le preoccupazioni sulla sovranità evidenziano il delicato equilibrio che Lee deve mantenere tra deterrenza e responsabilità interna. La strategia di Lee deve anche affrontare dinamiche regionali più ampie. Nel 2025, il Giappone ha approvato un budget di difesa record di 8,7 trilioni di yen (circa 55 miliardi di dollari) per migliorare le sue capacità di attacco e di difesa missilistica in risposta alle minacce della Corea del Nord e della Cina. Il segretario generale della NATO Mark Rutte ha recentemente accusato la Russia di fornire alla Corea del Nord una tecnologia missilistica avanzata in cambio del supporto al combattimento in Ucraina, sottolineando il ruolo di Mosca nel rafforzamento dei programmi strategici di Pyongyang. Nel frattempo, la Corea del Sud sta affrontando le sfide della guerra commerciale degli Stati Uniti, poiché entrambi i paesi impongono tariffe superiori al 100 per cento sui beni dell’altro, mettendo a repentaglio l’economia dipendente dalle esportazioni di Seoul. Lee deve conciliare l’impegno con gli obiettivi, affrontare gli imperativi associati e coordinare le realtà della competizione delle grandi potenze. L’economia della Corea del Sud svolge un ruolo significativo nella strategia di Lee. Nel 2024, le esportazioni sono aumentate dell’8,2 per cento, raggiungendo un record di 683 miliardi di dollari, guidati principalmente dai semiconduttori. Tuttavia, l’economia si è contratta dello 0,3 per cento nel primo trimestre del 2025. L’agenzia di rating Fitch ha rivisto le sue previsioni di crescita per la Corea del Sud nel 2025 all’1%, evidenziando l’urgente necessità di stabilizzare il commercio pur perseguendo anche l’impegno intercoreano. L’attuazione di questa visione richiede il superamento di ostacoli significativi: la dipendenza strategica della Corea del Nord dalla deterrenza, la presenza di armi nucleari e sanzioni globali delle Nazioni Unite che limitano l’impegno economico e politico, nonché le divisioni interne a Seoul. Le misure di rafforzamento della fiducia devono essere reciproche, come le sospensioni monitorate dei test missilistici a lungo raggio in cambio di aiuti mirati alle sanzioni e corridoi di aiuto umanitario. Tuttavia, Pyongyang ha storicamente rifiutato gli incentivi che non comportano la denuclearizzazione, le garanzie di sicurezza e concessioni sostanziali. Le fazioni conservatrici in Corea del Sud spesso criticano qualsiasi concessione come atti di appeasement. Esistono opportunità: le imprese infrastrutturali congiunte potrebbero sfruttare la tecnologia avanzata di Seoul in settori come il commercio ferroviario, energetico e agricolo, che potrebbe anche soddisfare i bisogni umanitari. La fattibilità dell’approccio di Lee dipende in ultima analisi dalla sua capacità di sincronizzare efficacemente la diplomazia, gli sforzi multilaterali e il consenso interno. In conclusione, Lee Jae-myung immagina di colmare decenni di divisione integrando l’impegno economico condizionale con le salvaguardie strategiche. Facendo rivivere i principi della Sunshine Policy, cerca di abbassare le barriere al dialogo attraverso misure di rafforzamento della fiducia, che potrebbero facilitare i colloqui sulla denuclearizzazione. La sua enfasi sulla cooperazione trilaterale con gli Stati Uniti e il Giappone mira a bilanciare gli sforzi di impegno con la deterrenza credibile in risposta a un regime nordcoreano sempre più assertivo. Tuttavia, il successo di questo approccio dipende dalla volontà di Pyongyang di ricambiare e dalla stabilità della politica interna della Corea del Sud. Se questi elementi si allineano – infrastrutture mirate, partenariati e iniziative umanitarie – potrebbero fornire un sollievo tangibile e costruire gradualmente la fiducia. Tuttavia, senza questo allineamento, il progetto visionario di Lee potrebbe lottare per andare oltre il suo status ambizioso e raggiungere una risoluzione sostenibile al conflitto nella penisola coreana. [...] Read more...
3 Maggio 2025L’annuncio del Giorno della Liberazione è stato un punto di riferimento in un conflitto iniziato con l’ordine esecutivo di Trump il 20 gennaio che ordinava ai segretari di gabinetto di presentare relazioni sulle pratiche commerciali e sulle raccomandazioni tariffarie. Il 1° febbraio, Canada e Messico hanno dovuto affrontare tariffe del 25% e la Cina il 10% su tutte le sue esportazioni verso gli Stati Uniti. Questo è rapidamente aumentato al 20% sulle importazioni dalla Cina. Entro il 9 aprile, la Cina ha dovuto affrontare tariffe combinate in media del 145%. Le tariffe di Trump sono state severe e l’ASEAN non è sfuggita alla sua ira. Alcune delle nazioni più colpite sono state il Vietnam (56%), la Cambogia (59%) e lo Sri Lanka (54%). La Malesia ha dovuto affrontare dazi pari al 46%. Le tariffe della Cina sugli Stati Uniti sono ora di circa il 125%. In un momento in cui c’erano dibattiti impetuosi sulle tariffe, il Presidente cinese, Xi Jinping, ha visto opportuno visitare il Vietnam, la Malesia e la Cambogia. Il Vietnam era stato colpito da tariffe dure e la loro visita a Washington per negoziare i dazi verso il basso non ha prodotto risultati fruttuosi. La Cambogia era un altro paese con risorse limitate e senza la capacità di importare pesantemente dagli Stati Uniti, ma che doveva affrontare l’ira delle tariffe reciproche. La visita è stata cronometrata in un momento in cui entrambi i paesi sono stati respinti dagli Stati Uniti. La visita in Malesia è stata particolarmente significativa sotto due aspetti. In primo luogo, il suo primo ministro, Anwar Ibrahim ha una storia di ricettività alla filosofia di Pechino. In secondo luogo, la Malesia è la presidenza dell’ASEAN, un raggruppamento regionale di nazioni del sud-est asiatico, che rende il paese un membro influente della regione. Durante la visita di Xi in Vietnam, sono stati firmati 45 accordi di cooperazione come parte del partenariato cooperativo strategico globale. Questo copriva una gamma di aree che vanno dalle infrastrutture, alla scienza e alla tecnologia e alle questioni della catena di approvvigionamento. Xi ha cercato di sfruttare il fatto che entrambi i paesi sono comunisti, suggerendo che questo potrebbe formare la base della cooperazione. In altre parole, la vicinanza ideologica potrebbe rafforzare l’allineamento strategico. Ma il Vietnam ha avuto controversie marittime irrisolte di lunga data con la Cina, che la Cina non dimenticherà. Il Vietnam avrà bisogno del sostegno degli Stati Uniti per affrontare il problema del Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, il trasbordo di merci cinesi attraverso il Vietnam è un punto difficile per gli Stati Uniti. La Cambogia ha un forte rapporto con la Cina, fondato sull’interesse economico della Cina per lo stato. La Cina è il principale partner commerciale della Cambogia, ha generosamente finanziato lo sviluppo delle infrastrutture, compresa la costruzione della base navale di Ream e il restauro di Angkor Wat. La Cina ha anche un interesse significativo in progetti come la Sihankoukville Special Economic Zone, un fiore all’occhiello della BRI. Tuttavia, la Cambogia si è offerta di abbassare le tasse all’importazione statunitensi su 19 categorie di prodotti, indicando la propria agenzia. In mezzo a questa confluenza di attività, il primo ministro della Malesia, Anwar Ibrahim, ha scelto di svolgere un ruolo galvanico. Anwar è stato molto schietto sulle tariffe, criticandole per essere state imposte unilateralmente e basate su “matematica imperfetta”. Nel suo ruolo di presidente dell’ASEAN, Anwar sta tentando di presentare un punto di vista che proietta una posizione collettiva, parlando con una sola voce contro le tariffe. Subito dopo la visita di Xi in Malesia, Anwar si è recato in Thailandia per discutere, a parte le questioni bilaterali, la questione dei doveri degli Stati Uniti. Entrambi i primi ministri hanno concordato che avrebbero discusso la questione collettivamente. Anwar ha anche avuto colloqui con i leader delle Filippine, del Brunei, del Laos e del Vietnam. Per quanto sembri che Xi voglia creare un blocco pronto ad opporsi agli Stati Uniti, il risultato non sarà così profondo. Se l’iniziativa BRICS sarà un lungo viaggio per superare l’influenza degli Stati Uniti, il sogno di una voce dell’ASEAN che parlerà a favore della Cina è una possibilità più improbabile. Anche Anwar che ha parlato di una risposta collettiva dell’ASEAN, e che è forse uno dei leader più schietti dell’ASEAN, ora vede fruttuoso avere discussioni individuali con l’USTR. La visita di tre nazioni è stata forse il modo di Pechino di dire a Washington che aveva i suoi sostenitori. Era un modo per ricordare all’ASEAN che Pechino si prendeva cura di esso ed era al suo fianco nei momenti difficili. Potrebbe anche essere stato quello di ricordare agli Stati membri che avevano un obbligo nei confronti della Cina. La Cina ha severamente avvertito che prenderà misure “reciproche e risolute” contro i paesi che nel tentativo di raggiungere un accordo con gli Stati Uniti lo fanno a spese della Cina. Questa dichiarazione è stata rilasciata in risposta alle affermazioni secondo cui Trump avrebbe fatto pressione sui paesi che cercavano di negoziare una riduzione delle tariffe per limitare il loro commercio con la Cina. In effetti, questo agirebbe contro gli interessi della Cina, isolandola dal commercio globale. Giustamente, la Cina era abbastanza arrabbiata da replicare che “l’appeasement non porterà pace e il compromesso non sarà rispettato … Cercare i propri interessi egoistici temporanei a spese degli interessi degli altri è cercare la pelle di una tigre”. Le nazioni del sud-est asiatico godono di eccellenti relazioni commerciali e di investimento con la Cina. Non vorranno perdere questo vantaggio perché danneggerà le loro economie nazionali. Mentre gli stati membri dell’ASEAN saranno invogliati a beneficiare di relazioni più strette con la Cina, promosse sia dagli interessi commerciali che dalla paura che si alieneranno dalla Cina, non vorranno staccarsi dall’influenza degli Stati Uniti o fare nulla che vinca la disapprovazione degli Stati Uniti. La visita di Xi alla luce delle tariffe di Trump potrebbe, nella migliore delle ipotesi, richiedere una ricalibrazione del grado di inclinazione piuttosto che un riposizionamento. [...] Read more...
3 Maggio 2025La Conferenza sull’unità curda e la stesa comune è stata recentemente conclusa a Qamishli, nel nord-est della Siria. Oltre 400 delegati provenienti da varie parti della Siria hanno partecipato alla conferenza, che mirava a rafforzare l’unità curda e stabilire posizioni politiche comuni. Un comunicato alla fine della conferenza, a cui hanno partecipato anche funzionari degli Stati Uniti, ha chiesto che una futura costituzione siriana sancisse il rispetto per i diritti nazionali curdi nella Siria post-Assad. Il punto più importante della dichiarazione pan-curda era la difesa della Siria come stato democratico decentralizzato. Sfortunatamente, senza pensare molto a questa idea, la presidenza siriana, in modo casuale, l’ha respinta. La dichiarazione della presidenza siriana non solo ha respinto la richiesta di uno stato decentralizzato, ma ha anche menzionato che le recenti dichiarazioni dei leader delle Forze democratiche siriane (SDF) che sostengono una soluzione federale sono chiaramente contrarie all’accordo concordato. Il presidente siriano è stato raggiunto dai leader islamisti siriani, che si sono opposti alle richieste curde affinché il paese adotti un sistema di governo decentralizzato come nuovo ordine politico, affermando che ciò rappresenta una minaccia all’unità nazionale. Prima che la rivolta siriana si trasformasse in una guerra su vasta scala, la Siria era probabilmente il regime più autoritario della regione araba, senza pari nella portata delle sue pratiche repressive, tranne che per il regime iracheno di Saddam Hussein. Le nuove autorità di Damasco vogliono ricostruire il paese su questa stessa linea con una struttura di governance altamente centralizzata. La Siria di oggi, a causa di tredici anni di conflitto, ora soffre di profonde divisioni lungo linee sia etno-settarie che geografiche. Mentre i legami economici e l’interdipendenza persistono ancora molto tra le varie parti del paese, e la maggior parte dei siriani rimane notevolmente attaccata all’idea di unità nazionale, il tessuto sociale del paese si è frammentato. Anche dopo la rimozione del regime di Bashar al-Assad, il nuovo governo ad interim non ha fatto alcuno sforzo per ripristinare la fiducia tra le minoranze del paese. Nel marzo di quest’anno, gli alawiti che vivono principalmente nelle zone costiere della Siria sono stati brutalmente presi di mira dalle milizie alleate con l’attuale governo e più di 1600 civili sono stati uccisi dai jihadisti. Attualmente, un altro gruppo minoritario. cioè I drusi sono presi di mira dalle forze fedeli a Damasco, gli scontri tra combattenti filogovernativi e uomini armati drusi locali hanno portato all’uccisione di più di una dozzina di persone in un sobborgo della capitale siriana. All’indomani di questa violenza, i drusi hanno preso il controllo della provincia di Suwayda e stanno impedendo alle forze governative ad interim di entrare. Lo stesso vale per i distretti popolati da drusi nei sobborghi della capitale, tra cui Jaramana, Sahnaya e Jdeidat Artouz. Con questo tipo di profondo sentimento di insicurezza tra le minoranze, costruire uno stato siriano con potere concentrato a Damasco è irrealistico. Ironia della sorte, il presidente ad interim Ahmad-al-Sharaa crede erroneamente che la centralizzazione sia essenziale per prevenire un’ulteriore frammentazione e smantellare strutture di potere concorrenti. Consolidando l’autorità sotto un forte stato centrale, cerca di monopolizzare il controllo sulla sicurezza, sul processo decisionale politico ed economico, assicurando che le autorità di transizione mantengano il dominio sulla direzione futura della Siria. Sta seguendo lo stesso approccio profondamente centralizzato che ha adottato a Idlib, ma Sharaa non può non comprendere che questo approccio non può essere applicato alla pan-Siria, poiché governare una provincia omogenea che ha principalmente un’etnia e governare un paese molto diverso è totalmente diverso. Il conflitto siriano ha devastato ogni componente su cui un paese si pone da solo, come la sua popolazione, la società civile, le infrastrutture, il patrimonio culturale e l’economia. Prima del conflitto, la Siria era un paese a medio reddito con un’economia basata sull’agricoltura, l’industria, il petrolio, il commercio e il turismo, con assistenza sanitaria e istruzione decenti. In un paese che ha sofferto di decenni di governo autoritario, un sistema eccessivamente centralizzato potrebbe replicare gli stessi modelli di esclusione e repressione che hanno alimentato il conflitto precedente, portando potenzialmente a una rinnovata instabilità, paralisi di governance o persino a una ricaduta del conflitto. Una cosa è chiara che la Siria non può essere uno stato nazionale monolitico. Ma se sarà un decentramento, un federalismo o una confederazione deve essere deciso dai siriani stessi. Ma sarà un lungo processo di negoziazione per decidere la forma esatta di una struttura statale decentralizzata. In passato, è stata concettualilizzata una qualche forma di decentramento. L’accordo di devoluzione, sulla falsariga di un decreto del 2011, è stato emesso dal governo siriano di Bashar Al-Assad che descrive in dettaglio il ruolo delle autorità locali. Il decreto 107, noto anche come “Legge sull’amministrazione locale”, è stato introdotto come parte di un pacchetto di riforme politiche approvato nell’agosto 2011 in risposta alle richieste di una rivolta civile che allora stava già travolgendo il paese. Il decreto è stato progettato per devolure le responsabilità politiche e amministrative alle istituzioni a livello locale, ma non è mai stato del tutto chiaro come sarebbe stato attuato. Ma questa proposta del passato regime può essere utilizzata come punto di partenza per sviluppare ulteriormente un sistema di governance accettabile per tutti. La Siria è una società multietnica composta da arabi sunniti, curdi, assiri, armeni, turcomanni, alawiti e yazidi. Per mantenere il paese unito e stabile, è necessario del momento delegare poteri a livello locale. In paesi multietnici come la Nigeria e l’India, questo tipo di modello ha probabilmente contribuito a tenere insieme queste nazioni. Il futuro stato siriano dovrebbe essere una nazione che accoglie e garantisce diritti a tutti i gruppi etnici, e tutti sentono la loro partecipazione alla gestione dello stato. [...] Read more...
2 Maggio 2025Sull’immigrazione, “Bergoglio parlava la lingua del Vangelo e, quindi, non si tirava indietro rispetto alle conseguenze sociali e politiche. Aveva il coraggio di parlar chiaro, non provando a schivare l’impopolarità”. Intervista a Maurizio Ambrosini (Università degli Studi di Milano)     In queste ore, a novendiali ancora in corso, sui muri esterni della sede della Caritas Ambrosiana a Milano, è comparso un murale firmato dall’artista contemporaneo aleXsandro Palombo e dedicato a Papa Francesco, scomparso pochi giorni fa. L’opera, intitolata ‘Franciscus – The Hope’, raffigura il Pontefice che indossa un saio francescano, simbolo di povertà, con sopra un giubbotto di salvataggio arancione, richiamo diretto alla crisi migratoria nel Mediterraneo. Ai suoi piedi è rappresentato il corpo senza vita del piccolo Alan Kurdi, bambino siriano, divenuto simbolo della tragedia che da anni affligge le acque del Mare Nostrum. In una nota diffusa, l’artista ha definito l’opera  “dura ma necessaria”, una sorta di “Pietà contemporanea“, in cui Papa Francesco accoglie il bambino “come Maria il Figlio”. L’opera intende rappresentare il Papa come “ponte tra l’umano e il sacro, protettore degli ultimie testimone silenzioso del dolore del mondo”. L’opera si collega direttamente all’azione di Papa Francesco, ricordando la sua visita a Lampedusa e la sua denuncia della “globalizzazione dell’indifferenza” verso i migranti. Il murale, prosegue la nota, non ritrae un leader lontano, ma “un uomo immerso nel dolore del nostro tempo, che si china verso chi soffre, che accoglie, che protegge”. ‘Franciscus – The Hope’, conclude la nota, si propone come “una chiamata etica” e un “manifesto visivo”. Lo stesso si può dire della scena a cui hanno assistito milioni di fedeli sabato scorso, durante l’ultimo viaggio di Papa Francesco verso l’ultima dimora, Santa Maria Maggiore, ai gradini della quale lo attendevano per dargli l’ultimo saluto prima della tumulazione e dirgli ‘grazie’ gli ultimi: poveri, senza fissa dimora, detenuti, persone transgender e migranti. Lo ha detto chiaramente il decano del collegio cardinalizio, il cardinale Giovanni Battista Re, nell’omelia dei funerali: Papa Francesco nel corso del suo pontificato ha realizzato innumerevoli gesti ed esortazioni «in favore dei rifugiati e dei profughi. Significativo che il primo viaggio di papa Francesco sia stato quello a Lampedusa, isola simbolo del dramma dell’emigrazione con migliaia di persone annegate in mare. Nella stessa linea è stato anche il viaggio a Lesbo, insieme con il Patriarca Ecumenico e con l’Arcivescovo di Atene». Non si può negare il profondo impegno di Papa Francesco per i migranti fin dai primi giorni del suo pontificato: era l’8 luglio 2013, quando compie il suo primo viaggio apostolico a Lampedusa, isola alla frontiera dell’Italia e dell’Europa, accendendo i riflettori sul Mar Mediterraneo, divenuto un vero e proprio “cimitero”. “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?”, chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?”, sono le domande che, in quell’occasione, Papa Bergoglio pose con forza alla folla e alle autorità presenti, aggiungendo: “Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere”. Più volte, negli anni, ha ripetuto le parole di Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. Nell’esortazione apostolica ‘Evangelii Gaudium’, del novembre 2013, Papa Francesco sottolineava che “Ogni straniero che bussa alla nostra porta è un’occasione per un incontro con Gesù Cristo” (n. 39) e “come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!”. Di una “città affidabile” perché accogliente Papa Francesco parlava già nella prima enciclica ‘Lumen fidei’, scritta con Papa Benedetto XVI. Nel novembre del 2014, il Papa visita il Parlamento europeo dove ribadisce: “Non si può tollerare che il Mar Mediterraneo diventi un grande cimitero L’Europa sarà in grado di affrontare i problemi legati all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale”. Nella sua seconda enciclica, ‘Laudato si’’, del 2015, Francesco evidenziava la connessione tra crisi ambientale e crisi sociale, esemplificata dai ‘migranti climatici’ o ‘rifugiati ambientali’, soprattutto mentre la protezione internazionale e il diritto di asilo vengono sempre più negati: “É tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa» (n. 25). Nello stesso anno, esplodeva la grande crisi dei rifugiati in Europa, con oltre un milione di persone sbarcate sulle coste europee nel corso dell’anno, con il corpo del piccolo Aylan trascinato esanime su una spiaggia turca che ha commosso il mondo e i 1000 morti e dispersi in acque libiche del canale di Sicilia, il 18 aprile 2015, e i 71 migranti morti nel camion frigo sulla rotta balcanica, tra Austria e Ungheria. Papa Francesco, il 16 aprile 2016, visitava il campo profughi di Moria, nell’isola greca di Lesbo, per incontrare quei migranti che vivono la realtà del respingimento, soprattutto a seguito della stipula dell’Accordo Europa-Turchia del 18 marzo 2016. In quel viaggio, avvicinò le due Chiese cristiane, cattolica e ortodossa, nella condivisione del dramma. Nel frattempo, Papa Francesco istruisce la Sezione Migranti e Rifugiati, che sarebbe confluita, nel gennaio 2023, all’interno del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, istituito a sua volta, con la Lettera Apostolica del 17 agosto 2016 in forma di Motu Proprio, ‘Humanam Progressionem’, ha “il compito di promuovere la persona umana e la sua dignità donatale da Dio, i diritti umani, la salute, la giustizia e la pace”; si interessa “alle questioni relative all’economia e al lavoro, alla cura del creato e della terra come «casa comune», alle migrazioni e alle emergenze umanitarie”; approfondisce e diffonde la dottrina sociale della Chiesa sullo sviluppo umano integrale (Predicate Evangelium, n.163). Nel 2016, Bergoglio celebra messa sul confine tra Messico e Stati Uniti, nella zona fieristica di Ciudad Juárez. Prima della celebrazione, Francesco prega davanti alla rete metallica che separa i due paesi. «Non possiamo negare la crisi umanitaria che negli ultimi anni ha significato la migrazione di migliaia di persone, sia in treno, sia in autostrada, sia anche a piedi attraversando centinaia di chilometri per montagne, deserti, strade inospitali. Questa tragedia umana che la migrazione forzata rappresenta, al giorno d’oggi è un fenomeno globale. Questa crisi, che si può misurare in cifre, noi vogliamo misurarla con nomi, storie, famiglie. Sono fratelli e sorelle che partono spinti dalla povertà e dalla violenza, dal narcotraffico e dal crimine organizzato». Di ritorno dal Messico, commentò la promessa di Trump di costruire un muro al confine: “Una persona che pensa di fare muri non è cristiana”. Il tycoon replicò accusando il Papa di fare politica e definendo “vergognoso” metterne in dubbio la fede. Nel Messaggio per la Gmmr 2018 indica le linee guida magisteriali nei confronti dei migranti: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. Sempre nel 2018, visita le repubbliche Baltiche e, in un’omelia a Vilnius, il 22 settembre, afferma: “Come sarebbe bello se a questa facilità di muoversi da un posto all’altro si aggiungesse anche la facilità di stabilire punti d’incontro e solidarietà fra tutti, di far circolare i doni che gratuitamente abbiamo ricevuto, di uscire da noi stessi e donar ci agli altri, accogliendo a nostra volta la presenza e la diversità degli altri come un dono e una ricchezza nella nostra vita”. Nel dicembre 2021, Bergoglio torna a visitare nuovamente l’isola greca di Lesbo, recandosi presso il campo profughi di Kara Tepe, che ha, in qualche modo sostituito, quello di Moira, incendiato, dove richiama alla necessità di non voltare le spalle a quello che non esita a definire un “naufragio di civiltà” perché “è triste sentir proporre, come soluzioni, l’impiego di fondi comuni per costruire muri, per costruire fili spinati”. Qualche anno prima, nel 2019, aveva invitato 250 rifugiati a San Pietro nel sesto anniversario del suo viaggio a Lampedusa: «Il mio pensiero va agli ‘ultimi’ che ogni giorno gridano al Signore, chiedendo di essere liberati dai mali che li affliggono. Sono gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto; sono gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione; sono gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso; sono gli ultimi lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea». Nel 2022 una sua presa di posizione particolarmente dura: «È scandalosa l’esclusione dei migranti! Anzi, l’esclusione dei migranti è criminale, li fa morire davanti a noi. E così, oggi abbiamo il Mediterraneo che è il cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale. Non aprire le porte a chi ha bisogno. ‘No, non li escludiamo, li mandiamo via’: ai lager, dove sono sfruttati e venduti come schiavi» aveva detto durante la messa. “Permettetemi, fratelli e sorelle, di esprimere un mio sogno. Che voi migranti, dopo aver sperimentato un’accoglienza ricca di umanità e di fraternità, possiate diventare in prima persona testimoni e animatori di accoglienza e di fraternità”, auspicò il 3 aprile 2022. Nel settembre 2023, a dieci anni dalla visita apostolica a Lampedusa, il Pontefice sceglieva di visitare la città di Marsiglia in occasione della conclusione dell’edizione 2023 dei Rencontres Méditerranéennes, sul tema “Mediterraneo mosaico di speranze”. Da Marsiglia, Padre Francesco ricordava che non possiamo continuare a leggere il fenomeno migratorio secondo quella logica emergenziale che trasforma un fenomeno strutturale in “problema” e condannava apertamente quelle narrazioni che fondano la retorica dell’invasione e alimentano “le paure della gente”, ribadendo con forza: “Chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza». Allo stesso modo, non esitava a qualificare come “gesti di odio contro i fratelli travestiti da equilibrio” quelle normative nazionali finalizzate a limitare le attività di soccorso delle ONG operanti nel Mar Mediterraneo, grazie a «l’impegno di tanti buoni samaritani, che si prodigano per soccorrere e salvare i migranti feriti e abbandonati sulle rotte di disperata speranza, nei cinque continenti». «Questi uomini e donne coraggiosi – ha sottolineato – sono segno di una umanità che non si lascia contagiare dalla cattiva cultura dell’indifferenza e dello scarto, che uccide i migranti. E chi non può stare come loro in prima linea”, ha aggiunto Francesco citando Mediterranea Saving Humans e tante altre associazioni, «non per questo è escluso da tale lotta di civiltà: non possiamo stare in prima linea ma non siamo esclusi. Ci sono tanti modi di dare il proprio contributo, primo fra tutti la preghiera. Voi pregate per i migranti? Per questi che vengono nella nostra terra per salvare la vita? E voi volete cacciarli via?» «È stato il Papa anche dei migranti» – lo ha ricordato così Luca Casarini, fondatore dell’ONG Mediterranea – «perché è stato il Papa degli ultimi. In questo tempo, i migranti rappresentano il paradigma degli ultimi. Sono coloro che non hanno una casa, un luogo dove andare, e che chiedono aiuto, cercano di lasciare i loro luoghi d’origine per trovare una speranza. Sono proprio quelli che non possiedono nulla. In mezzo al mare, li incontriamo come vite nude, nel senso che le istituzioni negano loro persino il diritto di essere soccorsi. Pertanto, ai migranti viene negato anche lo status di naufraghi. Quasi tutti gli incontri che ho avuto con Papa Francesco sono stati occasioni per presentargli rifugiati e migranti, persone soccorse in mare che erano riuscite a raggiungere l’Italia e che lui desiderava conoscere personalmente. Voleva ascoltare le loro storie, le loro speranze e i loro sogni. Li ha aiutati in ogni modo possibile, anche personalmente, e ha sempre agito così. Voleva toccare con mano le loro ferite e farsi raccontare l’orrore che avevano vissuto dentro i lager libici. L’ho visto piangere davanti ai migranti». A detta di Casarini, «le sue parole sono state ignorate da una parte del mondo, quella dei potenti, ma non crediate che siano cadute nel vuoto. Molte persone si stanno mobilitando, creando reti di solidarietà, effettuando soccorsi in mare e costruendo e praticando l’accoglienza. Pensate solo alla Civil Fleet, la flotta delle navi civili. Quando abbiamo iniziato nel 2018, c’erano solo due navi. Oggi la flotta ha superato le venti, il che dimostra che le cose si stanno espandendo, non restringendo». Le migrazioni come ‘benedizione’ e ‘segno dei tempi’ ribadisce nell’enciclica ‘Fratelli tutti’ (2020), dove, Papa Francesco approfondisce il rapporto tra la verità della fratellanza universale e il fenomeno migratorio, anche prendendo spunto dalla sua esperienza personale: “In Argentina, la forte immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa duecentomila ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere”. Di forte condanna le parole pronunciate sul tragico naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023: “I trafficanti di esseri umani siano fermati, non continuino a disporre della vita di tanti innocenti”. E ancora: “I viaggi della speranza non si trasformino mai più in viaggi della morte! Le limpide acque del Mediterraneo non siano più insanguinate da tali drammatici incidenti!”. Nella Bolla d’indizione del Giubileo 2025, dove i migranti, gli esuli, i profughi e rifugiati chiedono che “la comunità cristiana sia sempre pronta a difendere i diritti dei deboli” e a spalancare “con generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una vita migliore” (n.11). Un messaggio ripreso anche nella lettera di solidarietà ai vescovi degli Stati Uniti (10.2.2025), in cui il Papa condivide la condanna delle “deportazioni di massa” dei migranti latinoamericani da parte del nuovo Governo degli Stati Uniti, perché è un atto che “lede la dignità di molti uomini e donne, e di intere famiglie” e invita a “non cedere a narrative che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle migranti e rifugiati”. “Migranti, missionari di speranza”, è il tema scelto da Papa Francesco per la 111ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (che non è riuscito a celebrare perché rinviata ad ottobre). Fino all’ultimo, dedica un pensiero per i migranti, per i quali purtroppo “quanto disprezzo si nutre ancora a volte”, come scritto nel messaggio pasquale ‘Urbi et Orbi’, il 20 aprile 2025, nel giorno di Pasqua, il giorno prima della sua morte, invitando tutti “a non cedere alla paura che chiude”. Quale bilancio si può fare dell’approccio di Bergoglio al tema dell’immigrazione? Cosa resterà della sua sensibilità nella Chiesa del domani? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Ambrosini, Docente di Sociologia delle Migrazioni presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano. Professor Ambrosini, perché Papa Francesco è considerato rivoluzionario nell’approccio al fenomeno migratorio? Non ha fatto altro che applicare il Vangelo: “Ero forestiero e mi avete accolto” (Mt 25,35)… Papa Francesco non è stato il primo, in realtà, a parlare di migranti: ne parlava già Leone XIII nell’enciclica ‘Rerum Novarum’ (1891)e che è fondativa della dottrina della Chiesa. Era un’epoca in cui l’Italia era una nazione di migranti. La Giornata mondiale del Migrante fu istituita dalla Chiesa Cattolica nel 1914, oltre 100 anni fa. Un Papa solitamente definito quale conservatore come Pio XII, nel dopoguerra, ha rilanciato l’argomento con una esortazione apostolica, l’’Exul familia’. È un magistero di lungo corso quello in cui si inserisce quello di Papa Francesco. Credo che il suo apporto e anche il fatto che abbia suscitato eco e scalpore la sua posizione credo sia più legato ad un fattore esterno e ad uno interno: il fattore esterno è l’elevata politicizzazione e la risonanza dell’argomento. 50 anni fa l’argomento delle migrazioni era di modesta priorità nelle politiche pubbliche e per la Chiesa si trattava di suscitare attenzione per un argomento in gran parte trascurato mentre oggi è un tema su cui si vincono o si perdono le elezioni. Il fattore interno era la franchezza di Papa Francesco, il suo linguaggio non paludato e diretto, accompagnato da gesti eloquenti: il suo primo viaggio apostolico fuori dal Vaticano è stato a Lampedusa nel luglio 2013, poi è stato a Lesbo e a Cipro. Senza dimenticare la famosa messa celebrata al confine tra Messico e Stati Uniti, come ricordato dal Cardinale Re durante il funerale. Esatto. Quindi gesti forti, oltre che un messaggio diretto nel che è una colpa grave chiudere ai migranti. «C’è chi opera sistematicamente e con ogni mezzo per respingere i migranti. E questo, quando è fatto con coscienza e responsabilità, è un peccato grave» disse Papa Francesco, precisando che «il Signore è con i migranti, non con quelli che li respingono». Esatto. Quindi, mentre Papa Benedetto XVI si concentrava più sistematicamente sui valori tradizionali -famiglia e dintorni (coppie gay, matrimonio, …)- con Papa Francesco quei temi non sono scomparso -pensiamo alla critica alla cosiddetta ‘teoria gender’- tanto che un’intellettuale femminista lo ha definito ‘a tratti progressista’; tuttavia, la sua attenzione si è spostata verso le periferie, i poveri e l’accoglienza dei rifugiati. Siccome, in questi giorni, si è spesso provato ad incasellare ideologicamente Papa Francesco provando a connotarlo come ‘di destra’ o ‘di sinistra’ a seconda delle posizioni da lui assunte su questo o quel tema, possiamo dire che, parlando di migranti, il suo unico parametro era il Vangelo, alla luce del quale ogni cattolico dovrebbe leggere il mondo, no? Non c’è stata dell’ipocrisia su questo punto da parte soprattutto dei populisti che si professano paladini dei valori cristiani? Senz’altro vero, il Papa si riferiva al Vangelo e alla dottrina sociale che prima richiamavo. Tuttavia, non esitava a trarne delle conseguenze politiche, almeno latamente, perché parlava di chi chiude i confini, di chi alza i muri, di chi lascia morire in mare i migranti. Non si tirava indietro rispetto alle questioni problematiche: la lettera ai vescovi americani sulle politiche di Trump è stata forse l’ultimo documento importante e decisivo che, rimarrà, come suo lascito. Come pensava, secondo Lei, Papa Francesco di far cadere il velo di ipocrisia dei populisti che, pur dichiarandosi difensori dei valori religiosi e del ‘Dio, Patria e Famiglia’, sono gli stessi che alzano i muri e chiudono i confini, proprio in un’epoca in cui le posizioni su questi temi determinano la vittoria o la sconfitta elettorale? Papa Francesco, da questo punto di vista, mi è sembrato molto sereno, disinvolto, non incline a lasciarsi turbare dalla perdita di popolarità. Pensiamo al fatto che ha accolto al Sinodo Luca Casarini. Il fondatore dell’ONG ‘Mediterranea’. Personaggio obiettivamente discusso per il suo passato, ma Papa Francesco ha voluto riconoscere il suo impegno a favore dei migranti. E, quindi, proprio perché partiva da una visione evangelica dell’argomento, non si tirava indietro quando si trattava di prendere posizioni anche impopolari rispetto ad una fetta importante all’interno dell’opinione pubblica e della Chiesa. Come venivano percepite le prese di posizione di Papa Francesco da parte dell’elettorato cattolico che, spesso, non resta immune alle sirene del populismo anti-immigrazione?   Non so se esistano dei sondaggi sul tema, ma ritengo che l’appoggio alle opinioni del Papa sull’argomento fosse discendente andando dai Cardinali, ai vescovi, al clero, ai praticanti e per finire con i cattolici più ‘tiepidi’. Scendendo e allargando, credo si perdesse il favore e, quindi, non si tratta di posizioni pacificamente accettate: qualcuno semplicemente non se ne curava, qualcun altro si è addirittura opposto. Tanto che i critici gli rimproverano un’eccessiva attenzione al sociale rispetto al lato spirituale della Chiesa, cosa non vero visto quello che ha predicato e scritto, ad esempio, sulla devozione al Sacro Cuore, a San Giuseppe, anche recuperando elementi tradizionali della Chiesa Cattolica. All’interno della Chiesa e delle sue gerarchie, come venivano percepite queste posizioni?  Dipende, se parliamo di Polonia o di Ungheria, direi che anche nella gerarchia prevalessero posizioni sfavorevoli; se parliamo degli Stati Uniti, su questo argomento c’era un prevalente appoggio, anche da parte di Vescovi e Cardinali conservatori su altre materie; in Europa occidentale, credo invece sia prevalso l’appoggio da parte di Vescovi e Cardinali, anche perché non è che Papa Giovanni Paolo II o Papa Benedetto XVI dicessero cose diverse: magari parlavano meno spesso o con meno enfasi, ma la logica era la medesima. Quando parlava di ‘migranti’, spesso, non sempre tra le righe, sembrava temesse che l’Occidente, rinunciando all’accoglienza ed alzando muri, perdesse anche un po’ l’anima, se stesso. Non a caso, talvolta, ha fatto riferimento al “naufragio di civiltà”, come se ravvedesse, dietro alla chiusura dei confini, il declino della civiltà occidentale. Lei che ne pensa? Sì, ho in mente il discorso di Lampedusa dove parla dell’indifferenza, della ‘globalizzazione dell’indifferenza’. Quindi, nella sua ottica, l’accoglienza dei migranti era un banco decisivo della qualità sociale ed antropologica delle società sviluppate. Non ha mai parlato in questi termini, ma se all’epoca di Benedetto e di Ruini, i valori non negoziabili afferivano alla famiglia, sotto Papa Francesco, uno dei valori non negoziabili era, invece, l’accoglienza dei migranti e dei rifugiati. Papa Francesco parlava di “accogliere, proteggere, promuovere, integrare”. Ma, concretamente, qual’era la proposta di Bergoglio, alternativa ai muri? Non credo abbia mai declinato in termini operativi questi quattro verbi, tuttavia, mi pare che un aspetto importante sia quello del riconoscimento della voce e del protagonismo dei migranti, non definendoli, credo, mai dei ‘disperati’, facendo appello alla vittimizzazione che rischia, invece, di privarli della voce. In questo senso, mi sembra che Papa Francesco abbia sottolineato di più la ‘speranza’ dei migranti, all’interno della quale penso ci fosse l’eco della sua storia familiare. Richiamava alla necessità che fossero resi protagonisti, soggetti attivi della loro accoglienza. Questo mi pare un aspetto importante così come quello dell’arricchimento reciproco quando si riferisce alla ricchezza di quelle città dove i diversi convivono e si arricchiscono reciprocamente. Era molto favorevole, dunque, ad una lettura positiva delle città multietniche, pur non negando le difficoltà, la paura del diverso ed evidenziando la necessità di una politica che sapesse conciliare i vari aspetti. La visione di Papa Francesco, peraltro, prendeva atto anche dell’inverno demografico dell’Italia e, in parte dell’Occidente: “L’Italia non fa figli, faccia entrare i migranti”, ripeteva. Anche da questo punto di vista, vedeva l’immigrazione come fattore di sopravvivenza?  Sì ed è qui che c’è l’accento sulla speranza che i migranti portano con sé e che introducono nelle società in cui arrivano. I lager libici erano definiti da Bergoglio una “schifezza”. Questa critica era rivolta non solo a chi erige muri, ma anche a chi, pur di non vedere il problema, si affida a sanguinari ‘trafficanti di esseri umani’, anche questi avversati da Papa Francesco? Il Papa parlava la lingua del Vangelo e, quindi, non si tirava indietro rispetto alle conseguenze sociali e politiche. Aveva il coraggio di parlar chiaro, non provando a schivare l’impopolarità. Secondo Lei, è riuscito a smuovere le coscienze, almeno dei cattolici, in questi 12 anni di pontificato? A me sembra che abbia rinforzato le convinzioni e l’impegno della parte più sensibile della Chiesa Cattolica e del popolo cattolico, favorendo un incremento delle collaborazioni tra cattolici e non cattolici su questo tema. Ha acquisito popolarità e ha fatto guadagnare popolarità alla Chiesa anche presso la parte non cattolica del mondo laico, che però è favorevole all’accoglienza e alla solidarietà, ponendo la Chiesa come amica e alleata. Un esempio è il giovane cappellano di Mediterranea e di Save Humans, don Andrea Ferrari. Questa strana alleanza tra cattolici ‘papafrancescani’ e solidali con una storia persino diversa, per non dire critica, è stato un lascito e un punto su cui Papa Francesco ha favorito una convergenza ed un’apertura reciproca. A differenza delle destre populiste, Papa Francesco non faceva differenza tra migranti economici, migranti climatici, rifugiati di guerra… ai suoi occhi erano tutti uguali? Sì, non mi sembra sia mai entrato nel merito di discussione un po’ tecniche sull’argomento e credo che la stessa distinzione tra ‘regolari’ e ‘irregolari’ non appartenesse alla sua visione. Erano tutte persone da salvare, da accogliere, da proteggere. Certamente sulla protezione delle categorie deboli come le donne sfruttate o la condanna dei trafficanti di esseri umani c’era una convergenza con le posizioni più conservatrici. Facendo un bilancio, Papa Francesco avrebbe potuto fare di più sul tema dei migranti, anche nel tentativo di evitare strappi con la parte della Chiesa più conservatrice? Secondo me, ha toccato un punto nevralgico quando ha esortato tutte le parrocchie e le congregazioni religiose ad accogliere qualche migrante. Era il picco della crisi dell’accoglienza dei rifugiati e in quell’occasione si è inimicato anche molti parroci e religiosi. Non so dire se avrebbe potuto fare di più, bisognerebbe conoscere quali sono i vincoli. Io ho avuto l’impressione che, su molti temi, si sia fermato per timore di uno scisma. E quindi, anche se questo non è un argomento così nevralgico dal punto di vista dogmatico come il matrimonio per i sacerdoti o il diaconato femminile, una spinta ancora maggiore avrebbe provocato tensioni ancora maggiori all’interno della Chiesa. In conclusione, cosa resterà dell’approccio di Papa Francesco all’immigrazione nella Chiesa del futuro? Come dicevo, il tema lo precede. E quindi, seguirà. Non dubito che la Chiesa Cattolica continuerà a battersi a favore dei migranti. Il problema sarà il grado, la forza, l’enfasi con cui verrà posto questo tema. Il tema ha radici molto profonde e, se anche non fosse più così evidente e prioritario, penso che continuerà ad essere un vissuto dalla Chiesa come una missione. [...] Read more...
2 Maggio 2025India e Pakistan sembrano ancora una volta vicini al precipizio di uno scontro sulla scia di un attacco terroristico a Pahalgam nella regione fortemente militarizzata del Kashmir. L’assalto ha lasciato 26 turisti indiani morti. Senza aspettare nemmeno la parvenza di un’indagine, l’India si è precipitata ad accusare il Pakistan pochi minuti dopo l’incidente. Successivamente, Nuova Delhi ha svelato una serie prevedibile di misure di ritorsione contro Islamabad. Tra questi c’è la sospensione del Trattato sulle acque dell’Indo, un accordo chiave di volta sulla condivisione dei fiumi transfrontalieri che in qualche modo è sopravvissuto a più crisi negli ultimi sei decenni. Ulteriori misure includono la chiusura del valico di frontiera, la cancellazione dei visti e un ridimensionamento forzato dell’impronta diplomatica del Pakistan nella capitale indiana. Queste cosiddette misure di ritorsione sono state svelate con poco riguardo per il giusto processo: nessuna indagine sull’attacco di Pahalgam, nessuna prova credibile che collegasse il Pakistan alla tragedia. Il ministro degli Esteri indiano ha offerto solo un vago riferimento ai “collegamenti transfrontalieri”, ma un coro orchestrato nei media indiani ha dato con entusiasmo la colpa a Islamabad. “Il Pakistan è aperto a partecipare a qualsiasi indagine neutrale, trasparente e credibile”, ha annunciato il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif quando l’India ha imposto misure di ritorsione. Eppure l’India non ha mostrato alcun interesse per alcuna indagine imparziale e internazionale. Come potrebbe nella zona più densamente militarizzata del mondo, con oltre 600,00 truppe militari e paramilitari indiane, un gruppo di militanti armati potrebbe riuscire a infiltrarsi a 400 chilometri di profondità, lanciare un grande attacco e scomparire senza lasciare traccia? Se i confini fortemente fortificati e pesantemente sorvegliati dell’India non sono riusciti a rilevare e deterre questa incursione, l’unica inferenza logica è un livello sorprendente di incompetenza o, più plausibilmente, negligenza deliberata. Dopo una riunione del Comitato di sicurezza nazionale, il Pakistan ha annunciato una sfreccia di misure di ritorsione, respingendo le mosse dell’India come “unilaterali, ingiuste e irresponsabili”. La sospensione del Trattato sulle acque dell’Indo è stata fermamente respinta, con un avvertimento schietto che qualsiasi tentativo di deviare la giusta quota del Pakistan sarebbe stato considerato “un atto di guerra” e incontrato con “piena forza”. Islamabad ha anche dichiarato di essersi riservato il diritto di tenere in attesa “tutti gli accordi bilaterali”, incluso l’accordo di pace di Simla del 1972 tra i due paesi, anche se, in particolare, si è astenuto dal strapparli. Il Pakistan ha anche chiuso il valico di frontiera di Wagah, ha chiuso il suo spazio aereo ai sorvoli indiani e ha congelato il commercio bilaterale. La simmetria dell’azione era chiara. Ma la domanda più profonda rimane se i gesti tit-for-tat possano contenere i pericoli di un confronto crescente. La mossa dell’India di sospendere il Trattato sulle acque dell’Indo è stata il prevedibile culmine di una strategia deliberata e di lunga durata. Per diversi anni, Nuova Delhi ha costantemente sfrezato l’accordo vecchio di sessant’anni che, nonostante le guerre e le tensioni ricorrenti, è durato come un raro esempio di cooperazione. I recenti disaccordi si sono concentrati sui meccanismi di risoluzione delle controversie del trattato. In una mossa significativa, l’India ha boicottato un’udienza della Corte Arbitrale all’Aia nel gennaio 2023, convocata per affrontare le obiezioni pakistane ai progetti idroelettrici indiani sui fiumi Chenab e Jhelum, che sono ancora di salvezza per un Pakistan sotto stress idrico. L’India ha invece sostenuto la nomina di un esperto neutrale, segnalando il suo desiderio di riscrivere il regolamento. Più tardi quel mese, Nuova Delhi ha formalmente notificato a Islamabad la sua intenzione di modificare i termini del trattato. Il Pakistan, da parte sua, ha ribadito la sua volontà di impegnarsi attraverso l’istituzione della Commissione per le acque dell’Indo e ha esortato l’India a onorare i suoi impegni di lunga data. Nell’agosto 2024, Nuova Delhi ha chiesto formalmente una revisione e una rinegoziazione del Trattato sulle acque dell’Indo, citando quelli che ha descritto come “cambiamenti fondamentali e imprevisti” insieme a vaghe preoccupazioni per la sicurezza. L’India ha indicato “cambiamenti demografici, sfide ambientali e l’urgenza dell’energia pulita” come ragioni per svolciare l’accordo. La sua lettera a Islamabad del 24 aprile ha ribadito questi punti di discussione, ma ha iniettato una lamentela familiare nel mix, sostenendo “il terrorismo transfrontaliero sostenuto” come ulteriore giustificazione per mettere il trattato sul ghiaccio. Il sottotesto era inconfondibile: l’opportunità politica ha superato gli impegni diplomatici. La brusca sospensione da parte dell’India del Trattato sulle acque dell’Indo non è solo una violazione delle clausole dell’accordo, ma anche una chiara violazione delle norme internazionali. Il trattato non consente un’azione unilaterale; qualsiasi emendamento o risoluzione richiede il consenso reciproco. Tuttavia, Nuova Delhi ha dichiarato unilateralmente il trattato “in sospeso”, collegando la sua rinascita al presunto abbandono del Pakistan della militanza transfrontaliera, una carica abitualmente esercitata per scopi politici. In termini reali, l’India ha principalmente sospeso i protocolli di condivisione delle informazioni, che si erano già sfilacciati negli ultimi anni. Nonostante la retorica drammatica, l’India non ha la capacità di deviare o bloccare i flussi d’acqua su qualsiasi scala significativa per ora. Tuttavia, il simbolismo è potente e le conseguenze potrebbero rivelarsi profondamente destabilizzanti. Le osservazioni costantemente incendiarie di Modi dal 24 aprile hanno sollevato campanelli d’allarme, suggerendo la possibilità di scioperi chirurgici. La prospettiva di combinare l’azione militare convenzionale con attacchi informatici e tattiche asimmetriche è sempre più probabile.Le notizie di armi pesanti spostate sulla linea di controllo alimentano solo tali timori. Qualsiasi aggressione militare indiana probabilmente susciterà rappresaglie, con conseguenze troppo imprevedibili anche per il suo governo da controllare. Questa escalation potrebbe spirale in una crisi molto più devastante del conflitto Balakot del 2019, mentre la regione vacalla ancora una volta sull’orlo della catastrofe. La Cina, il più stretto alleato del Pakistan, si è affrettata a riconoscere la gravità della situazione. Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha tenuto una telefonata con il vice primo ministro Ishaq Dar, sottolineando il pieno sostegno di Pechino alla sovranità del Pakistan e alle legittime preoccupazioni per la sicurezza. Wang Yi ha ribadito il sostegno della Cina a un’indagine imparziale e ha invitato sia l’India che il Pakistan a esercitare la moderazione. Nel 2019, un intervento di terze parti ha contribuito a disinnescare una crisi crescente. Ma cosa succede se questa volta non si materializza un tale intervento? Senza un’assistenza esterna tempestiva, lo stallo tra due vicini armati di nucleare potrebbe spirale in un territorio inesplorato e molto più pericoloso. L’idea di una guerra limitata sotto la soglia nucleare è irta di rischi incalcolabili. Nonostante l’apparente riluttanza dell’India, c’è un urgente bisogno di ripristinare le comunicazioni di canale posteriore per evitare errori catastrofici e gestire la crisi. La richiesta del Pakistan di un’indagine imparziale merita un sostegno universale. Rimane l’unico corso fondato sulla ragione e sul principio. [...] Read more...
2 Maggio 2025A metà degli anni 2020, la penisola coreana si trova a un crocevia cruciale in cui le ambizioni di sei potenti nazioni si intersecano con le dure realtà della divisione. La Repubblica di Corea e la Repubblica Popolare Democratica di Corea rimangono immagini speculari di sistemi politici ed economici contrastanti, ciascuno influenzato da mecenati esterni e necessità interne. Raggiungere un equilibrio sostenibile nella penisola entro il 2025 richiede un approccio integrato. Questo approccio deve bilanciare una forte deterrenza con una diplomazia misurata, una cooperazione regionale focalizzata e un impegno socioeconomico, il tutto informato dagli ultimi dati di difesa, economici, demografici e umanitari per affrontare efficacemente le complesse sfide dell’Asia nord-orientale. Nel 2025, la posizione di difesa della Corea del Sud mostra la sua vitalità, il suo impegno per la sicurezza democratica e le ansie sottostanti. Il paese sta allocando il 2,8 per cento del suo prodotto interno lordo – circa 47,5 miliardi di dollari USA – alle spese militari. Questo investimento ha accelerato l’approvvigionamento di sistemi avanzati di difesa aerea, tra cui sistemi KM-SAM sviluppati a livello nazionale e intercettori Patriot di fabbricazione americana. Le forze armate della Repubblica, composte da circa 600.000 persone, si stanno attivamente modernizzando attraverso l’introduzione del caccia stealth KF-21 Boramae e dei programmi sottomarini di nuova generazione. Nel primo trimestre del 2025, la crescita economica della Corea del Sud ha raggiunto il 2,9 per cento, evidenziando il suo duplice impegno per la prosperità e la deterrenza mentre continua a perseguire la riunificazione. Attraverso la zona demilitarizzata di 250 chilometri, la Corea del Nord continua ad aderire alla sua dottrina militare, mantenendo un arsenale stimato di cinquanta-sessanta testate nucleari. Solo all’inizio del 2025, ha condotto venticinque test missilistici balistici. Stime non ufficiali collocano il bilancio della difesa clandestina di Pyongyang a oltre quattro miliardi di dollari. L’attenzione del governo sulla modernizzazione militare va a scapito delle infrastrutture civili, esacerbando l’insicurezza alimentare per circa il quaranta per cento della popolazione. Il rapporto del regime con la Cina oscilla tra una dipendenza dal commercio transfrontaliero, che dovrebbe essere di circa 52 miliardi di dollari nel 2024, e atti sporadici di sfida informatica attraverso le intrusioni. Questa mancanza di chiarezza esacerba l’incertezza regionale e ostacola gli sforzi di denuclearizzazione. Gli Stati Uniti mantengono la loro alleanza con Seoul attraverso una strategia sfaccettata che include esercitazioni militari congiunte, sanzioni e una presenza di truppe di 28.500, un numero che è rimasto invariato dal 2019. Il Comando Indo-Pacifico di Washington riceve il 15 per cento del bilancio della difesa degli Stati Uniti e sostiene gli schieramenti a rotazione di 35 caccia e cacciatorpediniere Aegis per migliorare la deterrenza aerea e marittima. Tuttavia, l’efficacia della deterrenza estesa si basa sull’interoperabilità del comando, sul controllo della rete e sulla volontà politica di rispondere a qualsiasi provocazione nordcoreana. Affronta simultaneamente la crescente concorrenza di Washington con Cina e Russia, richiedendo un attento equilibrio tra deterrenza e dialogo per rassicurare i partner regionali. Il coinvolgimento della Cina con la penisola coreana è guidato da due priorità principali: la denuclearizzazione e il mantenimento di un regime stabile. Nel 2025, la spesa per la difesa di Pechino ha raggiunto 1 trilione di 6 yuan e 8, riflettendo un aumento dell’1 per cento rispetto all’anno precedente, mentre gli sforzi si espandevano per proiettare energia in tutto l’Indo-Pacifico. Il commercio bilaterale con la Corea del Nord ammontava a 2 miliardi di 4 dollari USA nel 2024, evidenziando la leva economica di Pechino. Tuttavia, la stretta aderenza alle sanzioni delle Nazioni Unite varia a causa delle preoccupazioni per un potenziale afflusso di oltre 200.000 rifugiati in caso di conflitto. L’ambiguità strategica di Pechino oscilla tra agire come patrono e influenzare le dinamiche di negoziazione sia regionali che multilaterali. La presenza di Mosca nella penisola, sebbene relativamente modesta, ha un peso diplomatico significativo. Nel 2025, la Russia ha tenuto tre esercitazioni congiunte con le forze nordcoreane ed ha esportato a Pyongyang carburante e macchinari agricoli per un valore stimato di 350 milioni di dollari, rafforzando i loro legami e contrastando l’isolamento occidentale. Al contrario, il Giappone affronta minacce dirette alla sicurezza dalle capacità missilistiche della Corea del Nord, spingendo Tokyo ad aumentare il suo budget per la difesa a un record di 6,2 trilioni di yen e integrare le installazioni Aegis Ashore con gli Stati Uniti. Operazioni della Settima Flotta. Le lamentele, comprese le riparazioni storiche irrisolte in tempo di guerra tra Tokyo e Seoul, complicano la cooperazione bilaterale, anche se entrambe le nazioni perseguono quadri di deterrenza trilaterali. Nonostante l’ampia postura, la stabilità della penisola è precaria, ostacolata da sfide persistenti. Il più importante tra questi è l’incombente minaccia di proliferazione nucleare da parte di Pyongyang, nonostante le crescenti sanzioni volte a frenare il suo arsenale. Le relazioni intercoreane sono ora caratterizzate dalla guerra informatica e dalle tattiche della zona grigia, aumentando il rischio di escalation involontaria. Le sanzioni economiche hanno ridotto i flussi di entrate della Corea del Nord di circa il quaranta per cento dal 2022, mentre il peggioramento delle condizioni umanitarie richiede efficaci meccanismi di soccorso. La mancanza di canali diplomatici diretti tra Washington e Pyongyang complica ulteriormente la gestione della crisi, lasciando le hotline militari suscettibili di interpretazioni errate in situazioni di alta tensione. In conclusione, la penisola coreana nel 2025 continua ad essere un’arena critica in cui gli interessi nazionali e le sfide della sicurezza si intersecano. Raggiungere una pace sostenibile richiede una strategia globale che integri la deterrenza, il dialogo, la cooperazione economica e i principi umanitari. Le misure di costruzione della fiducia, come la riapertura degli uffici di collegamento intercoreani, l’espansione degli aiuti umanitari per affrontare l’insicurezza alimentare e la ripresa delle riunioni di famiglia, possono promuovere la fiducia e la cooperazione. I forum multilaterali che includono tutte e sei le parti interessate dovrebbero concentrarsi sugli incentivi basati sulla reciprocità per la denuclearizzazione. Allo stesso tempo, la pianificazione e la difesa coordinate sono essenziali per mantenere una deterrenza credibile. Combinando politiche forti e basate sui dati con una diplomazia empatica, gli attori regionali possono trasformare questa difficile area in una base per una stabilità duratura, prosperità e governance inclusiva. [...] Read more...
2 Maggio 2025Mentre le politiche economiche dell’amministrazione Trump sono volte almeno in parte all’eliminazione dei deficit della bilancia dei pagamenti della nazione, gli americani dovrebbero capire che beneficiano di tali deficit. Un deficit della bilancia dei pagamenti si verifica quando il valore dei beni importati supera il valore dei beni esportati. In breve, stiamo ottenendo più di quanto ci stiamo arrendendo, e questo è un bene per gli americani. Dobbiamo pagare per quei beni, ovviamente, e un problema sollevato dai critici è che un deficit della bilancia dei pagamenti significa che i dollari americani stanno fluendo all’estero. È corretto, ma cosa succede a quei dollari? Alcuni di quei dollari rimangono all’estero. Il dollaro USA è la valuta di riserva mondiale, il che significa che molte transazioni che non coinvolgono gli Stati Uniti sono intraprese con dollari. I dollari sono economici da creare, quindi quando gli stranieri ottengono dollari da utilizzare nelle loro transazioni, traiamo vantaggio stampando dollari a buon mercato e ottenendo in cambio beni di valore. Quei dollari che rimangono all’estero non ci impongono alcun costo. Alcuni di quei dollari tornano nel paese sotto forma di investimenti esteri. Il presidente Trump sembra piacere quando le imprese o gli individui stranieri investono negli Stati Uniti, ma dove ottengono i soldi per investire nell’economia degli Stati Uniti? Ottengono soldi per investire negli Stati Uniti vendendoci beni. Viene dal nostro deficit della bilancia dei pagamenti. Più investimenti esteri aumentano la produttività della nostra economia e agli stranieri piace investire negli Stati Uniti perché è l’economia più sicura e produttiva del mondo. Gli investimenti esteri si aggiungono agli investimenti nazionali. Non esiste un importo fisso di investimento, quindi gli investimenti esteri non riducono gli investimenti nazionali. Si aggiunge agli investimenti che gli americani stanno intraprendendo. Maggiori investimenti nell’economia degli Stati Uniti, da qualsiasi parte provenisse, avvantaggia gli Stati Uniti. Il deficit della bilancia dei pagamenti avvantaggia gli americani perché: Possiamo consumare più merci straniere di quanto ne esportiamo agli stranieri. Poiché otteniamo più in termini di beni stranieri che importiamo di quanto non rinunciamo a beni americani che esportiamo, il nostro tenore di vita aumenta. Molti dei dollari che paghiamo per quei beni rimangono all’estero in modo che le persone in altri paesi possano usarli per le loro transazioni. Non ci costa quasi nulla produrre dollari. Un deficit della bilancia dei pagamenti significa che inviamo dollari a buon mercato da produrre all’estero e otteniamo beni di valore in cambio. Molti dei dollari che vanno all’estero tornano come investimenti esteri nell’economia degli Stati Uniti. Maggiori investimenti aumentano la produttività della nostra economia. Coloro che si oppongono ai nostri deficit della bilancia dei pagamenti sostengono che i posti di lavoro americani vengono spediti all’estero e che ciò ha portato alla deindustrializzazione degli Stati Uniti e ridotto la nostra sicurezza nazionale. Secondo la Federal Reserve Bank di St. Louis, la produzione industriale degli Stati Uniti è aumentata del 50% dal 1990. Mentre ha mostrato sostili stanziali durante la recessione del 2008 e durante la pandemia di COVID del 2020, da allora si è ripreso. Mentre è vero che l’occupazione manifatturiera come quota della forza lavoro è diminuita, ciò è dovuto principalmente al fatto che la produzione sta diventando più automatizzata. La produzione manifatturiera degli Stati Uniti è vicina al massimo storico. Mentre alcuni sostengono che il deficit della bilancia dei pagamenti sta prendendo posti di lavoro americani, l’attuale tasso di disoccupazione è del 4,2%, che la maggior parte degli economisti chiamerebbe piena occupazione. È difficile sostenere che il deficit della bilancia dei pagamenti stia costando posti di lavoro americani quando l’economia è a pieno occupazione. Gli Stati Uniti hanno un deficit della bilancia dei pagamenti ogni anno dal 1975, e durante quel mezzo secolo l’economia americana ha prosperato. La Federal Reserve Bank di St. Louis riferisce che la produzione reale (PIL) è oggi superiore del 60% rispetto al 2000. Gli americani che pensano che i nostri deficit della bilancia dei pagamenti in corso stiano danneggiando l’economia si sbagliano. I nostri deficit della bilancia dei pagamenti avvantaggiano gli americani. [...] Read more...
2 Maggio 2025Beh, abbiamo raggiunto il traguardo dei 100 giorni della seconda amministrazione Trump. Donald Trump ha fatto una campagna elettorale come campione degli elettori della classe operaia. Ma direttamente fuori dai blocchi, le sue scelte politiche hanno minato i lavoratori quasi ad ogni turno. Una recente scheda informativa dell’Institute for Policy Studies, dell’Economic Policy Institute e dei Repairers of the Breach arrotonda i danni finora. Trump ha iniziato rimuovendo illegalmente il presidente del National Labor Relations Board Gwynne Wilcox per aver presumibilmente favorito gli interessi dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro. La NLRB reprime il busto sindacale e altri abusi, ma ora non può funzionare. Un tribunale federale ha deciso di ripristinare Wilcox, ma la Corte Suprema dominata dai repubblicani ha bloccato questa azione mentre il contenzioso è pendente. Attraverso una serie di ordini esecutivi, Trump ha anche rimosso le protezioni del lavoro di lunga data per i dipendenti di carriera federali, rendendo più facile licenziare questi lavoratori senza motivo e togliendo i diritti dei lavoratori federali di negoziare collettivamente. Gli attacchi di Trump ai diritti sindacali avranno effetti a catena dannosi in tutta la nostra economia. I lavoratori sindacalizzati guadagnano in media il 13,5 per cento in più rispetto ai loro coetanei non sindacalizzati e godono di un migliore accesso all’assistenza sanitaria, ai congedi per malattia retribuiti e ai benefici pensionistici. Senza la concorrenza di questi lavori, molti datori di lavoro possono tagliare ulteriormente i salari e i benefici non sindacali. Nel frattempo, le scelte del presidente Trump per il Tesoro e i segretari del lavoro hanno chiarito che non sostengono l’aumento del salario minimo, anche se è rimasto bloccato a soli 7,25 dollari all’ora per oltre 15 anni. Circa 20 stati usano ancora il minimo federale, che è un salario di povertà anche a tempo pieno. E l’Economic Policy Institute stima che 14 milioni di lavoratori statunitensi guadagnino meno di 15 dollari l’ora, il livello a cui molti sostenitori vogliono aumentare il minimo. Nel frattempo, le tariffe caotiche dell’amministrazione Trump minacciano di aumentare i prezzi al consumo, rendendo ancora più difficile per i lavoratori a basso salario cavare. Guidata da Elon Musk e dal suo cosiddetto Dipartimento dell’efficienza del governo (DOGE), l’amministrazione è stata anche infuria contro la forza lavoro federale. A metà aprile, l’amministrazione aveva licenziato oltre 121.300 lavoratori federali, con molte altre migliaia di pressioni per dimettersi e altri cicli di licenziamenti a venire. Questi tagli arbitrari e sconsiderati minacciano di danneggiare agenzie pubbliche vitali. Ad esempio, l’amministrazione sta progettando di tagliare oltre 80.000 posti di lavoro dal Dipartimento degli Affari dei Veterani, l’agenzia che fornisce assistenza sanitaria al personale militare in pensione. I tagli del Dipartimento del Lavoro hanno portato alla chiusura di oltre 40 uffici che ispezionano le miniere e altri luoghi di lavoro per la sicurezza. Ulteriori licenziamenti pianificati ridurranno la capacità dell’agenzia di garantire i diritti alle prestazioni pensionistiche e prevenire il furto di salari, la discriminazione e il lavoro minorile. Il taglio di 10.000 Stati Uniti I dipendenti dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale porteranno a ulteriori 6,3 milioni di persone in tutto il mondo a morire di HIV-AIDS nei prossimi quattro anni. La Social Security Administration ha licenziato 7.000 dipendenti e prevede di tagliare l’87% del personale degli uffici regionali. Queste mosse hanno già portato a lunghi tempi di attesa per il sostegno per le persone preoccupate di perdere questo essenziale beneficio pensionistico. E infine, l’amministrazione sta tentando di licenziare il 90 per cento dei 1.700 dipendenti del Consumer Financial Protection Bureau. Durante i suoi 14 anni di storia, il CFPB ha vinto quasi 21 miliardi di dollari in risarcimento per le vittime di frodi, discriminazione razziale nei prestiti e altri abusi finanziari. In questo punto di riferimento chiave di 100 giorni, l’amministrazione Trump sta affrontando una raffica di cause legali, crescenti proteste e indici di approvazione in calo. Quindi, mentre queste prime azioni contro i lavoratori hanno inflitto effetti devastanti alle famiglie di tutto il paese, la battaglia non è affatto finita. [...] Read more...
1 Maggio 2025“Bergoglio, contrappeso ai valori e alla leadership che il populismo sta generando in tutto il mondo, era convinto che la Terra non sta affrontando una varietà di crisi separate, ma piuttosto ‘una crisi complessa’ con molte facce: ambientale sì, ma anche sociale”. Intervista a Lisa Sideris (UC Santa Barbara)   Scomparso pochi giorni fa, Papa Francesco, ‘venuto dalla fine del mondo’, non ha mai nascosto il suo impegno ‘francescano’ a favore degli ultimi, della giustizia sociale e, finanche, della tutela dell’ambiente. Tanto da fagli guadagnare gli appellativi di ‘Papa verde’ o ‘green influencer’. Non a caso, la Giornata della Terra 2025, che cadeva il giorno dopo la sua morte, è stata dedicata proprio a lui. Su questo fronte, va riconosciuto, anche i predecessori avevano richiamato l’attenzione: Papa Giovanni XXIII nella ‘Mater et Magistra’ del 1961 chiedeva che «negli ambienti agricolo-rurali» avessero «sviluppo conveniente i servizi essenziali, quali: la viabilità, i trasporti, le comunicazioni, l’acqua potabile». Più esplicitamente, Paolo VI parlò nel 1973 di «ecologia umana», criticando l’uomo che “sta improvvisamente diventando consapevole che con uno sfruttamento mal considerato della natura rischia di distruggerla e diventare a sua volta vittima di questo degrado” e richiamando l’uomo alla «responsabilità di un destino diventato ormai comune». Già pochi anni prima, nel 1971, Montini – in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’enciclica ‘Rerum novarum’ di Papa Leone XIII – aveva richiamato nella nella lettera apostolica ‘Octogesima adveniens’, alla necessità di una lettura antropologica del rispetto del creato per combattere contro «lo sfruttamento sconsiderato della natura» da parte dell’uomo. In seguito, Giovanni Paolo II nella ‘Centesimus Annus’ (1991) e nel 1997 in occasione del Convegno internazionale sulla tutela della Biodiversità («Paradiso sulla terra è l’uso moderato e saggio delle cose belle e buone, che la Provvidenza ha sparso nel mondo, esclusive di nessuno, utili a tutti») e Benedetto XVI nella ‘Caritas in veritate’, invocando un ruolo pubblico della Chiesa nella «difesa di terra, acqua e aria come doni della creazione appartenenti a tutti, e soprattutto di difendere l’uomo contro la distruzione di se stesso». La spiccata sensibilità di Bergoglio venne con il tempo: «Nel 2007 c’è stata la Conferenza dell’episcopato latinoamericano in Brasile, ad Aparecida. Ero nel gruppo dei redattori del documento finale, arrivavano proposte sull’Amazzonia e io dicevo: “Ma questi brasiliani, come stufano con questa Amazzonia! Cosa c’entra l’Amazzonia con l’evangelizzazione?”. Questo ero io nel 2007. Poi, nel 2015 è uscita la ‘Laudato si’’. Io ho avuto un percorso di conversione, di comprensione del problema ecologico. Prima non capivo nulla!», rese noto Francesco parlando ad un gruppo di ambientalisti francesi. Tuttavia, non c’è dubbio che i 12 anni del Pontificato di Francesco siano stati estremamente significativi, fin dai primi giorni: nella Messa di inizio del ministero petrino, il 19 marzo 2013, affermò la necessità di «custodire il creato, custodire l’intera creazione»; sempre nel 2013, nell’enciclica ‘Evangelii Gaudium’, denunciò la cultura dello scarto; nel 2015, nello storico discorso tenuto all’Assemblea Generale dell’ONU, sottolineò come il deterioramento del clima e dell’ambiente siano strettamente connessi con l’esclusione e la disgregazione delle società umane e con il mantenimento della pace; nel 2014, in Vaticano, si tenne l’Incontro mondiale dei movimenti popolari, durante il quale si confrontarono società civile e popoli indigeni da tutto il mondo su terra, casa (techo) e lavoro (trabajo), le 3T che avrebbe caratterizzato una riflessione continuativa per il papa, quasi un’anticipazione della Laudato si’: «Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione». A quell’incontro prese parte Berta Cáceres, coordinatrice generale del Copinh, in Honduras, che un anno e mezzo dopo sarebbe stata uccisa: «Santità, vorremmo vedere rinascere in Honduras una Chiesa impegnata a favore dei più poveri, come aspiravano i nostri santi e martiri come padre Guadalupe Carney e monsignor Romero, non con cardinali che danno la loro benedizione ai colpi di stato e al potere e che perseguitano coloro che seguono il cammino di liberazione all’interno della Chiesa». La stessa tesi era contenuta nell’enciclica ‘Laudato si’’, pubblicata nello stesso anno. In tutto 192 pagine, sei capitoli, 246 paragrafi e due preghiere per chiedere «che tipo di mondo vogliamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi». L’idea nacque così: «Quando ho incominciato a pensare a questa enciclica, chiamai gli scienziati: “Ditemi le cose che sono chiare e che sono provate e non ipotesi, le realtà”. Poi, chiamai un gruppo di filosofi e teologi: “Io vorrei fare una riflessione su questo. Lavorate voi e dialogate con me”. E loro hanno fatto il primo lavoro, poi sono intervenuto io. E, alla fine, la redazione finale l’ho fatta io. Questa è l’origine», raccontò Bergoglio.  Fu un vero e proprio grido per la Terra: “Il mondo non è una scatola da utilizzare, ma un giardino da curare e far fiorire attraverso le relazioni fra uomo e natura“. “Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla. La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi”, spiegava. Un appello accorato alla “cura della casa comune“, “questa sorella protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei“, è la denuncia dell’impatto negativo delle azioni umane sull’ambiente sotto forma di inquinamento “che colpisce tutti, causato dal trasporto, dai fumi industriali, dalle sostanze che contribuiscono all’acidificazione del suolo e dell’acqua, dai fertilizzanti, dagli insetticidi, dai fungicidi, dagli erbicidi e dalle agrotossine in generale”. L’inquinamento incide sul riscaldamento globale che “ha effetti sul ciclo del carbonio. Crea un circolo vizioso che aggrava ancora di più la situazione, influenzando la disponibilità di risorse essenziali come l’acqua potabile, l’energia e la produzione agricola nelle regioni più calde e portando all’estinzione di parte della biodiversità del pianeta“. Come precisò lo stesso Papa Francesco, “la Laudato si’ è un’enciclica sociale, non un’enciclica verde”. Papa Francesco va oltre, ponendo in risalto l’interconnessione tra crisi ambientale e crisi sociale in quanto il degrado ambientale e il degrado umano sono due facce della stessa medaglia: “𝑵𝒐𝒏 𝒄𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒅𝒖𝒆 𝒄𝒓𝒊𝒔𝒊 𝒔𝒆𝒑𝒂𝒓𝒂𝒕𝒆, 𝒖𝒏𝒂 𝒂𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒂𝒍𝒆 𝒆 𝒖𝒏’𝒂𝒍𝒕𝒓𝒂 𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒍𝒆, 𝒃𝒆𝒏𝒔𝒊̀ 𝒖𝒏𝒂 𝒔𝒐𝒍𝒂 𝒆 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒍𝒆𝒔𝒔𝒂 𝒄𝒓𝒊𝒔𝒊 𝒔𝒐𝒄𝒊𝒐-𝒂𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒂𝒍𝒆”, si legge. Ispirandosi al ‘Cantico dei cantici’ di San Francesco d’Assisi – “Laudato sì, miì Signore” – il Papa introduce il concetto di «ecologia integrale», che unisce 𝒍𝒂 𝒈𝒊𝒖𝒔𝒕𝒊𝒛𝒊𝒂 𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒍𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒐𝒕𝒆𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆: “Vi è un chiaro legame tra la protezione della natura e l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo“. D’altro canto, come recita una celebre frase attribuita al sindacalista brasiliano Chico Mendes, «l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio». Non si può separare – evidenzia Francesco – la «preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore», la necessità di ritrovare un equilibrio ecologico, «interiore con se stessi, solidale con gli altri, naturale con tutti gli esseri viventi, spirituale con Dio», la presa di coscienza della responsabilità dell’essere umano verso il prossimo e il Creato: “𝑻𝒖𝒕𝒕𝒐 𝒆̀ 𝒊𝒏 𝒓𝒆𝒍𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆, 𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒏𝒐𝒊 𝒆𝒔𝒔𝒆𝒓𝒊 𝒖𝒎𝒂𝒏𝒊 𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒖𝒏𝒊𝒕𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒇𝒓𝒂𝒕𝒆𝒍𝒍𝒊 𝒆 𝒔𝒐𝒓𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒊𝒏 𝒖𝒏 𝒎𝒆𝒓𝒂𝒗𝒊𝒈𝒍𝒊𝒐𝒔𝒐 𝒑𝒆𝒍𝒍𝒆𝒈𝒓𝒊𝒏𝒂𝒈𝒈𝒊𝒐, 𝒊𝒏𝒕𝒓𝒆𝒄𝒄𝒊𝒂𝒕𝒊 𝒅𝒂𝒍𝒍’𝒂𝒎𝒐𝒓𝒆 𝒄𝒉𝒆 𝑫𝒊𝒐 𝒉𝒂 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒊𝒂𝒔𝒄𝒖𝒏𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒔𝒖𝒆 𝒄𝒓𝒆𝒂𝒕𝒖𝒓𝒆.” In questa visione, fondamentale è la figura di San Francesco che, secondo Bergoglio, costituisce “l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità. È il santo patrono di tutti quelli che studiano e lavorano nel campo dell’ecologia, amato anche da molti che non sono cristiani. Egli manifestò un’attenzione particolare verso la creazione di Dio e verso i più poveri e abbandonati.” “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale“, scrive Francesco nella ‘Laudato Si’’, -recependo anche la costituzione pastorale ‘Gaudium et spes’, promulgata durante il Concilio Vaticano II– che invita a una «conversione ecologica» “che si richiede per creare un dinamismo di cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria. Tale conversione comporta vari atteggiamenti che si coniugano per attivare una cura generosa e piena di tenerezza. In primo luogo implica gratitudine e gratuità, vale a dire un riconoscimento del mondo come dono ricevuto dall’amore del Padre”. E ancora: “Implica pure l’amorevole consapevolezza di non essere separati dalle altre creature, ma di formare con gli altri esseri dell’universo una stupenda comunione universale”. “Il clima è un bene comune, di tutti e per tutti”, afferma nella ‘Laudato si’’, che richiama alla necessità di abbandonare l’individualismo e abbracciare una visione che non escluda il prossimo (anche altri Paesi e future generazioni). “L’avidità distrugge, mentre la fraternità costruisce” – ribadì Papa Francesco, ricevendo in udienza una rappresentanza della popolazione colpita 60 anni fa dalla tragedia del Vajont – “La cura del creato non è un semplice fattore ecologico, ma una questione antropologica”, il monito del pontefice: “ha a che fare con la vita dell’uomo, così come il Creatore l’ha pensata e disposta, e riguarda il futuro di tutti, della società globale in cui siamo immersi”. “E voi, di fronte alla tragedia che può scaturire dallo sfruttamento dell’ambiente, testimoniate la necessità di prendersi cura del creato”, l’omaggio ai presenti: “Ciò è essenziale oggi, mentre si sta sgretolando la casa comune, e il motivo è ancora una volta lo stesso: l’avidità di profitto, un delirio di guadagno e di possesso che sembra far sentire l’uomo onnipotente. Ma è un grande inganno, perché siamo creature e la nostra natura ci chiede di muoverci nel mondo con rispetto e con cura, senza annullare, anzi custodendo il senso del limite, che non rappresenta una diminuzione, ma è possibilità di pienezza”. La Terra, quindi, non è solo un luogo da abitare, ma un dono da custodire insieme. Parole nette, che invitano anche i grandi della Terra a cambiare registro in nome di un «debito ecologico» creatosi tra il Nord e il Sud e di una responsabilità morale degli uomini che, con i loro comportamenti, influiscono su ambiente, inquinamento, clima, ma anche sulla loro stessa salute: “L’esposizione agli inquinanti atmosferici produce un ampio spettro di effetti sulla salute, in particolare dei più poveri, e provocano milioni di morti premature”, si legge nella ‘Laudato si’’. Papa Francesco chiede una rottura radicale con gli stili di vita consumisti dei paesi ricchi, concentrandosi allo stesso tempo sullo sviluppo delle nazioni più povere. Secondo il Pontefice, le risposte dei Paesi sviluppati sembravano insufficienti a causa degli interessi economici in gioco. Papa Francesco esorta i cittadini dei Paesi sviluppati a non accontentarsi di mezze misure ritenute in gran parte insufficienti. Chiede, invece, alle persone di apportare cambiamenti nello stile di vita in linea con la logica di rallentare la crescita. L’obiettivo è consentire ai Paesi in via di sviluppo di uscire dalla povertà, risparmiando l’ambiente: “Data la crescita insaziabile e irresponsabile prodotta in molti decenni, dobbiamo anche pensare a contenere la crescita fissando alcuni limiti ragionevoli e persino ripercorrendo i nostri passi prima che sia troppo tardi. Ecco perché è arrivato il momento di accettare una crescita ridotta in alcune parti del mondo, al fine di fornire risorse ad altri luoghi per sperimentare una crescita sana”. A detta di Bergoglio, crisi climatica, crisi idrica, inquinamento, perdita di biodiversità sono problemi globali che richiedono – come affermato dalla ‘Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo’ del 1992 – una ‘conversione ecologica’ e un cambiamento di paradigma abitudini di vita e nei modelli economici: “La coscienza della gravità della crisi culturale ed ecologica deve tradursi in nuove abitudini”, “Molte cose devono riorientare la propria rotta, ma prima di tutto è l’umanità che ha bisogno di cambiare. Manca la coscienza di un’origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti. Questa consapevolezza di base permetterebbe lo sviluppo di nuove convinzioni, nuovi atteggiamenti e stili di vita. Emerge così una grande sfida culturale, spirituale e educativa che implicherà lunghi processi di rigenerazione.” Parole che sembrano riecheggiare quelle di Alexander Langer, tra i più lucidi e profetici esponenti del movimento verde in Italia, uomo di sinistra e di profonda fede, morto suicida nel 1995: “Per conversione ecologica – scriveva Langer nel 1989 – intendo la svolta oggi quanto mai necessaria e urgente che occorre per prevenire il suicidio dell’umanità e per assicurare l’ulteriore abitabilità del nostro pianeta e la convivenza tra i suoi essere viventi”.  Quindi, una trasformazione del cuore, dei comportamenti e delle strutture. In altre parole, una nuova etica sociale oltre ad un richiamo all’azione rivolto a tutti – credenti e non – a ritrovare un nuovo stile di vita, più sobrio, più rispettoso dei ritmi della natura e più giusto verso le generazioni future. Non si risparmiano critiche a coloro che, pur avendo potere e mezzi, negano la crisi climatica: «Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici» Non si può dimenticare la sensibilità ambientale condivisa di Papa Francesco con i giovani che – rifletteva nell’enciclica ‘Laudato Si’’ – “esigono da noi un cambiamento. Essi si domandano com’è possibile che si pretenda di costruire un futuro migliore senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi”. Coerentemente, non sono mancati gli incontri con gli attivisti per l’ambiente quali Bono Vox e Greta Thumberg (che avrebbe incontrato nel 2019), leader del movimento di scioperi per il clima dei ‘Fridays for future’, di cui, nel 2021, avrebbe incontrato il leader del tramo italiano, Giacomo Zattini. La ‘Laudato si’’ venne pubblicata il 18 giugno 2015, pochi mesi prima della Conferenza sul clima, con l’intento di convincere l’intera comunità internazionale, 195 Paesi, a firmare l’Accordo di Parigi che anche il Vaticano di Francesco ratificò insieme alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Ben dieci leader mondiali citarono l’enciclica durante il loro discorso ufficiale alla COP21. Peraltro, la sua visione ha ispirato il Movimento Laudato si’, una rete mondiale che promuove incontri ed azioni concrete per la salvaguardia del creato, coinvolgendo comunità ecclesiali e laiche in progetti di sostenibilità e giustizia ambientale. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’esortazione meno nota di Papa Francesco ‘Querida Amazonia’ (‘Amata Amazzonia’), pubblicata nel febbraio 2020. Questa esortazione è il risultato delle sue conversazioni con le comunità amazzoniche e ha contribuito a mettere le prospettive indigene sulla mappa. Papa Francesco ha sostenuto i difensori ambientali indigeni, molti dei quali sono stati ispirati ad agire con la loro forte fede. Queste prospettive hanno contribuito a plasmare l’insegnamento sociale cattolico nell’enciclica ‘Fratelli Tutti’, pubblicata il 3 ottobre 2020. Peraltro, all’Amazzonia, Francesco dedicò un Sinodo, che lo stesso Pontefice definiva “figlio” della ‘Laudato sì’’. Il legame tra ambiente naturale e dignità della persona umana è al centro anche dell’esortazione apostolica ‘Laudate Deum’ del 4 ottobre 2023, a seguire l’enciclica del 2015, riprende il filo del discorso ‘ambientale’, partendo dal presupposto che “La vita umana è incomprensibile e insostenibile senza le altre creature”: “Per quanto si cerchi di negarli, nasconderli, dissimularli o relativizzarli, i segni del cambiamento climatico sono lì, sempre più evidenti. Nessuno può ignorare che negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi”. Una consapevolezza a cui fa seguito l’ammissione che “è verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano significativamente la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi”, senza dimenticare l’aumento medio delle temperature terrestri che potrebbe portare a effetti importanti: “le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti quello a cui stiamo assistendo ora è un’insolita accelerazione del riscaldamento, con una velocità tale che basta una sola generazione – non secoli o millenni – per accorgersene. Probabilmente tra pochi anni molte popolazioni dovranno spostare le loro case a causa di questi eventi”. “Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari”, concludeva. Ancor più fondamentale l’organizzazione di conferenze in Vaticano (come quella intitolata ‘Salvare la nostra casa comune e il futuro della vita sulla Terra’ nel luglio 2018 oppure il summit delle compagnie petrolifere) o la partecipazione (non sempre fisica) di Bergoglio ai summit internazionali dedicati all’ambiente (COP,…). Dopo la COP21, rimproverò la debolezza della politica internazionale, pur considerando la Conferenza del clima numero 21 un ‘momento significativo’ perché l’accordo coinvolgeva tutti, sebbene la maggior parte delle nazioni non fosse riuscita ad attuare la limitazione all’aumento della temperatura globale in questo secolo a meno di 2°C. Ha anche richiamato la mancanza di monitoraggio di quegli impegni e la successiva inerzia politica.coi L’impegno di Papa Francesco per l’ambiente non si è limitato al magistero, ma si è tradotto concretamente anche in scelte concrete che hanno posto lo Stato Vaticano sulla strada della sostenibilità. “L’umanità possiede i mezzi tecnologici per affrontare questa trasformazione ambientale” e “l’energia solare gioca un ruolo fondamentale tra queste soluzioni”, scrive Francesco nella lettera apostolica “Fratello Sole”, che annuncia il progetto di costruzione di un impianto solare nell’area extraterritoriale di Santa Maria di Galeria, che mira a fornire energia pulita a tutta la Città del Vaticano, rendendo lo Stato energeticamente autosufficiente. Per realizzarlo, il Papa ha nominato ben due commissari speciali con piena autorità. Un altro progetto, strutturato in collaborazione con ACEA, riguarda la copertura dei Musei Vaticani con impianti fotovoltaici: i pannelli installati sulla vetrata produrranno energia rinnovabile per coprire parte dei consumi elettrici del sito e ridurre le emissioni dello Stato. Allo stesso fine, la sostituzione dei vetri esistenti con i nuovi vetri fotovoltaici assicurerà più ombra e più isolamento termico mentre il nuovo impianto di illuminazione consentirà di aumentare l’efficienza illuminotecnica e di valorizzare esteticamente i Museo. Papa Francesco ha avviato anche un percorso per la transizione sostenibile delle automobili del Vaticano, partendo da accordi con i produttori, come dimostra l’accordo con Volkswagen prevede che entro il 2030 l’intera flotta dello Stato sarà composta da veicoli elettrici del produttore tedesco. Trattasi dell’ambizioso programma ‘Conversione Ecologica 2030’ che aiuterà la Santa Sede a sostituire l’intera flotta di veicoli vaticani con modelli elettrici o ibridi, così da ridurre l’impronta di carbonio dello Stato. La transizione ecologica vaticana passa anche attraverso iniziative educative e sociali: nel febbraio 2023, Papa Francesco ha istituito il Centro di Alta Formazione Laudato si’ (CeAF-LS), un organismo scientifico, educativo e di attività sociale che si pone l’obiettivo di rendere “concreti i principi contenuti nell’enciclica Laudato si’”. Un esempio sarà ‘Borgo Laudato Si’’, realizzato nei 55 ettari della residenza papale di Castel Gandolfo, un laboratorio dove sperimentare i contenuti formativi del Centro e formare persone provenienti da contesti problematici. Nel 2016, Fulco Pratesi, ambientalista e fondatore del Wwf Italia da poco scomparso, disse di Bergoglio: «Io penso che, per adeguarci a quanto ci ha chiesto il Papa, dovremmo impegnarci, oltre agli scontati comportamenti di parsimonia, risparmio e condivisione, a considerare tutte le specie che, senza loro colpa, sono condannate a convivere con noi. D’altra parte basterebbero le parole di San Francesco a farci capire che, pur negli obblighi di solidarietà per i nostri simili, si condividano clemenza e rispetto anche per tutte le altre espressioni della vita, non solo quelle magnificate per una notte sulla facciata del massimo tempio della cristianità». Un impegno ricordato anche da Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia: «È stata una delle poche voci globali capaci di denunciare con chiarezza e coraggio come la crisi climatica stia distruggendo il nostro Pianeta e aggravando le disuguaglianze. Le sue parole – da ‘Laudato si’’ a ‘Laudate Deum’ – hanno dato forza a chi, in tutto il mondo, lotta per la giustizia ambientale e sociale. Il suo impegno resterà un riferimento importante per chi crede che la difesa della Terra sia anche una questione di dignità, equità e diritti umani». Quale bilancio, dunque, si può fare dell’impegno di Papa Francesco per l’ambiente? Cosa resterà della sensibilità ecologica di Bergoglio nella Chiesa dei prossimi anni? Lo abbiamo chiesto a Lisa Sideris, Professoressa di studi ambientali presso la Facoltà di Studi religiosi della UC Santa Barbara. Professoressa Sideris, Papa Francesco, scomparso pochi giorni fa, è da molti considerato il ‘Papa verde’. Peraltro, la Giornata della Terra (avvenuta il giorno della sua morte) è stata a lui dedicata quest’anno. Pietra angolare del suo impegno per l’ambiente è l’enciclica ‘Laudato Sì’ (e l’addendum del 2023) dove emerge, innanzitutto, la visione di un cristianesimo non basato sul dominio dell’uomo sul resto del mondo, ma sulla cura del creato. Viene, di fatto, criticato da Francesco l’Antropocene, l’antropocentrismo e l’individualismo egoista. È d’accordo? C’è una rivoluzione nella sensibilità della Chiesa? Sono d’accordo sul fatto che Papa Francesco si sia attivamente opposto a un certo stile di antropocentrismo, che ha definito “tirannico” nel suo desiderio di dominare gli altri e il pianeta. In ‘Laudato Si’’ (LS) ha anche criticato l'”individualismo dilagante” che sfilaccia i legami sociali e guida il consumo eccessivo. Nella sua successiva “Esortazione” chiamata ‘Laudate Deum’, era particolarmente turbato da come la pandemia, piuttosto che promuovere la solidarietà, abbia ulteriormente alimentato l’individualismo e l’accaparramento della ricchezza. L’antropocentrismo e l’individualismo sono sintomi dello stesso problema, come lo vide Francesco, perché entrambi derivano dal rifiuto di vedere le cose nel loro contesto più ampio, nella loro vera relazionalità. Mentre lo trovo in ‘Laudato Sì’, spesso critica le visioni del mondo antropocentriche e individualiste contrastandole con la vera natura della realtà come profondamente relazionale e interconnesse. Francesco sosteneva che il cristianesimo, correttamente compreso, sfida l’impulso dominazionista, la volontà di padronanza, a causa del suo investimento in una struttura profondamente relazionale-trinitaria della realtà. Che i cristiani sostengano o meno fedelmente quei valori relazionali è un’altra questione, ovviamente. Per quanto ne so, Francesco non invocò l’Antropocene per nome, ma lui e i suoi consulenti scientifici furono certamente informati sui marcatori scientifici dell’Antropocene. Inoltre, in ‘Laudato sì’’, fa riferimento alla natura “onnipresente” dell’attività umana sul pianeta, resa manifesta nelle trasformazioni e negli interventi su larga scala in natura, e nell’effetto vampirizzante della tecnologia sulla vita. Ha avvertito della rapida accelerazione del cambiamento globale che gli esseri umani stavano imponendo sul pianeta. Sembra un po’ come l’Antropocene. E date le sue perenni preoccupazioni sul potere umano che usurpa il posto di Dio, sospetto che abbia trovato il termine Antropocene un po’ presuntuoso, come in effetti è. Quanto c’è di San Francesco nel senso di meraviglia e di rispetto per il creato dentro Papa Francesco? C’è una grande quantità di San Francesco e il senso di meraviglia del santo in Francesco, come lo vedo io. San Francesco d’Assisi ha espresso profonda meraviglia per tutta la creazione e si dice che abbia predicato i suoi sermoni agli uccelli e ad altri animali. Alcuni studiosi dicono che San Francesco era molto più radicale di quanto ci rendiamo conto, rifiutandosi di accumulare qualsiasi ricchezza. Papa Francesco vedeva il santo come un esempio di ecologia integrale nella sua profonda comprensione della relazionalità e del suo linguaggio relazionale per la natura, il sole e la luna, linguaggio che il papa ha spesso citato nei suoi scritti e discorsi. San Francesco, dice il papa, era aperto a impegnarsi con categorie ed esperienze al di là dell’intellettuale, trattando altre creature come parenti o fratelli. Questo, ancora una volta, suggerisce una sorta di animismo che a volte minaccia i cristiani perché vede il divino nella creazione piuttosto che il solo creatore. Non sono sicuro che Papa Francesco sia andato così lontano, ma potrebbe essere in parte dovuto al fatto che un papa apertamente animista solleverebbe le critiche di molti cattolici e rischierebbe di perdere alcuni seguaci. Nella stessa enciclica e, in parte, anche in ‘Fratelli tutti’, Papà Francesco pone in risalto il rapporto tra giustizia sociale e protezione ambientale, come se fossero due ‘facce’ della stessa crisi. Possiamo chiarire meglio questo rapporto secondo Francesco? Sì, un concetto centrale nella ‘Laudato Si’’ e in altri scritti del Papa, come è noto, è la preoccupazione per quella che potrebbe essere chiamata giustizia ambientale, o il modo in cui il cambiamento climatico e altri problemi ambientali hanno un impatto sproporzionato sui poveri e sugli emarginati. Ha parlato e scritto spesso di “responsabilità differenziata” per il cambiamento climatico, l’idea che coloro che storicamente hanno contribuito di meno al cambiamento climatico spesso soffrono di più dei suoi impatti. Queste idee sono abbastanza comuni nel discorso sul cambiamento climatico e nelle discussioni internazionali sugli obblighi delle nazioni più ricche nei confronti di quelle più povere. Ma per Francesco queste idee hanno radici nella tradizione cattolica dell’ecologia integrale, un approccio olistico alla comprensione dell’inseparabilità dei problemi economici, sociali, politici, etici e ambientali. Quindi, in realtà non sono solo due facce diverse della stessa crisi, ma molte facce. Francesco, insieme ad altri studiosi del clima, a volte si riferiva a questa serie sfaccettata di questioni globali interconnesse come la “policrisi”. La Terra non sta affrontando una varietà di crisi separate, insiste Francesco, ma piuttosto “una crisi complessa” con molte facce. Nella primavera di quest’anno, infatti, nel suo discorso all’Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, ha fatto riferimento alla policrisi per descrivere la nostra attuale situazione in cui la guerra, il cambiamento climatico, l’energia e l’estrazione, le epidemie, il clima e la migrazione indotta dalla povertà e la pervasività della tecnologia nelle nostre vite sono tutte convergenti per creare una crisi massiccia. Sullo sfondo, c’era una forte critica al capitalismo selvaggio, senza regole? Sì, Francesco era molto critico nei confronti di quella che ha chiamato “cultura usa e getta”, che si riferisce non solo al modo informale in cui acquistiamo le cose e le buttiamo da parte, in modo iterativo, ma anche a come una mentalità capitalista modella un’intera visione del mondo. La nostra cultura usa e getta vede altri esseri viventi come sacrificabili: i poveri, i rifugiati e persino la Terra stessa e le sue creature, sono considerati completamente usa e getta. Vediamo questo atteggiamento “usa e getta” in azione nelle visioni del mondo dei miliardari della tecnologia che preferiscono trovare un altro pianeta piuttosto che frenare il consumo, il culmine del capitalismo sfrenato e non regolamentato. Francesco si riferiva a questo intrecciamento del potere capitalista e della tecnologia come al paradigma tecnocratico, in cui la tecno-scienza si estende ben oltre il suo dominio proprio, come se fosse la soluzione a ogni problema. Nell’esortazione ‘Laudate Deum’, c’è un ultimo e quasi disperato richiamo a ricordarsi della crisi climatica, rivolto a tutto il mondo, ma soprattutto ai potenti della Terra. Eppure, i populisti di destra mondiali (da Trump a Bolsonaro), che si dichiarano difensori del ‘Dio, Patria e famiglia’, rinnegano la crisi climatica che, per Francesco, è “realtà”. Com’è stato il rapporto tra Papa Francesco e il populismo negazionista dell’ambiente? Francesco era un contrappeso così gradito ai valori e allo stile di leadership che il populismo in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti, sta attualmente generando. Per quanto riguarda la negazione del clima, alcuni attuali leader populisti potrebbero negare il cambiamento climatico: Trump, ad esempio, è difficile da individuare e ha detto che è una bufala. Ma sempre di più, molti stanno usando il cambiamento climatico come logica per reprimere l’immigrazione, citando la scarsità di terra e risorse, la necessità di una nazione di proteggere il suo ambiente naturale unico e l’identità associata. Tanto preoccupante quanto la negazione del clima è quello che potremmo chiamare eco-nazionalismo, dove le questioni ambientali sono l’impulso per vietare agli immigrati di entrare nella nazione o essenzialmente per colonizzare regioni che contengono risorse – minerali rari, ad esempio, necessari per batterie o veicoli elettrici – necessarie per fare una transizione energetica verde. Queste sono essenzialmente nuove forme di imperialismo e quasi fascismo con il cambiamento climatico come scusa per l’azione autoritaria. Francesco si è opposto a tutte queste cose, a differenza di molte figure populiste di oggi. Francesco, parlando di migranti, non dimentica i ‘migranti climatici’. Chi sono? Sì, i migranti climatici o i rifugiati climatici erano di grande preoccupazione per lui. La sua preoccupazione per i migranti spicca nel nostro momento presente quando così tante nazioni, che sono implicate nella causa della crisi climatica, sembrano determinate a indurire i loro confini e incolpare i migranti per tutti i tipi di mali sociali. La tragedia delle morti dei migranti è stata un chiaro punto focale del suo papato fin dai suoi primi giorni. La sua esperienza e il suo background come figlio di immigrati hanno plasmato questa preoccupazione, ma in molti modi è semplicemente coerente con il ministero di Gesù per i poveri e gli emarginati, e con la tradizione gesuita che lo ha formato. La sua coerenza su questo tema fa vergognare altri leader che si identificano come cristiani e non ha esitato a chiamarli fuori. Il Papa ha parlato di ‘debito ambientale’ sia nei confronti dei Paesi più poveri e più colpiti dai cambiamenti climatici sia nei confronti delle future generazioni. Cosa intendeva con questo concetto? Questa idea è in linea con le sue preoccupazioni per le responsabilità differenziate e la giustizia ambientale, che le nazioni più ricche devono un debito con le nazioni povere in termini di riparazioni climatiche. Ha capito che le strutture economiche globali hanno permesso il danno sproporzionato ai paesi più poveri che hanno fatto poco per causare il cambiamento climatico e il cui sviluppo economico potrebbe essere ostacolato da trattati globali che riducono le emissioni di carbonio. Papa Francesco aveva grande rispetto per gli indigeni, come per esempio i residenti tradizionali dell’Amazzonia. Da loro -come dimostra il Sinodo sull’Amazzonia- Papa Francesco invitava ad imparare qualcosa che gran parte dell’umanità ha da tempo dimenticato: come vivere in armonia ecologica con l’ambiente. Lei è d’accordo? Sì, mentre penso che ci sia pericolo nel raggruppare le culture indigene insieme come se fossero uniformi, o nel romanticizzare la loro connessione con il mondo naturale, c’è chiaramente molta saggezza ereditata negli stili di vita indigeni da cui altre comunità possono imparare. Francesco ha trascorso molto tempo ad assorbire i valori indigeni e a prendere sul serio le esperienze di ingiustizia ambientale delle persone, in particolare delle persone in Amazzonia. Ammirava chiaramente le prospettive indigene che trattano la natura e le sue creature come esseri vitali, non come semplici risorse per lo sfruttamento. In questo senso, ha indicato l’apertura alle visioni del mondo che potremmo chiamare animistiche e non le ha necessariamente viste come incompatibili con il cristianesimo. Francesco pensava che la Chiesa cattolica dovesse integrare il suo insegnamento e il suo messaggio con le visioni spirituali del mondo delle popolazioni indigene, un processo chiamato inculturazione. Ciò significa non semplicemente assimilare quelle visioni del mondo nella Chiesa, ma rispettarle nella loro bontà intrinseca. Allo stesso tempo, è importante ricordare che la Chiesa ha sempre un’agenda missionaria ed evangelizzante. Quindi c’è il pericolo che, nel dialogo tra la Chiesa e i popoli indigeni, le credenze e i valori spirituali di questi ultimi possano essere assorbiti nell’insegnamento cattolico come se fossero in qualche modo espressioni della stessa rivelazione cristiana. Questo può diventare una mossa di colonizzazione, qualcosa di unilaterale piuttosto che un vero dialogo e rispetto reciproco. Ma Francesco sembra essere stato consapevole di quel pericolo e credo che apprezzasse le visioni del cosmo indigene per i loro meriti. Papa Francesco si fa promotore di un’’ecologia integrale’, suggerendo un completo ripensamento del modello di sviluppo globale. In cosa consiste questa ‘ecologia integrale’ e qual’è l’alternativa concreta di sviluppo suggerita da Francesco? Francesco, e non fu il primo papa a farlo, vedeva lo sviluppo umano integrale come alternativa al modello capitalista globale dell’economia. La crescente disuguaglianza causata dal cambiamento climatico sembra averlo spinto a sostenere questo modello ancora più con forza di alcuni dei suoi predecessori. L’idea di base è che lo sviluppo deve essere compreso non solo in termini di crescita economica, ma piuttosto qualcosa che metta gli esseri umani al centro, promuovendo lo sviluppo della persona nella sua interezza – che per Francesco significava nella loro interrelazionalità, nella comunità. A volte diceva che il termine persona non significa l’individuo, ma una relazione: essere una persona è essere relazionale. Come per l’ecologia integrale, di cui ho discusso in precedenza, lo sviluppo umano integrale vede le persone in tutte le loro varie sfaccettature, come esseri fisici, spirituali, intellettuali, sociali, emotivi. Privilegia il bene comune. Francesco ha unito le idee dell’essere umano integrale con l’ecologia integrale quando ha detto notoriamente che il grido della Terra e il grido dei poveri erano la stessa cosa, e devono essere affrontati insieme. Questo modello enfatizza la fioritura, non la mera crescita e il profitto che tendono a lasciare alcuni indietro mentre altri diventano ricchi. Concretamente ciò significherebbe, ad esempio, aumentare l’accesso a servizi sanitari di qualità, educativi e mezzi di sussistenza e opportunità di lavoro per le persone più emarginate. La giustizia e la dignità umana sono centrali, ma poiché anche la terra grida, una visione integrale non separa la difficile situazione della terra da quella dei poveri. Mentre molti populisti negano il cambiamento climatico contestando la scienza, possiamo dire che Papa Francesco ha messo la Chiesa per la prima volta all’avanguardia, a fianco della scienza, a differenza di quello che la Chiesa fece, per esempio, con Galileo Galilei? Il modo in cui viene spesso presentato l’affare Galileo, come esempio da manuale di conflitto tra scienza e religione, è stato esagerato. Galileo non fu perseguitato nella misura in cui molte leggende su di lui ci avrebbero fatto pensare, e la sua vita non è mai stata veramente in gioco. Sembra anche essere rimasto cattolico per tutta la vita, e le sue figlie erano suore. È importante menzionarlo solo perché il caso Galileo è diventato simbolico del conflitto tra scienza e religione, come se la Chiesa fosse stata a lungo in contrasto con la scienza. Tuttavia, Papa Francesco ha abbracciato e parlato della scienza in modo molto più esplicito rispetto ai papi precedenti, specialmente nella sua conoscenza dell’ecologia e delle dinamiche del cambiamento climatico. Allo stesso tempo, come notato in precedenza, è critico nei confronti del dominio della scienza e della tecnologia, o “tecno-scienza” su così tanti aspetti della nostra vita. Apprezzava la scienza, ma diffidava dello “scienziesimo”, una fede dogmatica nella scienza che la tratta come verità assoluta. Il modello di conflitto di scienza e religione che l’affare Galileo spesso perpetua non lascia molto spazio a questo tipo di sottigliezza per quanto riguarda il potenziale buono e cattivo della scienza, o il modo in cui la conoscenza scientifica, se applicata in modo non riflessivo, può essere problematica come la religione fondamentalista nel suo assolutismo. Francesco si oppose alle opinioni assolutiste, in generale. Papa Francesco ha più volte ospitato in Vaticano e ha più volte preso parte a conferenze e summit internazionali dedicati all’ambiente (COP,…). Cosa ha ottenuto concretamente Francesco in queste sedi ‘ufficiali’? Alcuni di questi incontri in Vaticano hanno avuto un focus molto pratico e hanno riunito tutti i tipi di persone – scienziati e altri ricercatori, politici e responsabili politici, leader religiosi – per discutere di questioni come come adattarsi ai cambiamenti climatici nei decenni a venire. Questi incontri si sono concentrati sulla creazione di linee guida specifiche per raggiungere l’adattamento climatico e la resilienza. I documenti, o protocolli, che ne derivano, poi vanno a informare la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Quindi possono avere impatti nel mondo reale. Cosa pensava Papa Francesco dell’Accordo di Parigi, firmato nel 2015? Papa Francesco ha contribuito alla firma dell’accordo? Non ha firmato personalmente l’accordo, ma nel 2022 la Santa Sede ha annunciato la sua adesione alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e all’accordo di Parigi. Mentre Francesco sosteneva fortemente l’accordo di Parigi, temeva anche che non avrebbe fatto abbastanza per affrontare l’alto grado di responsabilità per il cambiamento climatico tra le nazioni ricche, rispetto a quelle più povere. In seguito sarebbe diventato molto più critico nei confronti dei vertici sul clima per la loro incapacità di prendere sul serio queste responsabilità. Laudate Deum ha esorato i leader mondiali per i loro fallimenti e le loro promesse non mantenute, e per continuare lo status quo del capitalismo globale, mentre i poveri soffrono gli effetti del crollo ambientale. Il richiamo alla ‘conversione ecologica’ invocata da Papa Francesco è stata condivisa dall’intera gerarchia vaticana? Chi si è opposto? Come indicato dall’adesione a tali Accordi e Quadri, c’era sostegno per l’agenda ambientale di Francesco tra molti in Vaticano. Come per i cattolici in generale, tuttavia, alcuni conservatori pensavano che fosse andato troppo lontano o che l’ambientalismo non fosse un obiettivo appropriato di un papa. Alcuni di questi detrattori sono stati probabilmente influenzati dai loro legami con i combustibili fossili. Secondo Lei, Papa Francesco è riuscito a cambiare la sensibilità delle società, almeno dei cattolici sull’ambiente che, spesso, votano più i populisti che dichiarano il contrario di Bergoglio? In termini di una rivoluzione nella sensibilità, penso che la caratterizzazione sia troppo forte, purtroppo. Molte delle dottrine che i cattolici progressisti avrebbero potuto volere che rivoluzionasse, ad esempio, il posto delle donne nella Chiesa, rimangono più o meno invariate, formalmente, anche se ha parlato in termini indulgenti e non giudicanti su questioni come il divorzio o il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche così, senza cambiare la dottrina ufficiale, la sua umiltà, la sua evidente preoccupazione per i poveri e coloro che soffrono, umani e non umani allo stesso modo, e il suo interesse per il dialogo e il dibattito stabiliscono un tono positivo e di ricerca. Possiamo dire che l’ambientalismo di Francesco era ‘scomodo’ perché non era ipocrita? L’ambientalismo di Francesco mi è sembrato autentico, in quanto ha praticato ciò che predicava. Viveva uno stile di vita piuttosto modesto, rinunciando a molte di cui i papi precedenti godevano. Ha sostenuto stili di vita più semplici, meno consumistici e ha modellato quei valori. Sospetto che la sua sincerità su questi punti sia preoccupante per le persone che preferiscono abbracciare l’ambientalismo in modo superficiale, senza dover sacrificare nulla o cambiare nulla del modo in cui vivono. Alcuni potrebbero opporsi alla sua impronta di carbonio (volare in tutto il mondo, ecc.) o all’uso dell’aria condizionata in Vaticano, o qualsiasi altra cosa. Penso che questo manchi il punto della sua genuina solidarietà con i poveri e della maggiore consapevolezza che ha sollevato per il cambiamento climatico durante i suoi viaggi. Ho anche letto che ha viaggiato in un aereo efficiente che consumava meno carburante ed emetteva meno carbonio e spingeva per l’energia rinnovabile nella Città del Vaticano. La sua sincera preoccupazione per questi problemi probabilmente ha toccato un nervo scoperto. Era determinato a chiamare l’ipocrisia tra i cristiani, sostenendo che non puoi chiamarti cristiano e ignorare o insultare il rifugiato o altri che sono affamati, poveri e bisognosi di aiuto. Ha considerato che gli insegnamenti di Gesù sul ministero ai poveri e a coloro che ne hanno bisogno sono assolutamente centrali per la fede cristiana. E poiché ha tracciato un cerchio intorno ai poveri e al mondo naturale, vedendo sia agli emarginati che ai dimenticati, si è anche mantenuto a un alto standard di coerenza nelle sue convinzioni e azioni ambientali. Considerava l’ipocrisia un grande peccato. Avrebbe potuto fare di più Francesco per il clima? Suppongo che chiunque di noi abbia a che cura dell’ambiente possa sempre fare di più. Quello che ammiro di Francesco è la coerenza tra le sue convinzioni e le sue azioni e il suo stile di vita. Anche nei suoi ultimi giorni, si è sforzato di continuare le sue critiche ai problemi che ha identificato, in particolare il suo rimprovero delle recenti politiche dell’amministrazione Trump riguardanti la deportazione degli immigrati e l’audace insistenza di Francesco sul fatto che queste azioni non sono coerenti con il cristianesimo. Il suo messaggio è stato coerente per tutto il suo papato e, semmai, quel messaggio è diventato più urgente ed eloquente. In conclusione, cosa resterà della sensibilità ambientale di Francesco nella Chiesa del futuro? È possibile che la sua visione progressiva continui. Francesco ha nominato un gran numero di elettori che sceglieranno il prossimo papa, il cosiddetto ‘conclave’. Più in generale, ha toccato molte vite con il suo amore per le persone e la sua identificazione con la persona media piuttosto che con le élite e la gerarchia della Chiesa. A differenza di altre figure populiste oggi, Francesco si è schierato con il popolo, spesso contro le élite, mentre figure come Trump affermano di sfidare le cosiddette élite nelle università, ad esempio, mentre conduce un colpo di stato tecnocratico eseguito da miliardari per miliardari. [...] Read more...
1 Maggio 2025Mike Waltz, il consigliere per la sicurezza nazionale USA, è stato licenziato dal Presidente Donald Trump che lo ha annunciato su ‘Truth’: “Sono lieto di annunciare – ha scritto il presidente Usa – che nominerò Mike Waltz prossimo ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Fin dalla sua esperienza in uniforme sul campo di battaglia, al Congresso e come mio consigliere per la sicurezza nazionale, Mike Waltz si è impegnato a fondo per mettere al primo posto gli interessi della nostra Nazione. So che farà lo stesso nel suo nuovo ruolo”. Nel frattempo, ha aggiunto Trump, “il segretario di Stato Marco Rubio ricoprirà la carica di consigliere per la sicurezza nazionale, pur mantenendo la sua forte leadership al Dipartimento di Stato. Insieme, continueremo a lottare instancabilmente per rendere l’America e il mondo di nuovo sicuri. Grazie per l’attenzione!”. Poco prima, in un incontro al Rose Garden della Casa Bianca, il Presidente aveva ringraziato alcuni membri della sua amministrazione seduti di fronte a lui per il loro lavoro senza accennare alle dimissioni di Mike Waltz. Pete Hegseth sta “facendo un lavoro fantastico” e quando ha un problema chiama Rubio, che “lo risolve”, ha detto Trump. Sia Hegseth sia Rubio erano nella chat Signal creata da Waltz. “Sono profondamente onorato di continuare il mio servizio al presidente Trump e alla nostra grande nazione”, ha scritto Waltz su X dopo l’annuncio del tycoon. Nelle scorse ore, prima delle parole di Trump, diversi media statunitensi avevano parlato delle possibili imminenti dimissioni di Waltz e del suo vice Alex Wong, pronti ad andarsene dopo lo scandalo del ’chat-gate’ che era scoppiato a marzo, quando il direttore dell’Atlantic Magazine, Jeffrey Goldberg, aveva rivelato che Waltz lo aveva aggiunto per errore a una chat riservata del Pentagono su Signal: nella chat si parlava degli attacchi contro gli Houthi e i funzionari intervenuti avevano illustrato il piano di attacco, compresi gli orari in cui gli aerei da guerra statunitensi sarebbero decollati per bombardare obiettivi nello Yemen. Waltz, ex membro del Congresso degli Stati Uniti, è il primo alto funzionario a lasciare il suo posto nell’amministrazione Trump nel secondo mandato del tycoon, anche se sarà nominato ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite. Secondo Politico, che cita fonti vicine alla Casa Bianca, già da settimane si stava discutendo del possibile successore di Waltz. “I nomi di un sostituto sono stati discussi alla Casa Bianca per settimane, ma il progetto di rimuovere Waltz già questa settimana ha preso piede negli ultimi giorni”, ha spiegato ‘Politico’ secondo cui a sostituire Waltz potrebbe essere “l’inviato speciale di Trump, Steve Witkoff, che sta guidando i negoziati con Russia, Iran e Hamas a Gaza”. Tuttavia, al momento, sono solo supposizioni visto l’incarico ad-interim assunto da Rubio. Ma chi è Michael George Glen Waltz? Nato il 31 gennaio 1974 a Boynton Beach in Florida, è una figura di spicco nel panorama politico e militare degli Stati Uniti. Veterano decorato delle Forze Speciali e rappresentante del 6º distretto congressuale della Florida, Waltz è stato scelto dal presidente eletto Donald Trump come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. La sua nomina, prevista per il 20 gennaio 2025, riflette l’intenzione della futura amministrazione di adottare un approccio risoluto per affrontare le sfide globali. La carriera militare di Mike Waltz è iniziata dopo il conseguimento di una laurea in Studi Internazionali presso il Virginia Military Institute nel 1996. Al termine degli studi, è stato sottotenente nell’esercito degli Stati Uniti, avviando un percorso che lo avrebbe portato a diventare uno degli ufficiali più rispettati delle Forze Speciali. Formazione Avanzata e Addestramento: Waltz ha completato la rigorosa Ranger School, una delle scuole di addestramento più impegnative dell’esercito americano, conosciuta per la sua intensità fisica e mentale. Successivamente, è stato selezionato per entrare nelle Forze Speciali dell’esercito, conosciute come “Berretti Verdi”, specializzandosi in operazioni speciali, controterrorismo e guerre non convenzionali. Durante la sua carriera, Waltz ha partecipato a numerose missioni in teatri di guerra tra cui Afghanistan, Medio Oriente e Africa. Ha ricoperto incarichi operativi sul campo come comandante di distaccamenti operativi, conducendo operazioni contro i Talebani e Al-Qaeda. Le sue operazioni non si limitavano solo al combattimento, ma includevano anche missioni di ricognizione, addestramento di forze locali e operazioni di stabilizzazione in aree ad alto rischio. Il servizio di Waltz è stato riconosciuto con diverse onorificenze, tra cui quattro Bronze Star, due delle quali per atti di valore straordinario in combattimento. Durante la sua carriera, ha affrontato situazioni estremamente pericolose, dimostrando abilità sia tattiche che strategiche. Oltre alle missioni sul campo, Mike Waltz ha svolto ruoli strategici presso il Pentagono. Ha lavorato come direttore delle politiche di difesa sotto i segretari alla difesa Donald Rumsfeld e Robert Gates, dove ha contribuito allo sviluppo di strategie di difesa nazionale. Successivamente, ha servito come consigliere senior per l’antiterrorismo del vicepresidente degli Stati Uniti, offrendo consulenza su questioni critiche di sicurezza nazionale. Anche dopo aver lasciato il servizio attivo, Waltz ha continuato a servire nella Guardia Nazionale dell’Esercito, raggiungendo il grado di colonnello. Nel 2020, è stato promosso ufficialmente a colonnello nella Guardia Nazionale, una testimonianza del suo impegno continuo verso la difesa del Paese. Nel 2018, Michael Waltz è stato eletto alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, rappresentando il 6º distretto della Florida, succedendo a Ron DeSantis. Durante il suo mandato, ha fatto parte di comitati cruciali come quello per i Servizi Armati, Affari Esteri e Intelligence, dove ha utilizzato la sua esperienza militare per influenzare le politiche di difesa. Mike Waltz è particolarmente noto per le sue posizioni ferme nei confronti della Cina. Considera Pechino la principale minaccia strategica per gli Stati Uniti, accusando il Partito Comunista Cinese di condurre una nuova “guerra fredda” contro l’Occidente. Come membro del China Task Force, Waltz ha contribuito a sviluppare raccomandazioni per contrastare le ambizioni geopolitiche cinesi, proponendo oltre 400 misure per rafforzare la sicurezza e l’economia degli Stati Uniti. Waltz è convinto che gli Stati Uniti debbano adottare un approccio più duro per contrastare la Cina. Ha affermato che Pechino sta sfruttando strumenti economici, tecnologici e militari per sfidare la supremazia americana. Waltz ha spesso sottolineato l’importanza di proteggere le catene di approvvigionamento critiche e di rafforzare le alleanze in Asia per contenere l’influenza cinese. Sul fronte del conflitto tra Russia e Nato, Waltz ha espresso preoccupazione per la mancanza di coesione all’interno dell’alleanza atlantica, soprattutto in merito alla dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. Ha criticato in particolare la Germania per la sua riluttanza a staccarsi dal gas russo. Secondo Waltz, è fondamentale fornire all’Ucraina un supporto militare robusto e imporre sanzioni economiche severe per dissuadere ulteriori aggressioni russe. [...] Read more...
1 Maggio 2025Permettetemi di essere chiaro sulle mie preferenze. Mi piacerebbe molto vedere l’Ucraina riconquistare tutto il suo territorio, compresa la Crimea. La Russia dovrebbe perdere definitivamente la guerra che ha iniziato. Nel migliore di tutti i mondi possibili, Vladimir Putin sarebbe stato deposto e trasferito all’Aia per affrontare accuse di crimini di guerra. Una Russia più democratica potrebbe quindi essere accolta di nuovo nella comunità internazionale e in un sistema di sicurezza europeo ampliato. Ma questo non è il migliore di tutti i mondi possibili, nemmeno a portata di mano. Tre accordi di pace sono attualmente sul tavolo per porre fine alla guerra in Ucraina: dalla Russia, dagli Stati Uniti e dagli europei (compresa l’Ucraina). L’offerta della Russia è nudamente imperialista. Il piano degli Stati Uniti è fondamentalmente una capitolazione alla Russia. E gli europei offrono qualcosa di vicino a un autentico compromesso. Un accordo di pace per porre fine al conflitto triennale è anche lontanamente vicino? Se viene raggiunto un accordo, la Russia riprenderà la sua guerra dopo aver preso una pausa per un anno o lì? E l’Occidente e la Russia possono evitare un’altra guerra fredda di mezzo secolo o, incomparabilmente peggio, una guerra nucleare che distrugge il mondo? Donald Trump pensa di poter spingere le parti al tavolo dei negoziati, raggiungere un accordo e andarsene con un premio Nobel che può sventolare in faccia a Barack Obama. Trump ha anche pensato che twittare “Vladimir, STOP!” persuaderebbe il leader russo a porre fine ai suoi attacchi aerei sulle città ucraine (non è stato). Il presidente degli Stati Uniti è quindi potente e delirante. È una combinazione pericolosa. Ma potrebbe anche, attraverso nessun particolare genio diplomatico o forse a causa delle sue potenti delirie, precipitare un accordo. Dati i vari vincoli – le ambizioni imperialiste della Russia, la relativa debolezza dell’Ucraina, le divisioni interne della NATO e il desiderio quasi disperato di Trump di mantenere una promessa elettorale – qual è il miglior accordo che può essere salvato da una situazione molto brutta? Cosa vuole la Russia L’ostacolo principale a qualsiasi accordo di pace è Putin stesso. La guerra è un dono di sé che continua a dargli: un motivo per sopprimere ogni dissenso, un modo per scusare gli errori economici che la sua amministrazione ha commesso e i sacrifici quotidiani che i russi ordinari stanno facendo, e un’opportunità per concentrare tutte le energie della società russa su un avversario esterno (piuttosto che su un autocrate interno). Putin pensa di essere al posto dell’uccello gatto – la sua posizione politica è più o meno sicura, la Russia ha fatto progressi incrementali sul campo di battaglia, l’economia è ancora funzionante – quindi ha incaricato il suo ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, di presentare termini senza compromessi. La Russia vuole che il mondo riconosca i suoi guadagni territoriali, non solo la Crimea o la terra che le truppe russe attualmente occupano, ma tutte e quattro le province ucraine che ha costituzionalmente assorbito nella Federazione Russa. In altre parole, la Russia vuole afferrare la terra con una penna che finora non è stata in grado di acquisire con la forza militare. Sebbene la Russia controlli quasi tutta la provincia di Luhansk, comanda solo circa tre quarti delle province di Donetsk, Kherson e Zaporizhzhia. La Russia vuole l’adesione alla NATO fuori dal tavolo per l’Ucraina. Vuole anche che il paese sia smilitarizzato, rendendolo così per sempre vulnerabile all’interferenza russa e, in definitiva, all’assorbimento. Lavrov ha chiesto cambiamenti legislativi che ripristinino lo status della lingua e della cultura russa nella società ucraina. E, naturalmente, la Russia vuole che le sanzioni economiche contro di essa siano revocate immediatamente. Questa non è nemmeno la posizione massimalista di Putin. Se non può occupare tutta l’Ucraina, vuole almeno espandere il controllo territoriale russo intorno a Kharkiv nel nord e nelle regioni meridionali dell’Ucraina, tagliando l’accesso del paese al Mar Nero. Questa ambizione è coerente con il concetto di Novorossiya (“Nuova Russia”), che espande la Russia in varie direzioni. A corto di soldati russi accovacciati a Kiev, Putin vuole che Volodymyr Zelensky sia sostituito da un leader più favorevole al Cremlino. Le ambizioni di Putin oltre l’Ucraina sono meno chiare. L’espansione delle basi russe vicino alla Finlandia e ai Paesi Baltici, nonché l’aumento delle capacità militari che hanno poco a che fare con la guerra in Ucraina (missili ipersonici, un arsenale nucleare migliorato) suggeriscono preparativi per un conflitto incombente con l’Occidente. Ma come può Putin prepararsi a combattere la NATO quando il suo esercito non poteva nemmeno sottomettere le forze ucraine? Come Trump, potrebbe semplicemente essere potente e delirante. Ma in realtà, nonostante una pletora di minacce, la Russia ha assiduamente evitato il confronto diretto con le forze della NATO. Non ha, ad esempio, bombardato le linee di rifornimento in Ucraina. Sebbene la Russia stia interferendo nella politica europea, ad esempio, nelle ultime elezioni presidenziali rumene, non ha la base economica o le capacità militari per affrontare un esercito europeo moderno, anche uno che potrebbe in futuro essere abbandonato dall’America di Trump. Quindi, probabilmente Putin non si sta preparando ad attaccare. Ma potrebbe avere preoccupazioni genuine di essere attaccato. Se Putin avesse il potere militare della NATO e si trovasse di fronte a una superpotenza zoppiaca come la Russia, probabilmente lancerebbe un’invasione preventiva per eliminare una minaccia futura. Putin immagina che altri leader pensino come lui (anche quando non lo fanno). Il problema è che Putin non si preoccupa di distinguere i segnali che invia sul suo desiderio coloniale di assorbire l’Ucraina – o almeno “finlandizzare” il paese – dalla sua retorica sul confronto con gli “anglosassoni”, la sua etichetta preferita per la minaccia proveniente dall’Occidente. Questo non è di buon auspicio per l’Ucraina o per il resto del mondo. Quello che vuole l’Ucraina La posizione ucraina è abbastanza semplice. Vuole riconquistare il suo territorio perduto e acquisire sufficienti garanzie di sicurezza per deterre la futura aggressione russa. Ha bisogno di fondi per la ricostruzione. Aspira ad aderire all’Unione europea. Gli europei hanno messo sul tavolo, con il sostegno dell’Ucraina, una proposta molto diversa da quella offerta dai russi. Non ci sarebbero discussioni sui cambiamenti territoriali fino a quando non entrerà in vigore un cessate il fuoco incondizionato. Gli Stati Uniti parteciperebbero al monitoraggio del cessate il fuoco. Non ci sarebbero restrizioni sull’esercito ucraino. In termini di garanzie di sicurezza, gli Stati Uniti fornirebbero un “accordo simile all’articolo 5”, mentre l’adesione alla NATO rimarrebbe in gioco. La coalizione di volerosi che sostiene l’Ucraina potrebbe inviare attrezzature e truppe in territorio ucraino. L’Ucraina riprenderebbe il controllo della centrale nucleare di Zaporizhzhia e della diga di Kakhovka. L’Ucraina riceverebbe assistenza per la ricostruzione mentre la Russia dovrebbe attendere l’alleggerimento delle sanzioni fino a quando non sarà raggiunta una pace stabile. La guerra è stata così devastante per la popolazione ucraina e l’economia che Kiev è disposta a prendere in considerazione almeno concessioni territoriali temporanee al fine di porre fine allo spargimento di sangue e acquisire quelle sfuggenti garanzie di sicurezza. Un possibile compromesso comporterebbe l’Ucraina di fatto il riconoscimento dell’occupazione russa pur mantenendo la speranza che un futuro referendum in quelle aree possa riportarle al controllo ucraino. Se l’Ucraina si unisce all’Unione europea, riceve una notevole assistenza per la ricostruzione e riesce ad avvicinarsi al livello economico di una Romania o di una Bulgaria, allora non è inconcepibile che gli attuali residenti della Crimea, del Donbass o delle sezioni occupate di Kherson e Zaporizhzhia optino per le libertà dell’Europa piuttosto che per la mediocratà autocratica della Russia. Cioè, se il governo russo lascia che chiunque nelle terre sotto il suo controllo esprima liberamente le proprie preferenze. Cosa vuole Trump Chissà: cambia di giorno in giorno, ora in ora. Quello che vogliono gli Stati Uniti Il consenso negli Stati Uniti è: La Russia è l’aggressore (incluso il 69 per cento dei repubblicani) La Russia violerebbe qualsiasi accordo raggiunto (incluso il 69 per cento dei repubblicani) Il conflitto è importante per gli interessi nazionali statunitensi (69% di tutti gli intervistati) Gli Stati Uniti non dovrebbero inviare truppe in Ucraina per sostenere i suoi militari (il 70 per cento di tutti gli intervistati) Praticamente su tutte le altre questioni, fornendo ulteriore assistenza militare, sostenendo l’adesione ucraina alla NATO, se la guerra dovesse finire rapidamente o meno, il divario partigiano è troppo ampio per identificare le posizioni di consenso. L’amministrazione Trump ha messo sul tavolo una proposta che riflette le posizioni russe: il riconoscimento de jure della Crimea da parte di Washington, l’accettazione de facto dell’occupazione russa di altri territori, la NATO fuori dal tavolo, la revoca delle sanzioni russe e una nuova relazione economica con Mosca. L’Ucraina otterrebbe una debole garanzia di sicurezza, una piccola scheggia di territorio occupato russo nella provincia di Kharkiv e alcuni aiuti alla ricostruzione (forse). Gli Stati Uniti avrebbero ottenuto il controllo della centrale elettrica di Zaporizhzhia e l’accesso a una quantità sconosciuta di minerali ucraini. Ma anche all’interno dell’amministrazione Trump, ci sono posizioni diverse. Steven Witkoff – apparentemente l’inviato in Medio Oriente, quindi cosa sta facendo a Mosca? – sembra desideroso di essere il migliore amico americano di Putin. È anche uno dei più vecchi amici di Trump, quindi è diventato un canale per la propaganda del Cremlino riversata nell’orecchio del presidente. È anche il rappresentante degli Stati Uniti più responsabile dell’ultimo accordo di pace dell’amministrazione. Keith Kellogg, che è il vero inviato per la Russia e l’Ucraina, sembra avere una migliore comprensione della posta in gioco geopolitica. Quindi, ovviamente, è stato escluso da alcuni dei negoziati di alto livello, presumibilmente perché il Cremlino lo considera “troppo pro-Ucraina”. Kellogg ha escoggitato un’intaglio territoriale simile alle zone imposte alla Germania (e a Berlino) dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si è affrettato a seguire con un commento che non stava raccomandando la divisione dell’Ucraina (no?). Alcuni membri repubblicani del Congresso non sono ancora saliti sul carrozzone filo-russiano. Ma stanno respingendo i boccagli del Cremlino in gran parte a porte chiuse. Cosa viene dopo? L’amministrazione Trump potrebbe rinunciare a un accordo di pace di fronte all’intransigenza di Putin, cosa che ha minacciato di fare in diverse occasioni. Gli ucraini potrebbero scavare nei loro talloni sulla questione delle garanzie di sicurezza insufficienti o delle concessioni territoriali. I russi potevano raddoppiare la loro attuale offensiva di primavera – nonostante l’illusorio cessate il fuoco di Putin – e spingere per acquisire tanto territorio militarmente prima di tornare al tavolo dei negoziati nel tardo autunno per cercare ancora una volta di ottenere diplomaticamente ciò che non poteva ottenere con la forza. Ma diciamo che le stelle in qualche modo si allineano. Ecco un piano in 10 punti su cui tutte le parti potrebbero essere d’accordo: Un “cessate il fuoco permanente” lungo la linea di fuoco così come per via aerea e mare Gli Stati Uniti riconoscono la Crimea come territorio russo L’Ucraina riconosce l’occupazione russa del territorio ucraino, compresa la Crimea, come de facto ma non de jure La NATO è fuori dal tavolo per il prossimo futuro L’adesione ucraina all’Unione europea è accelerata L’Ucraina ha la libertà illimitata di aggiornare i suoi militari La “coalizione della volontà” dei paesi per lo più europei monitora il cessate il fuoco lungo una zona demilitarizzata e schiera una forza di mantenimento della pace limitata nel territorio ucraino La Russia riceve un sollievo dalle sanzioni dopo che tutti gli altri aspetti dell’accordo sono stati attuati L’Ucraina riceve assistenza economica, parte della quale proviene dalle risorse congelate della Russia in Occidente e che viene utilizzata anche per la ricostruzione dei territori occupati L’Ucraina determina la tempistica e la natura delle sue elezioni Confronta questa lista con le mie preferenze ideali nella parte superiore di questo articolo e ovviamente rimarrei deluso da un tale accordo. Ma soddisferebbe alcune delle richieste di entrambe le parti, fornendo al contempo alcune sottili garanzie affinché la guerra non scoppierebbe di nuovo dopo pochi mesi. Ora vediamo se Trump imporrà termini russi all’Ucraina, si stancherà dei negoziati di pace notoriamente difficili o faciliterà in qualche modo un accordo che fa il meglio di una brutta situazione [...] Read more...
1 Maggio 2025Altri Paesi – Cina, Russia, India – si stanno affrettando a riempire il vuoto per il proprio guadagno strategico     Dalla sua inaugurazione, l’amministrazione Trump ha intrapreso un’agenda aggressiva per smantellare le normative ambientali vitali e le iniziative per il cambiamento climatico, sia in patria che all’estero. Si è manifestato attraverso numerose azioni di deregolamentazione, lo smantellamento di quadri giuridici e amministrativi stabiliti e un palese disprezzo per la scienza del clima. La risposta internazionale a questo assalto alla politica climatica si sta evolvendo, modellata in gran parte dagli interessi strategici e dalle ambizioni geopolitiche delle principali potenze mondiali. Il ritiro degli Stati Uniti dagli sforzi ambientali e climatici globali ha creato un vuoto significativo che altre grandi potenze sono fin troppo desiderose di sfruttare per i loro guadagni strategici. Nei suoi primi tre mesi, l’amministrazione ha scatenato almeno 20 ordini esecutivi, 16 memorandum, numerose linee guida federali e vari ordini a livello segreto, tutti orchestrati per ripristinare regolamenti, politiche e istituzioni ambientali essenziali. Questi strumenti sono deliberatamente realizzati per erodere i pilastri fondamentali delle iniziative di protezione ambientale, sostenibilità e clima. Minacciano i principi della giustizia ambientale, il progresso delle politiche energetiche pulite, la conservazione della fauna selvatica e, in ultima analisi, la salvaguardia sia delle persone che della natura dall’influenza corrosiva dell’avidità aziendale e delle pratiche di sfruttamento. Le azioni intraprese dall’amministrazione hanno incluso il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, la mira alle leggi sul clima degli stati, un piano per smantellare la FEMA, la cessazione dell’American Climate Corps, lo smantellamento delle iniziative di energia rinnovabile e un tentativo di porre fine all’impiego di oltre 1.000 scienziati dell’Agenzia per la protezione ambientale (EPA). In un’altra mossa significativa, l’amministrazione ha licenziato quasi 800 membri del personale e scienziati della National Oceanic and Atmospheric Agency che hanno svolto ruoli critici nella ricerca meteorologica, marina, della pesca e climatica. Inoltre, l’amministrazione ha ridotto i bilanci per le iniziative di giustizia ambientale di quasi 2 miliardi di dollari, ha smantellato le normative essenziali sulla qualità dell’aria e sull’anidride carbonica e ha interrotto l’applicazione delle norme sull’inquinamento per gli impianti energetici. L’amministrazione ha anche revocato la classificazione di anidride carbonica, metano e altri gas serra (GHG) come inquinanti. La campagna dell’amministrazione si è estesa oltre le sue azioni politiche. Ha anche attaccato la scienza del clima, i fatti e il consenso promuovendo narrazioni false e non scientifiche nel discorso pubblico. Implicazioni globali sulla scienza e la politica del clima Gli Stati Uniti sono stati un attore fondamentale nelle iniziative globali sul clima almeno dagli anni ’80, dando contributi sostanziali attraverso la loro abilità scientifica, il sostegno finanziario, l’influenza politica e le strategie di definizione dell’agenda. Tuttavia, il suo recente ritiro da questi impegni globali vitali sta già avendo un effetto a catena globale, specialmente nel campo della scienza del clima. Alla fine di febbraio, l’amministrazione Trump ha vietato agli scienziati americani di partecipare a una riunione cruciale del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) in Cina. Istituito nel 1988 sotto gli auspici delle Nazioni Unite, l’IPCC è la principale autorità scientifica sulle questioni climatiche, vantando una coalizione di migliaia di scienziati nominati dagli Stati membri. Fornendo valutazioni regolari del cambiamento climatico, dei suoi effetti e dei potenziali rischi, l’IPCC è responsabile della produzione di influenti rapporti di valutazione del clima. L’incontro in Cina si è concentrato sulla preparazione del settimo rapporto del ciclo di valutazione in scadenza nel 2029. L’assenza degli Stati Uniti sta già causando una frattura nel consenso globale. Gli Stati membri, ad esempio, si sono divisi in due blocchi sulla tempistica del rilascio del rapporto. L’HighAmbition Coalition (HAC), che comprende circa 20 paesi dell’UE, dell’America Latina e delle nazioni insulari, ha chiesto un rilascio anticipato prima dell’Ontaking globale delle Nazioni Unite a metà del 2028. Il conto, parte dell’accordo sul clima di Parigi, valuta i progressi nazionali sulle emissioni e sugli obiettivi climatici ogni cinque anni. L’HAC voleva che il rapporto fosse pubblicato in anticipo per garantire che contribuisse alla politica e alle discussioni sul clima globale nel 2028. Dall’altra parte c’era un gruppo di circa una dozzina di grandi inquinatori, tra cui Cina, India, Arabia Saudita e Russia, che si opponevano alla tempistica accelerata per il rilascio del rapporto di valutazione dell’IPCC. Non volevano che i dati di inventario aggiornati influenzassero i piani d’azione globali per il clima per il 2028. Questo sforzo ha ricevuto il sostegno dell’industria dei combustibili fossili e ha implicazioni significative per la scienza e il ruolo dell’IPCC nel plasmare le iniziative climatiche globali. In definitiva, la riunione non è stata in grado di raggiungere un accordo sul rilascio del rapporto di valutazione. Questa potenziale rottura più significativa nel ruolo dell’IPCC dalla sua istituzione nel 1988 finirà per avvantaggiare gli inquinatori e gli interessi dei combustibili fossili.L’assenza di scienziati americani dell’IPCC e la mancanza degli Stati Uniti come stato leader nelle discussioni sul clima globale hanno contribuito a questa rottura. La reazione performativa globale del clima cinese Nel regno della politica climatica globale, la Cina è stata caratterizzata come uno stato performativo. Sebbene le sue azioni relative al clima sulla scena globale siano impressionanti, sono in gran parte influenzate dai suoi interessi strategici ed economici. Il ritiro degli Stati Uniti dalla politica climatica globale ha creato un’opportunità per la Cina di entrare nel vuoto e posizionarsi come leader affidabile nella politica ambientale internazionale e nelle politiche climatiche. La Cina ha condannato il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi e si è impegnata a stabilizzare gli interessi climatici globali. Il paese sta intensificando i suoi impegni per il finanziamento del clima e le iniziative verdi in varie regioni, come l’Africa e i Caraibi. Con i sostenitori internazionali del clima che chiedono leadership, la Cina ha colto l’opportunità di migliorare il suo ruolo di stato leader nelle azioni e nella politica globale sul clima. Durante la plenaria dell’IPCC in Cina, i rappresentanti del paese ospitante hanno ribadito il loro impegno per la cooperazione scientifica sul clima e hanno chiesto alla comunità l’integrità scientifica. Il capo dell’amministrazione meteorologica cinese ha promesso la dedizione del paese all’IPCC e la sua volontà di collaborare ai sistemi di allarme globali. Ciò si verifica in un momento in cui l’amministrazione Trump sta tagliando significativamente i finanziamenti per le iniziative e le agenzie scientifiche legate al clima. Sebbene la Cina cerchi di assumere il ruolo di leadership climatica che gli Stati Uniti hanno lasciato libero, molte delle sue pratiche ambientali nazionali e globali sono controproducenti per la lotta contro il cambiamento climatico. Il paese non è solo il più grande inquinatore in termini di emissioni lorde di gas serra (GHG), ma sta anche affrontando una significativa crisi ambientale, in particolare nella qualità dell’aria. In quanto più grande produttore di carbone al mondo, rappresenta la metà del consumo globale di carbone. Nel 2024, il paese ha approvato il maggior numero di centrali elettriche a carbone dal 2015, prevedendo di aggiungere quasi 100 gigawatt (GW) di elettricità generata a carbone alla sua rete nazionale. Mentre la Cina ha aumentato le sue centrali elettriche a carbone, l’amministrazione Trump sembra competere con Pechino attuando politiche che facilitino la rinascita del carbone nel settore energetico statunitense. Queste misure includono l’esenzione di quasi 50 grandi centrali elettriche private dagli standard federali di mercurio e tossiche dell’aria. Inoltre, l’amministrazione ha ordinato ai Dipartimenti dell’Interno e del Commercio di identificare le regioni con infrastrutture a carbone esistenti per soddisfare le richieste energetiche dei data center di intelligenza artificiale. L’U-Turn sul clima dell’UE Fino a poco tempo fa, l’UE era considerata un “potere normativo verde”. Utilizzando il suo soft power, l’UE si è posizionata come leader globale nell’ambientalismo e nella politica climatica, dando priorità alle transizioni verdi nelle sue politiche economiche e politiche. Tuttavia, lo scoppio della guerra in Ucraina ha provocato un significativo allontanamento dall’energia pulita verso una maggiore dipendenza dai combustibili fossili convenzionali, compreso il carbone, anche se temporaneamente. Durante il primo mandato del presidente Trump, il ritiro degli Stati Uniti dalle iniziative climatiche globali ha affrontato forti critiche da parte dei paesi membri dell’UE. La stessa reazione si è verificata durante il secondo mandato di Trump, quando la sua amministrazione si è nuovamente ritirata da queste iniziative. Tuttavia, la guerra commerciale in corso avviata dalla sua amministrazione sembrava costringere l’UE a dare priorità ai suoi interessi strategici rispetto al suo impegno per il cambiamento climatico. Alla fine di febbraio, il Consiglio europeo (CE) ha proposto di allentare le normative ambientali e di sostenibilità, nonché gli standard di rendicontazione e i requisiti di trasparenza della catena di approvvigionamento per le aziende europee. Questa decisione è arrivata in risposta alle preoccupazioni delle società europee, che hanno affermato che questi regolamenti sociali e di sostenibilità ostacolano la loro competitività nell’economia globale. Greenpeace ha criticato la proposta del Consiglio europeo, sostenendo che il consiglio compete con Trump e Musk diminuendo le protezioni sia per le persone che per il pianeta. Organizzazioni ambientali, attivisti e gruppi di difesa hanno formalmente presentato reclami contro la proposta della CE con il cane da guardia dell’UE. Le Ambizioni Geopolitiche Della Russia Durante la Guerra Fredda, gli scienziati sovietici erano tra i pionieri nella scienza del cambiamento climatico. Politicamente, l’Unione Sovietica è stata anche un precursore nel sostenere la cooperazione internazionale sul degrado ambientale, la sostenibilità e la distruzione indotta dall’uomo dell’ecologia del pianeta. Ad esempio, nel 1985, l’ultimo premier dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, ha fatto appello alla collaborazione globale su queste questioni. All’inizio, sembrava che la Russia avrebbe continuato in questa tradizione. Nel 2004, quando gli Stati Uniti e l’Australia hanno scelto di non ratificare il Protocollo di Kyoto, il primo accordo internazionale sul clima legalmente vincolante per le nazioni sviluppate, la Russia lo ha firmato e ratificato per evitare che l’accordo crollasse. In questo modo, la Russia ha effettivamente assicurato la sopravvivenza del protocollo. Ma la Russia sotto il presidente Vladimir Putin ha fatto un passo indietro dalla gestione ambientale e dalla politica climatica attiva. Ha subordinato la politica climatica alle sue ambizioni geopolitiche. Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, ad esempio, crea proprio il tipo di caos nella politica climatica globale e nel finanziamento che si allinea con le ambizioni geopolitiche della Russia. Come potenza revisionista insieme alla Cina, la Russia cerca di influenzare la politica mondiale attraverso accordi istituzionali globali alternativi come i BRICS. Il ritiro degli Stati Uniti offre ai BRICS l’opportunità di promuovere le sue alternative ai sistemi finanziari della Banca mondiale e del FMI, come la New Development Bank (NDB) e l’accordo di riserva contingente (CRA), in particolare nei settori del finanziamento del clima e dei progetti di sostenibilità. Tra le due iniziative finanziarie, l’NDB, che ha iniziato a operare nel 2016, offre prestiti incentrati sulla finanza climatica, sullo sviluppo sostenibile, sull’energia pulita e sullo sviluppo sociale. L’NDB, in linea con gli obiettivi climatici globali, non finanzia le centrali elettriche a carbone o la produzione di energia. Sebbene le dimensioni e le operazioni di questa istituzione finanziaria siano attualmente limitate, l’imprevedibilità dei meccanismi finanziari climatici guidati dall’Occidente, esacerbati dalle politiche irregolari dell’amministrazione Trump, può guidare i paesi in via di sviluppo con elevate vulnerabilità climatiche e bassi livelli di preparazione al carrozzone attorno alle istituzioni finanziarie alternative dei BRICS. Questa situazione rappresenta un’opportunità per la Russia di estendere i suoi tentacoli strategici a questi paesi, compresi quelli dell’Unione africana e del Commonwealth degli Stati Indipendenti. L’espedienza dell’India L’India, uno dei maggiori importatori mondiali di combustibili fossili grezzi e il secondo più grande consumatore di carbone, è significativamente influenzata dal cambiamento climatico, sperimentando gravi effetti come modelli monsonici alterati, siccità e ondate di calore. In mezzo alle turbolenze nel clima globale e nella politica ambientale, l’India sembra sfruttare questo disordine a suo vantaggio. Dopo l’inaugurazione di Trump, le esportazioni di petrolio greggio degli Stati Uniti verso l’India hanno raggiunto un massimo di due anni. Inoltre, durante il loro incontro iniziale, il primo ministro indiano Modi ha sostenuto le politiche energetiche di Trump aumentando le importazioni di combustibili fossili americani. La crescente domanda indiana di combustibili fossili americani è guidata in parte dalle sanzioni sul vicino Iran, ma anche da considerazioni economiche pragmatiche. Per ridurre il suo deficit commerciale con gli Stati Uniti, l’India sta cercando accordi tariffari più favorevoli aumentando i suoi acquisti di combustibili fossili. Per raggiungere questo obiettivo, il governo Modi sta perseguendo la fine dell’imposta sulle importazioni sul gas di petrolio liquefatto (GPL) degli Stati Uniti. I funzionari di Nuova Delhi si sono impegnati ad espandere significativamente gli acquisti di energia dagli Stati Uniti, puntando a un aumento da 10 miliardi di dollari a 25 miliardi di dollari nel prossimo futuro. L’aumento delle importazioni di combustibili fossili americani a basso costo pone una sfida a lungo termine agli sforzi dell’India per migliorare la quota di fonti di energia pulita nella sua economia. L’approccio pragmatico e opportunista del governo Modi alla politica energetica non è solo una risposta all’assalto dell’amministrazione Trump alla deregolamentazione climatica e ambientale. Piuttosto, è una continuazione delle politiche iniziate con lo scoppio della guerra in Ucraina. L’invasione russa dell’Ucraina, insieme alle conseguenti sanzioni globali sul gas naturale e sul petrolio russi, ha presentato al governo Modi l’opportunità di sfruttare il significato geopolitico dell’India, in particolare nella regione indo-pacifica. Come membro del Quad, che mira a contrastare l’espansione geostrategica della Cina, l’India è stata in grado di aumentare le importazioni di combustibili fossili, tra cui gas naturale liquefatto, petrolio e persino carbone dalla Russia, a prezzi significativamente inferiori a quelli del mercato globale. Ora, sfruttando la tendenza dell’amministrazione Trump a dare priorità all’energia rispetto alle normative climatiche, il primo ministro Modi sta cercando di espandere il mercato indiano dei combustibili fossili americani come parte della sua strategia per sostenere le esigenze energetiche degli Stati Uniti. Futuro della politica climatica globale La politica climatica è emersa come una necessità sulla scena internazionale a causa delle minacce rappresentate dal degrado ambientale e dai cambiamenti climatici per le persone, le comunità e le nazioni. Sebbene la politica ambientale e climatica abbia sfaccettature scientifiche e strumentali, possiede anche imperativi politici significativi. I paesi, in particolare le grandi potenze, spesso sostengono queste iniziative non solo per affrontare le minacce ambientali, ma anche per promuovere i loro interessi politici e strategici. Con la loro abilità scientifica, le risorse finanziarie, gli accordi istituzionali, la grande visione strategica e le preferenze normative, gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di leadership nel promuovere obiettivi climatici collettivi e istituzionalizzare la politica climatica globale. La decisione dell’amministrazione Trump di ritirarsi dal ruolo di leadership climatica ha aperto il campo alla concorrenza tra altre grandi potenze desiderose di affermare la loro influenza. Sebbene l’amministrazione Trump abbia danneggiato la credibilità della leadership climatica degli Stati Uniti, facendola sembrare inaffidabile e imprevedibile, altre potenze, in particolare stati revisionisti come Cina e Russia, sono pronte a riempire questo vuoto e allineare queste politiche con le loro ambizioni strategiche. Sebbene la politica ambientale e climatica globale possa affrontare sfide a causa di questo cambiamento di leadership, con conseguente difficoltà nel raggiungere gli obiettivi stabiliti o nell’attuazione senza intoppi dell’agenda, non scompariranno dalla scena internazionale. La politica ambientale e climatica è parte integrante del panorama politico internazionale contemporaneo. Tuttavia, le conseguenze saranno avvertite più acutamente dalle comunità e dalle nazioni vulnerabili di tutto il mondo, che continueranno a soffrire di shock climatici in base al loro grado di vulnerabilità e livello di preparazione. In definitiva, nessuna comunità è immune agli impatti degli shock climatici, compresi quelli negli Stati Uniti. L’amministrazione Trump sta quindi sottoponendo centinaia di milioni di persone, comprese le comunità americane, alle dure realtà degli shock climatici e del degrado ambientale. Ma sfida anche la razionalità e il calcolo strategico rafforzando le mani dei suoi avversari nella politica climatica globale. [...] Read more...
1 Maggio 2025Donald Trump ha celebrato i suoi primi cento giorni alla Casa Bianca con un comizio in Michigan: “I migliori 100 giorni del secolo” – ha detto ai suoi sostenitori entusiasti, attaccando senza freni il predecessore Joe Biden e la sfidante Kamala Harris ma anche i dipendenti pubblici licenziati, che definisce “burocrati corrotti e ladri”. “Le aziende vogliono tornare qui grazie ai dazi”, ha detto Trump alla folla, assicurando che “decine” di aziende stanno investendo nello Stato e presto i risultati si vedranno in termini di posti di lavoro. “Con me l’America non è più una discarica di criminali: gli arresti di terroristi sospetti o noti sono calati del 655%”, ha sostenuto il presidente che ha ricordato: “Ingressi illegali in calo del 99,999%, solo tre persone sono entrate dal Messico”. “Con me il mondo ha visto una rivoluzione del buon senso”, ha aggiunto. Il presidente ha quindi attaccato i “giudici comunisti” che stanno rallentando l’attuazione dei suoi ordini esecutivi, affermando che “vogliono distruggere il Paese”. “Non possiamo permettere a questi giudici comunisti di intralciare il processo di applicazione della legge, appropriandosi di poteri che spettano al presidente: vogliono distruggere il Paese”, ha dichiarato. “Nulla mi impedirà di tenere il Paese al sicuro”. I prezzi sono in calo ma le fake news dicono che sono in rialzo”, ha spiegato Trump, sottolineando che “l’inflazione è praticamente in calo. “C’è una persona alla Fed che non sta facendo un buon lavoro”, Trump ha contestato gli ultimi sondaggi che hanno segnalato un calo al 44% del gradimento nei suoi confronti. Il presidente ha affermato che “intervistano molti più democratici rispetto ai repubblicani: se i sondaggi fossero equi il mio gradimento sarebbe al 60-70%”. I sondaggi bipartisan, in realtà, mostrano un basso tasso di popolarità del Presidente: per il Nytimes/Siena al 42%; Nbc al 45%; Fox, Gallup e Cnbc al 44%. Il più basso è del Washington Post/Ipsos/Abc al 39%. Per la maggior parte, Trump va leggermente meglio che nello stesso periodo del suo primo mandato (41%), ma è in discesa rispetto ai mesi scorsi e al di sotto dei suoi predecessori dalla Seconda Guerra mondiale in poi. La popolarità di Trump è storicamente bassa per un leader così presto in un mandato. Più della metà degli elettori disapprova la performance di Trump come presidente e le maggioranze si oppongono alle sue politiche tariffarie e al taglio della forza lavoro federale. Le recensioni feroci arrivano mentre Trump la prossima settimana segna 100 giorni del suo secondo periodo in carica e suggeriscono che gli americani stanno già vivendo la stanchezza dopo un periodo che ha visto i mercati finanziari globali e deportazioni agghiaccianti, comprese le persone documentate. Un sondaggio dell’Associated Press-Norc Center for Public Affairs Research pubblicato questo fine settimana, ha rilevato che anche i repubblicani non sono convinti in modo schiacciante che l’attenzione di Trump sia stata nel posto giusto. Una maggioranza ristretta, il 54%, dei repubblicani intervistati ha affermato che Trump è concentrato sulle “giuste priorità”, mentre i numeri del presidente con elettori indipendenti cruciali sono molto più deboli. Solo il 9% degli indipendenti ha affermato che il presidente è concentrato sulle giuste priorità, con il 42% che crede che Trump stia prestando attenzione alle questioni sbagliate. Circa quattro persone su 10 nel sondaggio, il 39%, approvano il modo in cui Trump sta gestendo la presidenza in generale, e solo circa il 40% degli americani approva l’approccio di Trump alla politica estera, ai negoziati commerciali e all’economia. Nel frattempo, un sondaggio del New York Times/Siena College sugli elettori registrati venerdì ha rilevato che il tasso di approvazione di Trump è del 42% e solo del 29% tra gli elettori indipendenti. Più della metà degli elettori ha detto che Trump sta “superando i poteri a sua disposizione” e il 59% degli intervistati ha affermato che il secondo mandato del presidente è stato “spaventoso”. Mentre i leader repubblicani in genere ricevono punteggi forti sulle questioni economiche, gli americani sono stati sopraffatti dalle prestazioni di Trump. Il sondaggio del Times ha rilevato che solo il 43% degli elettori approva il modo in cui Trump sta gestendo l’economia – una forte inversione di tendenza rispetto a un sondaggio del Times nell’aprile 2024, che ha rilevato che il 64% ha approvato l’economia di Trump nel suo primo mandato. La metà degli elettori ha disapprovato le politiche commerciali di Trump con altri paesi, e il 61% ha affermato che un presidente non dovrebbe avere l’autorità di imporre tariffe senza l’approvazione del Congresso, mentre il Times ha riferito che il 63% – incluso il 40% dei repubblicani – ha detto che “un presidente non dovrebbe essere in grado di deportare gli immigrati legali che hanno protestato contro Israele”. Inoltre sull’immigrazione, un sondaggio di venerdì del Washington Post-ABC-Ipsos ha rilevato che il 53% degli americani ora disapprova la gestione delle questioni di immigrazione da parte del presidente, mentre il 46% approva. A febbraio la maggioranza era dall’altra parte, con la metà degli intervistati che approvava l’approccio di Trump su questo tema. Secondo il sondaggio del Pew Research Center, solo il 40% degli americani approva il modo in cui sta gestendo il lavoro – un calo di 7 punti percentuali rispetto a febbraio. Trump continua a ricevere voti alti dai suoi sostenitori più forti, molte delle sue azioni politiche chiave sono viste più negativamente che positivamente dal pubblico: Il 59% degli americani disapprova gli aumenti tariffari dell’amministrazione, mentre il 39% approva. Il 55% disapprova i tagli che l’amministrazione sta facendo ai dipartimenti e alle agenzie federali, mentre il 44% approva. Anche l’uso dell’autorità esecutiva da parte di Trump è stato criticato: il 51% degli adulti statunitensi afferma che sta fissando troppe politiche tramite un ordine esecutivo. Azioni molto più piccole dicono che sta facendo circa l’importo giusto (27%) o troppo poco (5%) attraverso ordini esecutivi. Con molte delle azioni dell’amministrazione che affrontano sfide legali nei tribunali federali, c’è un sentimento diffuso – in gran parte bipartisan – che l’amministrazione dovrebbe porre fine a un’azione se un tribunale federale lo ritenesse illegale. Il 78% afferma che l’amministrazione Trump dovrebbe dover seguire la sentenza di un tribunale federale, salendo all’88% se la Corte Suprema dovesse emettere la sentenza. Il 91% dei democratici e il 65% dei repubblicani affermano che l’amministrazione avrebbe bisogno di fermare un’azione se una corte federale la giudicasse illegale, salendo al 95% dei democratici e all’82% dei repubblicani per una sentenza della Corte Suprema. Tuttavia, l’ultimo sondaggio nazionale del Pew Research Center, condotto dal 7 al 13 aprile tra 3.589 adulti, trova differenze partigiane molto più ampie nelle valutazioni delle prestazioni lavorative complessive di Trump e di alcune politiche chiave. Sette repubblicani su dieci o più e indipendenti repubblicani approvano: Le prestazioni lavorative di Trump (75%) I tagli dell’amministrazione al governo (78%) Aumento delle tariffe (70%) Porre fine alle politiche di diversità, equità e inclusione (DEI) nel governo federale (78%) In confronto, maggioranze ancora più ampie di democratici e sostenitori democratici disapprovano: Le prestazioni lavorative di Trump (93%) I tagli dell’amministrazione al governo (89%) Aumento delle tariffe (90%) Porre fine alle politiche DEI nel governo federale (86%) L’attuale tasso di approvazione di Trump del 40% è alla pari con la sua valutazione a questo punto del suo primo mandato. Rimane inferiore agli indici di approvazione di altri presidenti recenti nei primi mesi delle loro presidenze. Tra i predecessori di Trump risalenti a Ronald Reagan, l’unico altro leader che non ha goduto dell’approvazione della maggioranza al suo segno di 100 giorni è Bill Clinton (49% di approvazione nell’aprile 1993).       È tipico che un presidente registri un declino significativo di appoggio nei primi mesi di presidenza, scrive il New York Times: nel caso di Trump è sceso un po’ più rapidamente rispetto a recenti predecessori ma non è una cosa senza precedenti. I repubblicani restano per la maggior parte con lui. Tuttavia ci sono alcuni chiari moniti al presidente: ha perso terreno sull’economia, una delle ragioni principali della sua rielezione; e anche se l’immigrazione resta il tema su cui è tuttora più forte, alcuni sondaggi mostrano una leggera erosione anche qui [...] Read more...
30 Aprile 2025Positivamente gli ucraini hanno reagito alla notizia che il tanto atteso accordo sulle risorse naturali con gli Stati Uniti era stato finalmente firmato. Mentre i dettagli dell’accordo sui minerali sono ancora in fase di comprensione, molti hanno già notato che i termini chiave dell’accordo sembrano ora molto più favorevoli per l’Ucraina rispetto alle bozze precedenti, che alcuni critici ucraini avevano parato allo sfruttamento “coloniale” per non dire al saccheggio. Il rappresentante Gregory Meeks, il democratico di rango nella Commissione per gli affari esteri della Camera, la pensava diversamente, definendolo “l’accordo di estorsione di Donald Trump sull’Ucraina”. Invece di concentrarsi sulla grande, piuttosto belligerante mosca nell’unguento – il presidente russo Vladimir Putin – il presidente degli Stati Uniti aveva “dimostrato nient’altro che debolezza” nei confronti di Mosca. Nella sua forma attuale, l’accordo presumibilmente lascia all’Ucraina il come determinare cosa estrarre in termini di minerali e dove deve svolgersi questa estrazione. Una dichiarazione del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha anche dichiarato che “Nessuno stato o persona che ha finanziato o fornito la macchina da guerra russa sarà autorizzato a beneficiare della ricostruzione dell’Ucraina”. La ministra dell’Economia ucraino Yulia Svyrydenko, che si è recata negli Stati Uniti per firmare l’accordo sui minerali mercoledì sera a seguito di intense discussioni dell’ultimo minuto sulla stampa fine dell’accordo, ha sottolineato che l’Ucraina manterrà la proprietà e il controllo sulle sue risorse naturali. La formulazione finale – ha osservato – “fornisce condizioni reciprocamente vantaggiose” per entrambi i Paesi, elogiando l’accordo come “un accordo che riafferma l’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza, il recupero e la ricostruzione dell’Ucraina”. Svyrydenko preferjsce vedere il Reconstruction Investment Fund come uno che avrebbe “attratto investimenti globali nel nostro paese” pur mantenendo l’autonomia ucraina. Svyrydenko ha precisato anche che il sottosuolo è rimasto nel dominio della proprietà di Kiev, mentre il fondo sarebbe stato “strutturato” su base uguale “gestito congiuntamente dall’Ucraina e dagli Stati Uniti” e finanziato da “nuove licenze nel campo dei materiali critici, del petrolio e del gas – generati dopo la creazione del Fondo”. Nessuna delle due parti “terrebbe un voto dominante – un riflesso di parità di partnership tra le nostre due nazioni”. A detta di Svyrydenko, i processi di privatizzazione e la gestione delle società statali non sarebbero stati alterati dagli accordi. “Aziende come Ukrnafta ed Energoatom rimarranno di proprietà statale”. Non ci sarebbe nemmeno una questione di obblighi di debito dovuti da Kiev a Washington. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky sollevò per la prima volta la prospettiva di un accordo di condivisione dei minerali tra l’Ucraina e gli Stati Uniti alla fine del 2024 mentre cercava di impegnarsi con Donald Trump in vista del voto presidenziale americano. L’idea ha guadagnato ulteriore slancio dopo la vittoria elettorale di Trump, ma la cerimonia di firma era saltata alla fine di febbraio a seguito di un disastroso incontro dello Studio Ovale tra Trump e Zelensky. Quando i colloqui sono ripresi all’inizio della primavera, i dettagli trapelati indicavano un indurimento della posizione americana, con funzionari statunitensi che insistevano su un ampio controllo sulle attività ucraine e cercavano di utilizzare le entrate per rientrare degli aiuti forniti all’Ucraina durante i primi tre anni dell’invasione su vasta scala della Russia. Tuttavia, dopo settimane di negoziati esaustivi, le condizioni più controverse sono state rimosse, risultando un documento più lungimirante che pone le basi per un potenziale approfondimento della partnership strategica tra Kiev e Washington. Secondo la Casa Bianca, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti e la US International Development Finance Corporation lavoreranno con Kiev “per finalizzare la governance e far progredire questa importante partnership”, che garantisce agli Stati Uniti “una partecipazione economica nel garantire un futuro libero, pacifico e sovrano per l’Ucraina”. Shelby Magid, vicedirettore del Centro Eurasia del think tank del Consiglio Atlantico, pensava che mettesse Kiev “nella loro posizione più forte con Washington da quando Trump è entrato in carica”. L’Ucraina aveva resistito a “tremende pressione” per accettare proposte più povere, dimostrando “che non è solo un partner junior che deve rotolare e accettare un cattivo accordo”. Il tempo e la logistica rimangono ostacoli significativi alla realizzazione dell’accordo. Come l’ex ministro ucraino dello sviluppo economico e attuale capo della scuola di economia di Kiev Tymofiy Mylovanovt ha detto alla BBC, “Queste risorse non sono in un porto o in un magazzino; devono essere sviluppate”. Svyrydenko ha anche dovuto ammettere tristemente che vaste risorse di giacimenti minerari esistevano nel territorio occupato dalle forze russe. Ci sono anche problemi con le mine inesplose. Qualsiasi sfida al mercato globale degli elementi delle terre rare (REE), attualmente dominato dalla Cina (60% di quota di produzione di materie prime; 85% di quota di produzione globale di trasformazione; e 90% di quota di produzione di magneti di terre rare), arriverà molto tempo. Tornando a Kiev, molti hanno visto la firma principalmente come un’opportunità per migliorare le relazioni con la Casa Bianca di Trump dopo alcuni mesi turbolenti che hanno visto il presidente degli Stati Uniti impiegare una dura retorica nei confronti dell’Ucraina mentre incolpava ripetutamente il paese per l’invasione della Russia. “L’Ucraina ha tenuto la linea. Nonostante l’enorme pressione, ogni domanda eccessiva dall’altra parte è stata abbandonata. L’accordo finale sembra equo”, ha commentato il presidente della Kyiv School of Economics Tymofiy Mylovanov. “È una grande vittoria politica e diplomatica per l’Ucraina e gli Stati Uniti che dà a Trump una spinta politica interna. Questo si tradurrà, mi aspetto, in un atteggiamento più positivo nei confronti dell’Ucraina.” Ci sono stati anche molti elogi per il team negoziale ucraino e la loro capacità di accogliere gli interessi statunitensi mentre affrontavano le preoccupazioni di Kiev. “Questa versione finale è significativamente più giusta e reciprocamente vantaggiosa delle bozze precedenti”, ha dichiarato Olena Tregub, che è direttore esecutivo della Commissione indipendente anticorruzione ucraina (NAKO). “Per me, l’accordo sui minerali è un chiaro vantaggio per tutti. È un accordo ben negoziato ed equilibrato che riflette sia la visione strategica che la professionalità.” Molti membri del parlamento ucraino hanno adottato una visione pragmatica dell’accordo storico sui minerali. “Sembra che Trump ci stesse facendo pressione nel tentativo di ottenere una vittoria durante i suoi primi cento giorni in carica”, ha commentato Oleksandr Merezhko, un legislatore che rappresenta il partito Servant of the People del presidente Zelenskyy che presiede la commissione per gli affari esteri del parlamento ucraino. “Il diavolo è nei dettagli. Ma politicamente ci sono dei vantaggi. Abbiamo migliorato le relazioni con Trump, per il quale l’accordo è una vittoria.” La collega ucraina del parlamento Inna Sovsun, che rappresenta il partito di opposizione Golos, ha sottolineato le sfide senza precedenti che l’Ucraina ha affrontato durante i negoziati mentre il paese cercava di negoziare un accordo equo con un alleato cruciale mentre lottava per la sopravvivenza nazionale. “Non stavamo scegliendo tra il bene e il male, stavamo scegliendo tra il male e il peggio. Quello che abbiamo ottenuto è meglio dell’offerta iniziale”, ha osservato. Mentre l’umore generale a Kiev era relativamente ottimista dopo le notizie da Washington, Sovsun ha sottolineato che il nuovo accordo sulle risorse naturali con gli Stati Uniti è molto al di sotto delle garanzie di sicurezza che l’Ucraina sta cercando al fine di salvaguardare il futuro del paese e prevenire ulteriori aggressioni russe. “Una vera fine della guerra può avvenire solo se gli Stati Uniti forniscono molte più armi all’Ucraina, sono disposti ad applicare una maggiore pressione di sanzioni sulla Russia, o idealmente su entrambe. Se nessuno dei due accade, è difficile aspettarsi che la guerra finisca.” Fare tali accordi in assenza di un sostegno militare assicurato a Kiev ha reso la misura vuota. “In questo momento”, ha detto il senatore democratico Chris Murphy alla televisione MSNBC, “tutte le indicazioni sono che la politica di Donald Trump è quella di consegnare l’Ucraina a Vladimir Putin, e in tal caso, questo accordo non vale la carta su cui è scritto”. A un certo livello, Murphy ha ragione. La fermezza di Trump nel mantenere l’affare è spesso capricciosa. Nel settembre 2017, ha raggiunto un accordo con l’allora presidente afghano Ashraf Ghani per consentire alle aziende statunitensi di sviluppare i minerali delle terre rare dell’Afghanistan. Dopo aver trascorso 16 anni in Afghanistan fino a quel momento, si stavano valutando modi per recuperare alcuni dei costi del coinvolgimento di Washington. È stato concordato, è stato una dichiarazione della Casa Bianca fin troppo familiare, “che tali iniziative avrebbero aiutato le aziende americane a sviluppare minerali critici per la sicurezza nazionale mentre l’economia dell’Afghanistan cresceva e creava nuovi posti di lavoro in entrambi i paesi, quindi sostendo alcuni dei costi dell’assistenza degli Stati Uniti man mano che gli afgani diventano più affidabili”. Il precario regime fantoccio di Ghani è stato infine messo da parte a favore di negoziati diretti con i talebani che alla fine sono culminati nel loro ritorno al potere, lasciando la strada aperta al ritiro degli Stati Uniti e alla cessazione di qualsiasi grande piano per l’estrazione mineraria. [...] Read more...
30 Aprile 2025La dichiarazione di legge marziale dopo l’invasione su vasta scala della Russia nel 2022 ha annullato il diritto limitato al servizio alternativo in tempo di pace. Centinaia di obiettori di coscienza alla mobilitazione – per motivi religiosi e non religiosi – sono stati detenuti, costretti nell’esercito, detenuti illegalmente (spesso per mesi) nelle basi militari o perseguiti penalmente. Richiesto dalla Corte costituzionale ucraina, un brief della Commissione di Venezia ha riaffermato l’obbligo degli Stati di offrire un servizio alternativo. Se l’Ucraina deve soddisfare gli standard internazionali, il governo dovrebbe ripristinare l’accesso legale al servizio civile alternativo e rivedere le condanne penali. Dall’inizio dell’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 e dell’immediata dichiarazione della legge marziale da parte dell’Ucraina, il servizio civile alternativo non è stato disponibile per gli obiettori di coscienza in Ucraina. Molti obiettori di coscienza – sia per motivi religiosi che non religiosi – sono stati detenuti e costretti ad unirsi all’esercito, detenuti illegalmente (spesso per mesi) su basi militari o perseguiti penalmente. I Testimoni di Geova riferiscono che circa 661 dei loro credenti hanno affrontato accuse penali di elusone della mobilitazione nel 2024. I tribunali hanno consegnato a diversi obiettori di coscienza – tra cui quattro testimoni di Geova, un protestante e un avventista del settimo giorno – condanne a tre anni di carcere per aver rifiutato la mobilitazione. Un certo numero ha aspettato (occasionalmente in detenzione preventiva) per i procedimenti di appello. I tribunali hanno condannato altri condanne con sospensione della sosta. Più recentemente, i tribunali hanno iniziato ad imprigionare gli obiettori di coscienza con l’accusa di “disobbedienza”, con uno portato in prigione a gennaio per iniziare la sua pena detentiva di cinque anni. Mentre diversi attori internazionali dei diritti umani hanno incoraggiato l’Ucraina a proteggere i diritti degli obiettori di coscienza, il governo ucraino ha fatto poco per affrontare questo problema. Informalmente, i funzionari spiegano questa riluttanza con il rischio che gli uomini che non desiderano combattere abuseranno del servizio alternativo come buco legislativo.     Gli standard internazionali riconoscono chiaramente il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare come parte intrinseca della libertà di religione o di credo (vedi sotto). La Costituzione ucraina menziona specificamente il diritto di rinunciare al servizio militare, almeno per motivi di coscienza basati sulla religione. Tuttavia, il governo limita questo diritto in tempo di pace ai membri di sole dieci comunità religiose registrate, mentre la legge non riconosce affatto il diritto al servizio civile alternativo in tempo di guerra (vedi sotto). Il governo ha annunciato nel dicembre 2024 che ad alcune entità religiose potrebbe essere permesso di ottenere l’esenzione dalla mobilitazione fino alla metà dei loro chierici. Mentre alcuni chierici possono essere qualificati come obiettori di coscienza, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo non considera il servizio civile alternativo riservato ai chierici ma non ai credenti ordinari come protezione adeguata ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (vedi sotto). Su richiesta della Corte costituzionale ucraina, la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa ha prodotto un amicus curiae brief sul servizio alternativo (non militare) in Ucraina nel marzo 2025. Ciò ha riaffermato che “gli Stati hanno l’obbligo positivo di istituire un sistema di servizio alternativo che deve essere separato dal sistema militare, non deve essere di natura punitiva e rimane entro limiti di tempo ragionevoli”. Aggiunge che “in nessun caso un obiettore di coscienza al servizio militare può essere obbligato a portare o usare armi, anche in autodifesa del paese” (vedi sotto). Se l’Ucraina deve rispettare gli standard internazionali, il governo dovrebbe ripristinare l’accesso legale al servizio civile alternativo a tutti gli obiettori di coscienza e rivedere le condanne penali di coloro che sono stati condannati per la loro obiezione di coscienza alla mobilitazione (vedi sotto). Norme internazionali sull’obiezione di coscienza Mentre né il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICPC) né la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) menzionano esplicitamente il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (EDU) a Strasburgo hanno riconosciuto questo diritto come parte intrinseca della libertà di religione o di credo. Nel commento generale 22, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite osserva che “un tale diritto può essere derivato dall’articolo 18, nella mina mentre che l’obbligo di usare la forza letale può essere seriamente in conflitto con la libertà di coscienza e il diritto di manifestare la propria religione o il proprio credo. Quando questo diritto è riconosciuto dalla legge o dalla pratica, non ci sarà alcuna differenziazione tra gli obiettori di coscienza sulla base della natura delle loro particolari convinzioni; allo stesso modo, non ci sarà alcuna discriminazione contro gli obiettori di coscienza perché non hanno eseguito il servizio militare”. Inoltre, come osserva la CECO, “le disposizioni alternative prese dallo Stato devono essere adatte alle esigenze della coscienza e delle convinzioni dell’individuo”. Ad esempio, se una persona si oppone coscienziosamente a servire nell’esercito anche a titolo non militare, lo stato deve rispettare questa obiezione. Non è compito dello stato decidere se essere un autista o un cuoco in una base militare sia sufficiente per soddisfare le convinzioni pacifiste dell’individuo. Lo Stato gode di una certa discrezionalità nel regolare l’applicazione di questo diritto, in particolare nel determinare se il richiedente ha convinzioni genuine che vietano l’esercizio del dovere militare. Tuttavia, il pieno rifiuto di questo diritto o l’impossibilità pratica di accedere al servizio civile alternativo difficilmente può essere conciliato con gli obblighi statali nell’area della libertà di religione o di credo. Poiché il diritto all’obiezione di coscienza fa parte della libertà di religione o di credo, lo Stato non può derogare ai suoi obblighi di garantire questo diritto anche in tempi di emergenza pubblica che minaccia la vita della nazione, come l’aggressione esterna (articolo 4 dell’ICCPR). Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha criticato gli stati che limitano il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza in tempo di pace senza riconoscerlo in tempo di guerra. Tuttavia, questa deroga è consentita dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo nella misura in cui è strettamente richiesta dalla situazione e coerente con altri obblighi previsti dal diritto internazionale. Nel 2022, il governo ucraino ha derogato ai suoi obblighi ai sensi dell’articolo 9 della CEDU, ma ha revocato questa decisione nel 2024. Nel suo brief di marzo 2025 sull’amicus curiae sul servizio alternativo (non militare) in Ucraina (vedi sotto), la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa sottolinea che “la natura stessa dell’obiezione di coscienza implica che non può essere completamente esclusa in tempo di guerra, anche se gli Stati hanno un margine di apprezzamento limitato, soprattutto in caso di mobilitazione generale. Tuttavia, sembra alla Commissione di Venezia che in nessun caso un obiettore di coscienza al servizio militare possa essere obbligato a portare o usare armi, anche per autodifesa del paese”. Pertanto, dal punto di vista degli standard di libertà di religione o di credo, in tempo di guerra lo Stato può intensificare l’esame delle domande di servizio alternativo o limitare le opzioni di servizio alternative, ma non è autorizzato a cancellare completamente l’accesso al servizio civile alternativo. Quadro costituzionale e giuridico dell’Ucraina La Costituzione ucraina limita il servizio alternativo a coloro che hanno obiezioni di coscienza religiosa a servire nell’esercito. L’articolo 35, parte 4, stabilisce: “Se l’adempimento del dovere militare contraddice le credenze religiose di un cittadino, l’adempimento di questo dovere sarà sostituito da un servizio alternativo (non militare)”. La Costituzione consente la limitazione dei diritti ai sensi dell’articolo 35, compreso il diritto al servizio civile alternativo, durante la legge marziale, ma il governo non ha mai deciso di attuare questa limitazione. Il quadro legislativo è più restrittivo. Garantisce il diritto al servizio alternativo solo in tempo di pace e solo per coloro che non solo detengono credenze pacifiste, ma appartengono anche a organizzazioni religiose i cui insegnamenti vietano il porto d’armi (articolo 2 della legge sul servizio alternativo) e sono riconosciuti come tali dal governo. Il governo ha elencato dieci gruppi religiosi che lo stato ha riconosciuto come pacifisti, i cui membri possono richiedere un servizio civile alternativo in tempo di pace. Mentre l’elenco è piuttosto ampio, i membri di altre comunità religiose o tradizioni religiose o coloro che si oppongono per motivi di coscienza non religiosi non sono autorizzati a richiedere l’esercizio di questo diritto anche in tempo di pace. Ancora più importante, il servizio civile alternativo non è disponibile per coloro che sono mobilitati sotto la legge marziale. La legge sulla mobilitazione ucraina non prevede che coloro che sono mobilitati optino per un servizio alternativo. Ciò ha completamente vietato il diritto a un servizio alternativo (sia all’interno che all’esterno dell’esercito) dall’inizio dell’invasione su vasta scala della Russia dell’Ucraina nel febbraio 2022. Alcune esenzioni clericali dalla mobilitazione Nel dicembre 2024, il governo ucraino ha annunciato che le entità religiose (come associazioni, monasteri, istituzioni educative e comunità locali) sarebbero state autorizzate a ottenere l’esenzione dalla mobilitazione per un massimo della metà dei loro chierici. Nel febbraio 2025, il Servizio di Stato per la politica etnica e la libertà di coscienza (DESS) ha stabilito quali entità religiose potrebbero richiedere questa esenzione e l’elenco dei chierici che potrebbero essere esentati. I documenti DESS hanno concesso un ampio accesso a questa esenzione per molte organizzazioni religiose registrate. Tuttavia, ha escluso da questo diritto i gruppi religiosi non registrati e la Chiesa ortodossa ucraina, che il governo considera affiliata alla Russia. Mentre alcuni chierici possono essere qualificati come obiettori di coscienza, la Corte europea dei diritti dell’uomo non considera il servizio civile alternativo riservato ai chierici ma non ai credenti ordinari come protezione adeguata ai sensi dell’articolo 9 della Convenzione (vedi la sua decisione del 2019 Mushfig Mammadov e altri contro. Azerbaigian – Domanda n. 14604/08). Inoltre, i chierici esentati non sono tenuti ad avere condanne che vietino loro di portare armi come precondizione dell’esenzione. Possono essere esentati solo in base al loro status religioso. Inoltre, non sono tenuti a svolgere alcun servizio civile invece di svolgere il dovere militare. Come i tribunali gestiscono i casi di obiezione di coscienza Inizialmente, i pubblici ministeri hanno presentato accuse contro coloro che si oppongono alla mobilitazione ai sensi dell’articolo 336 del codice penale (“Rifiuto dell’avvo per il servizio militare durante la mobilitazione o in un periodo speciale e per il servizio militare durante la chiamata dei riservisti in un periodo speciale”). Questo comporta una pena da tre a cinque anni di reclusione. Ma recentemente gli organi investigativi hanno cambiato la qualifica per l’articolo 402 del codice penale, parte 4 (“Disobbedienza commessa sotto la legge marziale o in una situazione di combattimento”) e persino l’articolo 408 del codice penale (“Diserzione”), che comportano una pena da cinque a dieci anni di reclusione. Mentre il reato di disobbedienza o diserzione può essere commesso solo dal personale militare, gli investigatori sostengono che una persona mobilitata diventa un membro dell’esercito quando riceve una bozza di documento. Alcuni tribunali di primo grado hanno già concordato che coloro che eludono la mobilitazione – sia per motivi di coscienza che per altri motivi – possono essere puniti ai sensi dell’articolo 402 del codice penale. I verdetti del tribunale riguardanti il diritto al servizio civile alternativo sono variati. Mentre la maggior parte dei tribunali ha sostenuto l’approccio del governo secondo cui non ci può essere alcun servizio alternativo durante la legge marziale, altri tribunali hanno assolto gli obiettori, riferendosi alla protezione costituzionale di questo diritto. Alla fine alcuni di questi casi hanno raggiunto la Corte Suprema ucraina di Kiev. Nel 2024, la Corte Suprema ha stabilito che rifiutare la mobilitazione costituisce una bozza di schivata, anche se commesso da un membro di un’organizzazione religiosa i cui insegnamenti vietano il porto d’armi. La Corte ha sottolineato che il dovere costituzionale di difendere la Patria non presuppone l’obbligo diretto della persona mobilitata di portare armi. Ha stabilito che tale servizio può essere svolto in altri modi, tra cui la manutenzione di attrezzature militari, la costruzione di fortificazioni, l’evacuazione dei feriti e l’esecuzione di altre funzioni non correlate al porto d’armi. Pertanto, dal punto di vista della Corte Suprema, il diritto all’obiezione di coscienza per i mobilitati può essere realizzato essendo nominati a posizioni non militari all’interno di un’unità militare. Tuttavia, anche se ciò avviene informalmente nella pratica, la legislazione ucraina non impone tale requisito ai militari e non fornisce alla persona mobilitata il diritto di optare per il servizio militare disarmato. Dalla decisione della Corte Suprema del 2024, i tribunali hanno generalmente seguito l’approccio della Corte Suprema. Tuttavia, nel marzo 2025 un tribunale distrettuale di Kharkiv ha assolto un battista, Oleksy Belikov, che si era opposto alla mobilitazione per motivi di coscienza. Procedimento costituzionale e memoria della Commissione di Venezia Nell’ottobre 2024, la Corte costituzionale ha iniziato ad ascoltare il caso di Dmytro Zelinsky, un avventista del settimo giorno condannato a tre anni di carcere per aver rifiutato la mobilitazione per motivi di coscienza. Si è lamentato che il suo diritto al servizio civile alternativo non può essere limitato dalla legge marziale e che lo stato ha violato i suoi diritti non fornendo alcun accesso legale al servizio civile alternativo in tempo di guerra. Nel dicembre 2024, la Corte costituzionale ha richiesto una memoria di amicus curiae alla Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa. Come accennato in precedenza, nel marzo 2025 il brief della Commissione di Venezia ha chiarito l’impossibilità della totale esclusione del servizio civile alternativo anche in tempo di guerra. La Commissione conclude che “ai sensi della CEDU e dell’ICCR, gli Stati hanno l’obbligo positivo di istituire un sistema di servizio alternativo che deve essere separato dal sistema militare, non deve essere di natura punitiva e rimane entro limiti di tempo ragionevoli”. Inoltre, la Commissione di Venezia osserva che “per valutare se il rifiuto del servizio alternativo in situazioni di mobilitazione e autodifesa contro l’aggressione straniera sia necessario e proporzionato, può essere importante considerare se il governo ha concesso altre esenzioni dal servizio militare, nonché la portata di tali esenzioni”. Pertanto, si può concludere che l’intento del governo ucraino di esentare dalla mobilitazione fino alla metà dei chierici di molte organizzazioni religiose registrate – anche se a questi chierici non è vietato dalla loro fede di portare armi e senza imporre loro alcun servizio alternativo – potrebbe inoltre dimostrare che una palese negazione del servizio civile alternativo a tutti gli obiettori di coscienza è sproporzionata. L’udienza costituzionale del caso di Zelinsky è in corso. Dal gennaio 2025, la Corte costituzionale non ha un quorum e quindi attualmente non opera. La Corte dovrebbe riprendere le sue operazioni quando viene nominato almeno un nuovo giudice. Cosa bisogna fare per soddisfare gli standard internazionali? Se l’Ucraina deve rispettare gli standard internazionali ai sensi dell’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (“Libertà di pensiero, coscienza e religione”) e dell’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Libertà di pensiero, coscienza e religione”) e le raccomandazioni fornite dalla Commissione di Venezia, dovrebbe attuare il suo obbligo positivo di ripristinare l’accesso legale al servizio civile alternativo agli obiettori di coscienza che non è stato disponibile dall’inizio dell’invasione su vasta scala della Russia dell’Ucraina e della dichiarazione di legge marziale dell’Ucraina. Il servizio alternativo dovrebbe includere sia opzioni disarmate all’interno delle istituzioni militari sia opzioni strettamente civili, come il lavoro negli ospedali o i programmi umanitari per gli sfollati e le persone colpite dalla guerra. Il sistema di servizio alternativo, compresa la commissione che decide sulle domande degli obiettori di coscienza, dovrebbe essere indipendente dall’esercito e dal ministero della difesa. Il governo dovrebbe affrontare i rischi di corruzione, il potenziale uso improprio di questo diritto e altre preoccupazioni sul servizio civile alternativo senza imporgli un divieto completo. Gli attori internazionali dei diritti umani e i sostenitori della libertà di religione o di credo dovrebbero incoraggiare il governo ucraino a proteggere i diritti degli obiettori di coscienza. Un ruolo speciale potrebbe essere svolto dalle istituzioni dell’Unione europea, poiché l’Ucraina ha perseguito l’obiettivo dell’adesione all’Unione. Ciò richiederebbe alla Commissione europea di adottare un approccio più attento e pubblico alle questioni legate alla libertà di religione o alle credenze. Secondo il suo rapporto sull’Ucraina del 2024, la Commissione non è riuscita a rilevare alcuna sfida alla libertà di religione o di credo in Ucraina, anche se in privato ha raccomandato al governo ucraino di affrontare questo problema. Infine, l’Ucraina dovrebbe istituire una procedura legale che consenta di riconsiderare i verdetti di colpevolezza contro le persone che si sono opposti coscienziosamente alla mobilitazione. Nei casi in cui i tribunali hanno trovato prove che gli imputati detenevano condanne pacifiste genuine e ferme, dovrebbero essere assolti. [...] Read more...
30 Aprile 2025Mentre affrontiamo quella che alcuni si aspettano di essere la terza recessione economica in una generazione in meno di due decenni, dobbiamo essere pronti con soluzioni reali       Il Presidente Donald Trump ha dato molte ragioni contraddittorie per la sua recente imposizione dei dazi, tra cui affermare che le tariffe “creeranno posti di lavoro come non abbiamo mai visto prima“. Eppure la ricerca mostra che i dazi non aumentano l’occupazione e invece è probabile che costino posti di lavoro a causa dell’aumento dei prezzi degli input e delle tariffe di ritorsione. L’economista Michael Strain dell’American Enterprise Institute conservatore si aspetta che le tariffe di Trump porteranno a “livelli recessivi” di disoccupazione. Ironia della sorte, gli analisti si aspettano che le comunità rurali e di Heartland che hanno votato per Trump saranno influenzate in modo sproporzionato negativamente dalle tariffe di ritorsione. Dato come questa amministrazione ha costretto cavallericamente decine di migliaia di lavoratori federali a lasciare buoni posti di lavoro e distrutto altrettanti posti di lavoro di ricerca e senza scopo di lucro sostenuti da sovvenzioni federali, è chiaro che assumere americani non è mai stata la vera priorità. Una garanzia di lavoro federale è un’opzione pubblica per un buon lavoro, con salari di sussistenza, benefici completi e protezioni sindacali, su progetti che soddisfano le esigenze della comunità per le infrastrutture fisiche e umane che sono spesso trascurate da tempo. Ma dovrebbe essere una priorità nazionale. E abbiamo una soluzione molto migliore delle tariffe: una garanzia di lavoro. Una garanzia di lavoro federale è un’opzione pubblica per un buon lavoro, con salari di sussistenza, benefici completi e protezioni sindacali, su progetti che soddisfano le esigenze della comunità per le infrastrutture fisiche e umane che sono spesso trascurate da tempo. Riparare ponti, aiutare le comunità a riprendersi dai disastri, fornire cure di qualità a bambini e anziani, riparare buche ed espandere la chioma degli alberi per mitigare il calore estremo sono solo alcuni esempi del lavoro di costruzione della comunità che diventerebbe possibile con una garanzia di lavoro. Una garanzia di lavoro affronterebbe il fallimento della nostra economia nel fornire buoni posti di lavoro a tutti. Anche durante i periodi di disoccupazione relativamente bassa, milioni di americani, attualmente 7,9 milioni, vogliono un lavoro a tempo pieno ma non riescono a trovarlo. Questa è una crisi cronica che grava in modo sproporzionato sulle comunità rurali e sulle comunità di colore. Altri 39 milioni di lavoratori americani sono bloccati in lavori che pagano meno di 17 dollari all’ora, spesso con condizioni di lavoro precarie, malsane e indegne. I posti di lavoro garantiti fornirebbero a questi lavoratori la possibilità di un impiego stabile e di una reale sicurezza economica. Le tariffe possono attirare titoli, ma non costruiscono comunità o forniscono buoni posti di lavoro. Una garanzia di lavoro non è un’idea nuova. Il diritto a un lavoro “utile e remunerativo” era l’elemento numero uno della Carta dei diritti economici proposta dal presidente Franklin D. Roosevelt nel 1944. I posti di lavoro garantiti erano una richiesta centrale del movimento per i diritti civili, dalla Marcia di Washington del 1963 alla difesa di Coretta Scott King negli anni ’70. Ed è quasi diventato legge: l’originale Humphrey Hawkins Full Employment Act del 1978 includeva un diritto legalmente applicabile a un lavoro con il governo federale che agiva come datore di lavoro di ultima istanza, anche se tale disposizione è stata rimossa dalla versione annacquata che alla fine è passata. Negli ultimi anni, i leader del Congresso, tra cui i senatori Cory Booker e Bernie Sanders, hanno sostenuto versioni di una garanzia di lavoro, e la rappresentante Ayanna Pressley ha introdotto una risoluzione del Congresso che delinea una garanzia di lavoro federale modernizzata che pagherebbe 25 dollari all’ora. Anche se non abbiamo mai avuto una vera garanzia di lavoro federale, gli sforzi di successo per l’occupazione pubblica dimostrano la sua praticità e il suo potenziale. Negli anni ’30, la Works Progress Administration impiegava 8,5 milioni di persone che costruivano infrastrutture fisiche e opere artistiche che rafforzavano la nostra economia e cultura per decenni. Anche i programmi di “occupazione sovvenzionata” su scala ridotta che forniscono la formazione sul posto di lavoro e il supporto avvolgente per i lavoratori che affrontano barriere all’occupazione (simile a quelli che sarebbero forniti da una garanzia di lavoro) hanno una forte esperienza di successo. Una garanzia di lavoro non è un’idea nuova. Il diritto a un lavoro “utile e remunerativo” era l’elemento numero uno della Carta dei diritti economici proposta dal presidente Franklin D. Roosevelt nel 1944. Producendo non solo buoni posti di lavoro, ma anche infrastrutture e servizi vitali, una garanzia di lavoro rafforza le famiglie e i quartieri in cui vivono. Inoltre, genererebbe effetti economici “trickle-up”. Il denaro comincerebbe a circolare nelle comunità persistentemente disinvestite, creando opportunità per i negozi di alimentari, le piccole imprese e l’imprenditorialità locale. E un’opzione pubblica per buoni posti di lavoro metterebbe una sana pressione sui datori di lavoro privati per compensare meglio i loro lavoratori, aumentando salari e benefici su tutta la linea. Finanziata dal governo federale e attuata localmente, una garanzia di lavoro creerebbe nuove opportunità di impegno civico, con le comunità che suggeriscono nuovi investimenti pubblici che soddisfino le loro esigenze e manifestino le loro aspirazioni. Questa partnership potrebbe rafforzare la democrazia e ricostruire la fiducia che il governo possa lavorare per i lavoratori. In definitiva, una garanzia di lavoro creerebbe un’economia più stabile, resiliente ed equa. Fornendo immediatamente posti di lavoro e reddito al primo segno di una recessione economica, fungerebbe da stabilizzatore automatico, mantenendo la spesa dei consumatori e prevenendo recessioni prolungate e recuperi di disoccupazione. Ciò andrebbe a beneficio dell’economia nel suo complesso e proteggerebbe i lavoratori neri emarginati che sono gli “ultimi assunti e i primi licenziati” quando l’economia si inasprisce. Consentirebbe una “transizione giusta” lontano dalle industrie insostenibili e affronterebbe la minaccia dello spostamento del lavoro rappresentata dall’IA, creando nuovi posti di lavoro proteggendo l’ambiente e mitigando il cambiamento climatico. E per coloro che lo liquiderebbero come socialismo, vale la pena sottolineare: la garanzia del lavoro garantisce semplicemente che ci sia un lavoro disponibile. Se il settore privato più “produttivo” può offrire qualcosa di meglio, tanto meglio: i lavoratori avranno la libertà di scegliere. Mentre affrontiamo quella che alcuni si aspettano di essere la terza recessione economica una volta in una generazione in meno di due decenni, dobbiamo essere pronti con soluzioni reali. Le tariffe possono attirare titoli, ma non costruiscono comunità o forniscono buoni posti di lavoro. Invece, le politiche caotiche di questa amministrazione stanno creando un’incertezza e una tensione economica diffuse. Una garanzia di lavoro federale, al contrario, è un’audace politica economica radicata nella storia americana e fondata sulle esigenze dei lavoratori che sono stati messi da parte dalle nostre politiche economiche. Se vogliamo potenziare i lavoratori e costruire un’economia più resiliente, dovremmo iniziare a investire in soluzioni reali, iniziando con una garanzia di lavoro.               La versione originale di questo intervento è qui. [...] Read more...
30 Aprile 2025Nella primavera del 2025, l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) si trova a un bivio cruciale. Fondata nel 1949 per contenere l’espansione sovietica, la NATO si è evoluta nel fondamento della sicurezza euro-atlantica. Dopo più di settantacinque anni, l’alleanza affronta ora un panorama complesso e sempre più globale caratterizzato da frammentazione interna, riallineamenti di potere e minacce rapidamente emergenti. Mentre il mondo sperimenta significativi cambiamenti geopolitici, la NATO deve affrontare urgenti sfide strategiche che minacciano di minare la sua rilevanza. La NATO deve affrontare in modo completo la questione della spesa diseguale per la difesa. Se non riesce ad adattarsi alla crescente assertività della Russia e a rafforzare la sua capacità di rispondere alle minacce informatiche e asimmetriche, la NATO dovrà ridefinire il suo focus strategico e le partnership al di là del suo tradizionale teatro del Nord Atlantico. Inoltre, stabilizzare la coesione politica nell’alleanza transatlantica è cruciale in mezzo alla rinnovata incertezza riguardo alla capacità degli Stati Uniti di mantenere la sicurezza globale e la deterrenza. Senza questi cambiamenti, l’efficacia della NATO sarà significativamente indebolita. Una delle questioni interne più persistenti della NATO è la mancanza di un onere di difesa equo tra gli Stati membri. Nel 2014, il Defence Investment Pledge ha impegnato gli alleati a destinare almeno il 2 per cento del PIL alla difesa entro il 2024. Mentre ci sono stati progressi, con ventitré membri su trentadue che hanno soddisfatto questa soglia nell’anno precedente, rispetto ai soli tre del 2014, molte grandi economie europee continuano a non essere all’altezza. L’Italia ha assegnato solo l’1 5 per cento e la Spagna solo l’1 3 per cento della spesa per la difesa nel 2024. La spesa militare collettiva della NATO ha raggiunto 1,28 trilioni di dollari nel 2023, rappresentando il 54 per cento della spesa militare globale. Tuttavia, i soli Stati Uniti hanno contribuito con 880 miliardi di dollari, o il 36 per cento di questo totale, intensificando le richieste di un impegno finanziario più equilibrato tra le nazioni membri. Con il ritorno di Donald Trump alla presidenza, gli alleati affrontano una rinnovata pressione. La retorica passata di Trump che mette in discussione il valore della NATO e le sue minacce di abbandonare l’articolo 5 a meno che i membri non obbligatori “paghino” non abbiano allarmato i leader europei. Se la NATO non raggiunge una struttura finanziaria più equilibrata e affidabile, la sua coesione politica e la sua credibilità a lungo termine potrebbero essere compromesse. La NATO deve affrontare la crescente assertività della Russia e le ambizioni globali della Cina, due concorrenti strategici che stanno rimodellando il panorama della sicurezza globale. L’invasione su vasta scala della Russia dell’Ucraina nel 2022 ha frantumato le ipotesi di pace post-Guerra fredda in Europa. All’inizio del 2025, il conflitto rimane irrisolto, con la Russia che mantiene il controllo su gran parte dell’Ucraina orientale nonostante la forte resistenza ucraina e il sostanziale sostegno militare sostenuto dalla NATO. La potenziale appartenenza dell’Ucraina, una volta solo una prospettiva lontana, è ora un punto focale di un intenso dibattito. Alcuni membri della NATO sostengono l’adesione accelerata come deterrente contro un’ulteriore aggressione russa, mentre altri esprimono cautela, temendo che possa portare a un conflitto diretto. Nel frattempo, la Russia continua a impiegare tattiche ibride di guerra al di là dell’Ucraina. Nel 2024, l’intelligence ceca ha segnalato oltre 500 incidenti sospetti legati alla sovversione russa in tutta Europa. Il bilancio della difesa della Russia ha raggiunto contemporaneamente 109 miliardi di dollari, il 5,9 per cento del PIL, il più alto dall’era sovietica. Allo stesso tempo, il bilancio della difesa della Cina è aumentato del 7%, raggiungendo 1,78 trilioni di yuan, o circa 246 miliardi di dollari, entro il 2025. Con la sua crescente influenza nell’Indo-Pacifico, il rafforzamento dei legami militari con la Russia e una presenza navale ampliata nel Mar Cinese Meridionale, Pechino pone una doppia sfida alla coesione strategica e all’attenzione globale della NATO. È necessario che la NATO coordini le risposte in Europa oltre e stabilisca dialoghi strutturati sulla sicurezza con partner dell’Indo-Pacifico come Giappone, Corea del Sud e Australia. Se la NATO non espande la sua visione, rischia una paralisi strategica. La NATO si trova attualmente di fronte a una crescente ondata di attacchi informatici, tattiche asimmetriche e minacce da parte di attori non statali. Ogni giorno, le istituzioni della NATO subiscono intrusioni informatiche, che vanno dai tentativi di phishing di base a sofisticati sabotaggi sponsorizzati dallo stato. Nell’aprile 2024, l’esercizio di difesa informatica di Locked Shields ha riunito 4.000 esperti provenienti da oltre quaranta nazioni per simulare minacce legate all’intelligenza artificiale e alla disinformazione. Inoltre, il terrorismo continua ad essere una preoccupazione significativa; l’indice globale del terrorismo ha riportato un aumento del 22% delle vittime legate al terrorismo nel 2023, per un totale di 8.352 incidenti, nonostante una diminuzione complessiva del numero di incidenti, che indica un aumento della mortalità. Gli attacchi di Lone-wolf attraverso canali digitali radicalizzati, disinformazione e campagne continuano a minare la fiducia sociale e sfidare la rapida risposta della NATO e il coordinamento dell’intelligence. La NATO sta affrontando una crisi di identità legata alla portata della sua missione, all’attenzione geografica e alla rilevanza. Originariamente confinata nel Nord Atlantico, l’alleanza è ora chiamata a impegnarsi in regioni come l’Indo-Pacifico e il Sud del mondo. Questa espansione sta allungando l’interoperabilità e mettendo a dura prova le capacità logistiche. Molti stati membri continuano a fare affidamento su piattaforme obsolete che sono incompatibili con un ambiente operativo multidominio abilitato all’intelligenza artificiale. Inoltre, i processi di approvvigionamento frammentati e la produzione di difesa lenta stanno ostacolando gli sforzi di modernizzazione. Affrontare queste lacune richiede l’acquisizione di strategie unificate e più forti per il coordinamento difesa-industriale, maggiori investimenti nell’innovazione e tecnologie emergenti. In conclusione, il 2025 segna un punto di svolta cruciale per la NATO. La guerra in corso in Ucraina rimane irrisolta e il potenziale per una presidenza 2.0 introduce nuove incertezze riguardo all’unità transatlantica. Per mantenere la credibilità dell’alleanza, la NATO deve concentrarsi su un’equa condivisione degli oneri, una modernizzazione proattiva e una rinnovata solidarietà politica. Inoltre, la NATO deve rafforzare la sua resilienza contro le minacce di deterrenza ibrida, controbilanciare l’influenza della Russia ed espandere le sue partnership oltre l’Atlantico. Solo attraverso riforme audaci, impegno globale, incrollabile e unità la NATO può rimanere un pilastro credibile della sicurezza internazionale in un mondo imprevedibile e sempre più complesso. [...] Read more...
30 Aprile 2025Oltre alle autobiografie, sono ben 4 le encicliche firmate da Papa Francesco, scomparso pochi giorni fa, durante suo Pontificato: ‘Lumen Fidei’ (29 giugno 2013), ‘Laudato si’’ (24 maggio 2015), ‘Fratelli tutti’ (3 ottobre 2020) e ‘Dilexit nos’ (24 ottobre 2024). Lumen Fidei ‘Lumen Fidei’ è la prima enciclica firmata da Papa Francesco, pubblicata il 29 giugno 2013, nell’Anno della Fede. Il testo, però, è frutto di un lavoro iniziato da Papa Benedetto XVI (che ha poi passato il testimone a Francesco) con la sua trilogia di encicliche papali. Le prime due erano state ‘Deus Caritas Est’ (2006) e ‘Spe Salvi’ (2007). Papa Francesco nell’incipit scrive che Benedetto XVI “aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il Successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a ‘confermare i fratelli’ in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo”. L’enciclica affronta il tema della fede, completando la trilogia sulle virtù teologali dopo Deus caritas est (carità) e Spe salvi (speranza). La fede è presentata come una luce che guida il cammino dell’umanità, radicata nell’amore e nella verità, e capace di fondare la convivenza sociale e la ricerca del bene comune. “Si è visto – si legge nel testo dell’enciclica – che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla meta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita”. Chi crede, vede. Chi crede, non è mai solo, perché la fede è un bene per tutti, un bene comune che aiuta a distinguere il bene dal male, a edificare le nostre società, donando speranza. La fede non separa l’uomo dalla realtà, ma lo aiuta a coglierne il significato più profondo. In un’epoca come quella moderna- scrive il Papa- in cui il credere si oppone al cercare e la fede è vista come un’illusione, un salto nel vuoto che impedisce la libertà dell’uomo, è importante fidarsi ed affidarsi, umilmente e con coraggio, all’amore misericordioso di Dio che raddrizza le storture della nostra storia. Quindi, il Papa dimostra lo stretto legame tra fede, verità e amore, quelle affidabili di Dio. La fede senza verità non salva – dice il Pontefice – Resta solo una bella fiaba, soprattutto oggi in cui si vive una crisi di verità a causa di una cultura che crede solo alla tecnologia o alle verità del singolo, a vantaggio dell’individuo e non del bene comune. Il grande oblio del mondo contemporaneo – evidenzia il Papa – è il rifiuto della verità grande, è il dimenticare la domanda su Dio, perché si teme il fanatismo e si preferisce il relativismo. Al contrario, la fede non è intransigente, il credente non è arrogante perché la verità che deriva dall’amore di Dio non si impone con la violenza e non schiaccia il singolo. Per questo è possibile il dialogo tra fede e ragione: innanzitutto, perché la fede risveglia il senso critico ed allarga gli orizzonti della ragione; in secondo luogo, perché Dio è luminoso e può essere trovato anche dai non credenti che lo cercano con cuore sincero. Chi si mette in cammino per praticare il bene- sottolinea il Papa- si avvicina già a Dio. L’enciclica parla anche del rapporto tra fede e ragione, che devono essere sempre in costante dialogo tra loro, in costante comunicazione. Si parla anche dell’importanza di trasmettere la fede, così che possa risuonare in ogni luogo e passare di generazione in generazione. Perché la fede è, come recita l’enciclica di Papa Francesco, un bene comune. Laudato Si’ Pubblicata il 18 giugno 2015, ‘Laudato Si’’ è la prima enciclica dedicata interamente all’ecologia, ma è la seconda enciclica di Papa Francesco, con una chiara citazione del Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi. Suddivisa in sei capitoli, l’Enciclica raccoglie, in un’ottica di collegialità, diverse riflessioni delle Conferenze episcopali del mondo e si conclude con due preghiere, una interreligiosa ed una cristiana, per la salvaguardia del Creato. In essa Papa Francesco parla di ‘ecologia integrale’, collegando la difesa dell’ambiente con la giustizia sociale. Il testo denuncia il degrado ambientale, i cambiamenti climatici, la cultura dello scarto e l’inquinamento, sollecitando una responsabilità collettiva e nuovi modelli economici e di consumo. Il Papa invoca un rapporto armonioso con il creato e con gli altri, promuovendo uno sviluppo sostenibile che parta dai più poveri. Dedicata alla ecologia integrale, il pontefice sottolinea il legame inscindibile tra l’umanità e la Creazione. Francesco mette ripetutamente allerta dai rischi derivati dalla mancata attenzione alla cura della casa comune. “Oggi – afferma il Papa – non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri. Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità, difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa. E’ preoccupante il fatto che alcuni movimenti ecologisti difendano l’integrità dell’ambiente, e con ragione reclamino dei limiti alla ricerca scientifica, mentre a volte non applicano questi medesimi princìpi alla vita umana”. Il Papa mette in guardia dalle gravi conseguenze dell’inquinamento e da quella “cultura dello scarto” che sembra trasformare la terra, “nostra casa, in un immenso deposito di immondizia”. Dinamiche che si possono contrastare adottando modelli produttivi diversi, basati sul riutilizzo, il riciclo, l’uso limitato di risorse non rinnovabili. Anche i cambiamenti climatici sono “un problema globale”, spiega l’Enciclica, così come l’accesso all’acqua potabile, che va tutelato in quanto “diritto umano essenziale, fondamentale ed universale”, “radicato nell’inalienabile dignità” dell’uomo. Centrale, inoltre, la tutela della biodiversità perché ogni anno, a causa nostra, “scompaiono migliaia di specie vegetali e animali che i nostri figli non potranno vedere”. E “non ne abbiamo il diritto”, sottolinea Francesco, Gli uomini sono tutti custodi del Creato, un dono che Dio gli ha regalato, e per questo se ne devono prendercene cura, salvaguardandolo quanto più possibile. Ognuno può fare qualcosa nel suo piccolo per migliorare la salute del pianeta. L’ecologia integrale diventi un nuovo paradigma di giustizia, perché la natura non è una “mera cornice” della vita umana.Si rivolge però anche a tutti coloro che occupano un ruolo di responsabilità, sia esso economico, politico oppure sociale. La sua speranza infatti è che accolgano a braccia aperte queste sue parole e facciano qualcosa per riuscire finalmente a salvare l’ambiente. Viene sottolineata l’esistenza di un “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud del mondo, connesso a squilibri commerciali. “Il debito estero dei Paesi poveri – infatti – si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico”. Fratelli tutti ’Fratelli Tutti’, enciclica firmata in un luogo simbolo, sulla tomba di San Francesco ad Assisi, indica che siamo tutti sulla stessa barca, che nessuno si può salvare da solo, ma promuovendo una fraternità realizzata con i fatti, non di parole. Promuovere una fraternità vera significa costruire ponti in un’epoca caratterizzata dall’innalzamento di muri. Quindi ‘No’ allo sfruttamento dei più deboli e degli indifesi. La lettera è incentrata sui temi della fraternità e dell’amicizia. È necessario sradicare la cultura dell’indifferenza e tornare ad amarci l’un l’altro, a esserci di sostegno e di aiuto ogni giorno della nostra vita. È importante guardare a coloro che sono meno fortunati, dal punto di vista economico, esistenziale, sociale, materiale, e cercare di aiutarli a risollevarsi dalla loro situazione. il Papa la definisce una “Enciclica sociale” che mutua il titolo dalle “Ammonizioni” di San Francesco d’Assisi, che usava quelle parole “per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo”. Il Poverello “non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio”, scrive il Papa, ed “è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna” . L’Enciclica mira a promuovere un’aspirazione mondiale alla fraternità e all’amicizia sociale. A partire dalla comune appartenenza alla famiglia umana, dal riconoscerci fratelli perché figli di un unico Creatore, tutti sulla stessa barca e dunque bisognosi di prendere coscienza che in un mondo globalizzato e interconnesso ci si può salvare solo insieme. Motivo ispiratore più volte citato è il Documento sulla fratellanza umana firmato da Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar nel febbraio 2019. Aperta da una breve introduzione e articolata in otto capitoli, l’Enciclica raccoglie – come spiega il Papa stesso – molte delle sue riflessioni sulla fraternità e l’amicizia sociale, collocate però “in un contesto più ampio” e integrate da “numerosi documenti e lettere” inviate a Francesco da “tante persone e gruppi di tutto il mondo” (5). Nel primo capitolo, “Le ombre di un mondo chiuso”, il documento si sofferma sulle tante storture dell’epoca contemporanea: la manipolazione e la deformazione di concetti come democrazia, libertà, giustizia; la perdita del senso del sociale e della storia; l’egoismo e il disinteresse per il bene comune; la prevalenza di una logica di mercato fondata sul profitto e la cultura dello scarto; la disoccupazione, il razzismo, la povertà; la disparità dei diritti e le sue aberrazioni come la schiavitù, la tratta, le donne assoggettate e poi forzate ad abortire, il traffico di organi. Secondo il Papa, “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali”. Oggi – sottolinea il pontefice – si avverte “la perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione. Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di decostruzionismo” che porta a “nuove forme di colonizzazione culturale”. Riferendosi alla pandemia di Covid, il pontefice rileva che “passata la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più gli altri, ma solo un noi. Che non sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di imparare”. In definitiva – osserva Francesco – è “impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni”. “L’amore che è autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano cuori che si lasciano completare. La statura spirituale di un’esistenza umana è definita dall’amore”. Dilexit Nos L’enciclica ‘Dilexit Nos’, pubblicata nel 2024,  è incentrata sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù ed interamente dedicato al culto del Sacro Cuore di Cristo. Secondo le intenzioni del Papa si tratta di una enciclica che raccoglie “le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture, per riproporre oggi, a tutta la Chiesa” il culto del Sacro Cuore di Gesù “carico di bellezza spirituale”. “Si potrebbe dire che io sono il mio cuore, perché esso è ciò che mi distingue, mi configura nella mia identità spirituale e mi mette in comunione con le altre persone”, afferma il pontefice. Francesco scrive sull’onda delle crisi internazionali sempre più acute (la “Terza guerra mondiale a pezzi”, come la definisce lui): infatti, in queste pagine, il Pontefice chiede a quel mondo “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia” di “recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore”. L’enciclica invita a superare la frammentazione dell’individualismo moderno, recuperando la dimensione comunitaria, sociale e missionaria dell’amore di Cristo. Nel 1956, con la ‘Haurietis acquas’, Pio XII scriveva per ravvivare il culto del Cuore di Gesù e invitare la Chiesa a meglio comprenderne e attuarne le varie forme di devozione, di “massima utilità” per le necessità della Chiesa ma anche “vessillo di salvezza” per il mondo moderno. Erano i tempi più bui della Guerra Fredda. “Dilexit nos” ripercorre tradizione e attualità del pensiero “sull’amore umano e divino del cuore di Gesù Cristo”, invitando a rinnovare la sua autentica devozione per non dimenticare la tenerezza della fede, la gioia di mettersi al servizio e lo slancio della missione. È infatti nel Cuore di Cristo che “possiamo trovare tutto il Vangelo” e “riconosciamo finalmente noi stessi e impariamo ad amare”. Secondo Francesco, incontrando l’amore di Cristo, “diventiamo capaci di tessere legami fraterni, di riconoscere la dignità di ogni essere umano e di prenderci cura insieme della nostra casa comune”. L’auspicio è che il mondo, “che sopravvive tra le guerre, gli squilibri socioeconomici, il consumismo e l’uso anti-umano della tecnologia, possa recuperare ciò che è più importante e necessario: il cuore”. Il primo capitolo, “L’importanza del cuore”, spiega perché occorre “ritornare al cuore” in un mondo nel quale siamo tentati di “diventare consumisti insaziabili e schiavi degli ingranaggi di un mercato”. È il cuore “che unisce i frammenti” e rende possibile “qualsiasi legame autentico, perché una relazione che non è costruita con il cuore è incapace di superare la frammentazione dell’individualismo”. E il mondo può cambiare “a partire dal cuore”. Il secondo capitolo si sofferma sui gesti e sulle parole d’amore di Cristo, mentre il terzo “Questo è il cuore che ha tanto amato” spiega come la Chiesa rifletta e abbia riflettuto “sul santo mistero del Cuore del Signore”. Il Papa sottolinea che “la devozione al Cuore di Cristo è essenziale per la nostra vita cristiana in quanto significa l’apertura piena di fede e di adorazione al mistero dell’amore divino e umano del Signore, tanto che possiamo affermare ancora una volta che il Sacro Cuore è una sintesi del Vangelo”. Di qui l’invito a rinnovare la devozione al Cuore di Cristo anche per contrastare “nuove manifestazioni di una ‘spiritualità senza carne’ che si moltiplicano nella società”. È necessario tornare alla “sintesi incarnata del Vangelo” davanti a “comunità e pastori concentrati solo su attività esterne, riforme strutturali prive di Vangelo, organizzazioni ossessive, progetti mondani, riflessioni secolarizzate, su varie proposte presentate come requisiti che a volte si pretende di imporre a tutti”. Negli ultimi due capitoli, il Pontefice mette in luce i due aspetti che “la devozione al Sacro Cuore dovrebbe tenere uniti per continuare a nutrirci e ad avvicinarci al Vangelo: l’esperienza spirituale personale e l’impegno comunitario e missionario”. Nel quarto, “L’amore che dà da bere”, rilegge le Sacre Scritture, e con i primi cristiani, riconosce Cristo e il suo costato aperto in “colui che hanno trafitto” che Dio riferisce a se stesso nella profezia del libro di Zaccaria. Diversi Padri della Chiesa hanno menzionato “la ferita del costato di Gesù come origine dell’acqua dello Spirito”, in primis Sant’Agostino, che “ha aperto la strada alla devozione al Sacro Cuore come luogo di incontro personale con il Signore”. Tra i devoti, l’Enciclica ricorda San Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, Santa Teresa di Lisieux, Santa Faustina Kowalska, San Giovanni Paolo II. L’ultimo capitolo “Amore per amore” approfondisce la dimensione comunitaria, sociale e missionaria della devozione al Cuore di Cristo, che, nel momento in cui “ci conduce al Padre, ci invia ai fratelli”. L’amore per i fratelli è infatti il “gesto più grande che possiamo offrirgli per ricambiare amore per amore”, come ha testimoniato, ad esempio, San Charles de Foucauld. Il testo si conclude con una preghiera di Francesco: “Prego il Signore Gesù che dal suo Cuore santo scorrano per tutti noi fiumi di acqua viva per guarire le ferite che ci infliggiamo, per rafforzare la nostra capacità di amare e servire, per spingerci a imparare a camminare insieme verso un mondo giusto, solidale e fraterno. Questo fino a quando celebreremo felicemente uniti il banchetto del Regno celeste. Lì ci sarà Cristo risorto, che armonizzerà tutte le nostre differenze con la luce che sgorga incessantemente dal suo Cuore aperto. Che sia sempre benedetto!”. [...] Read more...
30 Aprile 2025Il conteggio non è finito, ma le elezioni certamente sì. Il Partito Liberale del Canada, sotto la nuova guida di Mark Carney, è pronto a formare il prossimo governo, con la maggioranza dei seggi (172 su 343), o a capo della coalizione. La domanda ora è, molto semplicemente: come è successo? In effetti, il risultato è stato una sorpresa per quasi tutti, ma tre fattori si sono combinati per cambiare le cose. Quando l’ex leader liberale e primo ministro Justin Trudeau si è dimesso il 6 gennaio, il divario nei sondaggi sembrava insormontabile: i liberali avevano una media del 20% mentre i loro principali sfidanti, il Partito Conservatore del Canada sotto Pierre Poilievre, erano più del doppio, con un voto al 44%. Questo è stato il primo fattore. La popolarità di Trudeau era ai minimi di tutti i tempi e le prospettive dei liberali sono migliorate quasi da un giorno all’altro, il divario si è ridotto al 40% per i conservatori e al 32% per i liberali entro la metà di marzo. Fu allora che il secondo fattore giocò la sua parte: la scelta di un nuovo leader del partito (e primo ministro), Mark Carney, che ha immediatamente indetto elezioni anticipate. Dopo di che, i sondaggi si sono ulteriormente ridotti, il tutto nel contesto del terzo fattore: l’insistenza del presidente Donald Trump sul fatto che il Canada dovrebbe diventare il 51° stato. Accanto al suo suggerimento che gli Stati Uniti potrebbero acquisire la Groenlandia, la proposta, vista da molti come una “minaccia”, ha alienato molti elettori dal partito percepito come più vicino a Trump: i conservatori di Poilievre. Questo non può essere sopravvalutato: tra gli over 60, “Trattare con Donald Trump” è stato il fattore più importante nel decidere come votare e metà degli elettori più anziani intendeva sostenere i liberali di Carney. Il significato delle osservazioni di Trump non può essere ignorato. Carney sarà un candidato alla continuità, portando avanti le politiche di Trudeau, come hanno affermato i conservatori? O sarà un cauto cambio di ritmo, essendo una “persona molto diversa” da Trudeau e persino, secondo Poilievre, plagiando le politiche della piattaforma dei conservatori? È, naturalmente, difficile da dire. Prima delle elezioni, Carney non aveva mai ricoperto una carica elettiva, quindi la sua traiettoria come politico è difficile da prevedere. Ma questo è il punto: Carney non è un politico. Quello che possiamo valutare è il suo passato, specialmente in Gran Bretagna, dove è stato governatore della Banca d’Inghilterra per sette anni, essendo la prima persona nata all’estero in quel ruolo, dopo i suoi cinque anni e mezzo come governatore della banca centrale del Canada. Durante il suo periodo nel Regno Unito, Carney è sempre stato considerato un po’ fuori passo con il mercato del lavoro britannico. Nel 2013, The Guardian lo ha descritto come “l’estraneo”, che aveva “letto male la flessibilità” del nostro mercato non riuscendo a prevedere quanto velocemente sarebbe caduta la disoccupazione. Carney ha insistito sul fatto che i tassi di interesse dovrebbero rimanere il più bassi possibile, con solo un “rapido calo” della disoccupazione che ha portato al loro aumento. Quella caduta è arrivata: nel corso del suo governo, la disoccupazione britannica è scesa dal 7,8% nel 2013 al 4,8% nel 2016, il più basso dal 2005. Tuttavia, i tassi di interesse della Gran Bretagna si sono appiattiti a meno dell’1% durante il suo mandato. Il periodo di Carney come governatore è segnato da un’estensione dell’indipendenza operativa iniziata quasi vent’anni prima, portando la banca sempre più fuori passo con l’elettorato. In risposta alle critiche dell’allora leader laburista Jeremy Corbyn, nel 2015, Carney ha sostenuto che “l’influenza del Cancelliere sulla banca si sarebbe verificata solo in circostanze estreme”. La grande sfida – e il cambiamento – all’atteggiamento di Carney è arrivata in vista e all’indomani della Brexit. Nonostante abbia insistito sul fatto che i politici, anche e soprattutto il Cancelliere dello Scacchiere, dovrebbero stare alla larga dagli affari della Banca d’Inghilterra, Carney è stato visto come un’abbandono di questa posizione neutrale in opposizione all’uscita dall’Unione Europea, accusato dai principali politici dell’epoca di essere parte del “Progetto Paura” per aver sostenuto il lato rimanente. Inoltre, ha insistito sul suo atteggiamento anche dopo che il voto è stato approvato, sostenendo una diminuzione dei tassi di interesse sulla scia del voto. Questo mix di difesa dell’indipendenza operativa alla fine della Banca e interferenza nelle questioni politiche quando gli andava bene è il simbolo dell’intero approccio di Carney alla governance: la tecnocrazia. Tanto che Jacobin descrisse Carney come un “Tecnocrate Straordinario”, mentre Sol White lo definì “un Tecnocrate nell’era populista” e Jillian Kestler-D’Amours lo descrisse come un “tecnocrate sotto steroidi”. Ma è questo che serve il Canada? Parte dell’attrazione per l’allora cancelliere George Osborne nel nominare Carney erano le sue credenziali ed esperienze, che sono certamente necessarie per una posizione come il governatore della Banca d’Inghilterra, ma la natura decisamente internazionalista delle sue credenziali significava che Carney era sempre un po’ distanta dalle persone che il suo approccio colpiva. Questo non è vero per il Canada ora? A quanto pare, “ha trascorso gran parte della campagna di leadership liberale presentandosi ai canadesi”. Inoltre, il tempo di Carney in Gran Bretagna è stato in un ambiente politico radicalmente diverso, che diverge sia dalla Gran Bretagna ora, sia dal Canada dai primi anni 2010. Come ha sottolineato Yuan Yi Zhu, il Canada affronta: un’economia stagnante con solo l’1,4% di crescita nel decennio precedente al 2024; un’immigrazione alle stelle che sta aggravando una crisi abitativa che colpisce più duramente i giovani; e, come sottolineato dai dirigenti energetici il mese scorso, una crisi energetica imminente. Un tecnocrate ha il suo posto, di sicuro, ma l’impulso tecnocratico di Carney prevarrà sulla sua sensibilità politica? Data la mancanza di prove per quest’ultimo, lo suggerirebbe certamente. [...] Read more...
29 Aprile 2025Vivono nella loro patria ma come forestieri, partecipano a tutto come cittadini ma da tutto distaccati come stranieri. Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è straniera. ​​​​​​​(Anonimo, Lettera a Diogneto, II sec. d.C.)   Quando ci si riferisce alla Chiesa cattolica come attore geopolitico occorre sempre tenere presente la sua generale capacità – e volontà – di concentrarsi su tendenze di lungo termine, facendo dunque prevalere l’elemento temporale su quello spaziale. L’azione della Chiesa, peraltro, deve necessariamente esprimersi attraverso lo spazio, dimensione anch’essa in grado di affermare in pieno la ‘diversità’ dei cristiani, come mirabilmente descritto dall’anonimo autore del passo in epigrafe, tratto da un importante testo del cristianesimo dei primi secoli. Con queste premesse, è indubbio che la Chiesa cattolica, forte di quasi un miliardo e mezzo di fedeli e di un’autorità centralizzata (a differenza delle altre fedi, cristiane e no), rientra a buon diritto nel novero delle ‘grandi potenze’ geopolitiche. Una potenza disarmata, ma portatrice di un ineguagliabile soft power e di una capacità di mobilitazione tuttora fortissima, nonostante gli alti e bassi della storia. Dal punto di vista della concreta declinazione dell’influenza sovranazionale esercitata dalla Santa Sede, poi, coloro che – come lo scrivente – hanno avuto occasione di interagire per ragioni professionali con i diplomatici vaticani non possono non apprezzarne le grandi doti e l’alta capacità di farsi strumento dell’internazionalizzazione del messaggio cristiano. Anche se non sempre il Pontefice da poco scomparso ne ha utilizzato a fondo le potenzialità, preferendo spesso una sorta di ‘diplomazia personale’ e coinvolgendo anche il Dicastero per i Rapporti con gli Stati nei tentativi – oggi in parte arenati – di riforma della Curia romana. Anche con questo caveat, non vi è dubbio che il pontificato Bergoglio ha saputo restituire un certo slancio alla Chiesa cattolica sulla scena geopolitica e mediatica mondiale, fin dall’azione tendente a evitare un intervento statunitense in Siria nel 2013 e dall’invito in Vaticano rivolto congiuntamente, l’anno successivo, a Shimon Peres e Abu Mazen. Francesco è stato il primo Pontefice a riconoscere (e favorire) un certo allontanamento della Chiesa cattolica dall’Occidente, con il quale essa si era in precedenza pressoché identificata pur criticandone spesso – si pensi a Papa Ratzinger – la deriva individualistica e il crescente relativismo morale; e a dare voce alle istanze del cosiddetto ‘Sud globale’, criticando l’unipolarismo statunitense seguito alla fine della Guerra Fredda. Questo epocale mutamento di orizzonte si è prodotto parallelamente a un nuovo approccio alle questioni sociali, con l’adozione di posizioni molto critiche nei confronti del capitalismo e delle crescenti disuguaglianze economiche mondiali. Bergoglio è stato da molti definito ‘populista’, tributario dunque della tendenza – in Argentina soprattutto di origine peronista ma in gran parte condivisa dal locale cattolicesimo – a quasi ‘sacralizzare’ il popolo, considerato ‘innocente’, ma sottoposto alla corruzione delle élites. Tale retaggio spiega almeno in parte la citata avversione all’Occidente: la geopolitica bergogliana è stata di fatto fondata su tali tratti distintivi, che ben la possono avvicinare a posizioni terzomondiste. Di qui la contrarietà di Francesco al modello statunitense, soprattutto nella sua declinazione trumpiana; e la parallela avversione alle politiche vaticane della maggioranza conservatrice dell’episcopato USA. Ben diversa, ovviamente, l’attenzione riservata dal Papa argentino al subcontinente latinoamericano, dimostrata fin dai primi anni di pontificato con il patrocinio del riavvicinamento fra Cuba e l’amministrazione Obama, ma anche con il successo della sua prima visita apostolica, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio 2013 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù. ​Eppure, Bergoglio non è riuscito ad arginare, proprio in Sudamerica, l’impetuosa avanzata dei cristiani evangelici, una forza religiosa con molti appoggi proprio negli Stati Uniti e portatrice di un messaggio ben diverso da quello cattolico, soprattutto per il favore che riserva al successo economico. Oggi i cattolici sono ancora maggioranza in America Latina, ma con numeri piuttosto risicati, di poco superiori al 50% (dal circa 80% degli anni Novanta del secolo scorso); mentre gli evangelici hanno più che triplicato il loro peso negli ultimi vent’anni, mettendo addirittura nel mirino per il prossimo decennio il ‘sorpasso’ del cattolicesimo in Brasile. Tutto ciò non può non colpire in un panorama generale di leggero aumento dei fedeli cattolici nel mondo, che sono passati durante il pontificato di Bergoglio da 1,25 a 1,39 miliardi soprattutto per merito del contributo africano: a partire dalla Repubblica Democratica del Congo che, già nel 2020, ha sottratto al Brasile il primato di Paese con la più numerosa popolazione cattolica. Peraltro, proprio l’episcopato africano si è in buona parte distinto, negli ultimi tempi, per un orientamento tendenzialmente conservatore, poco allineato con quello del Papa. Anche l’Asia è rientrata fra gli obiettivi primari dell’azione di Papa Bergoglio: esempio principale di tale orientamento è stata l’apertura verso la Cina culminata nell’’accordo provvisorio’ sulla nomina dei vescovi, sottoscritto il 22 settembre 2018 dopo vari anni di negoziato. L’intesa, secondo la quale il governo cinese propone i nominativi dei candidati vescovi mentre il Pontefice conserva l’ultima parola sulla loro nomina, costituisce uno dei principali risultati dell’azione geopolitica bergogliana, superando la storica divisione fra la Chiesa cinese ‘ufficiale’ e quella ‘clandestina’ e ponendo tutti i vescovi del Paese in piena comunione con il Papa. Si è trattato di un vero e proprio cambio di paradigma nei rapporti fra Pechino e il Vaticano, che ha favorito il superamento di quella estraneità cinese alla Chiesa cattolica da molti considerata sostanzialmente irriducibile. L’accordo, peraltro, è stato ed è criticato da varie correnti cattoliche, che lo considerano una concessione troppo generosa nei confronti di un governo che limita tuttora i diritti dei credenti (con particolare ma non esclusivo riferimento alla situazione dei diritti umani a Hong Kong); altri lo hanno invece lodato, considerandolo un passo avanti nella tutela dei fedeli cinesi. In ogni caso, l’intesa ha mostrato il pragmatismo di Bergoglio, che ha modificato le precedenti posizioni in proposito della Santa Sede, basate su una severa difesa del principio di libertà religiosa. Occorrerà vedere come evolverà la situazione con il nuovo Pontefice: la validità dell’accordo, per il momento, è stata prorogata fino al 2028, un tempo comunque ridotto sia – come si è detto – per la Chiesa cattolica, sia per il millenario ‘Impero del Centro’. Nel frattempo, la Santa Sede continua a essere uno dei pochi Stati a riconoscere Taiwan e a mantenervi una propria rappresentanza diplomatica. Per quanto riguarda Medio Oriente e Palestina, Francesco – confermando la posizione vaticana a favore della soluzione ‘due popoli, due Stati’ – ha intensificato l’appoggio e la preoccupazione della Santa Sede nei confronti del popolo palestinese, esprimendosi fra l’altro in maniera molto severa a riguardo dell’eccessiva violenza esercitata da Israele sugli abitanti di Gaza dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e utilizzando in proposito, sia pure in chiave dubitativa, il termine ‘genocidio’. Le sue dure critiche, ripetute in più occasioni, gli hanno alienato le già scarse simpatie del governo israeliano, come si è potuto constatare anche in occasione della sua morte con le fredde condoglianze giunte solo dopo vari giorni. Gli ambienti cattolici conservatori, a loro volta, hanno spesso contestato l’atteggiamento considerato distratto di Bergoglio verso le discriminazioni subite dalle minoranze cristiane in diversi Paesi islamici. Infine l’Europa, di rilevanza non primaria nella visione del Pontefice arrivato ‘quasi dalla fine del mondo’, ma tornata al centro dell’attenzione internazionale con l’invasione russa dell’Ucraina. Mai come in questo caso si è manifestata l’azione di Papa Bergoglio in favore della pace, già in precedenza iniziata con la famosa denuncia della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ suscitata e sostenuta dall’industria degli armamenti. Da citare soprattutto, in tema di Ucraina, l’intervista del 2022 al ‘Corriere della Sera’, in cui Francesco accusò la NATO di avere “abbaiato” alle porte della Russia; e il successivo elogio del “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”, che suscitò l’indignazione di Kiev e lo fece includere da qualcuno nel novero dei sostenitori di Mosca, ma che costituiva in realtà un riflesso della postura critica verso l’Occidente citata in precedenza. Proprio questa ‘lontananza’ dall’Occidente – di cui sono state eco anche le posizioni ambientaliste espresse nell’enciclica ‘Laudato Si’’, oltre alle battaglie in difesa dei migranti – e il favore verso un ordine internazionale più spostato verso le periferie del mondo resteranno l’impronta più caratteristica del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Se i risultati della sua azione saranno permanenti si vedrà negli anni e nei decenni prossimi: certo, il suo successore si troverà di fronte l’immane compito di proseguirla, correggendone magari alcuni aspetti problematici e preservando il ruolo della Chiesa cattolica nel mondo, anche tornando indietro rispetto ai forse eccessivi atteggiamenti da ‘uomo comune’ tanto cari al Papa argentino. Un mondo, l’attuale, sempre più complesso e difficile, nei confronti del quale il ‘distacco’ cristiano descritto nella Lettera a Diogneto, ben lontano dal voler significare isolamento, potrebbe ancora rappresentare un’importante carta da giocare. 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6 Maggio 2025Raggiunto velocemente (ieri ufficializzato) l’accordo di Große Koalition tra CDU/CSU e SPD, la nomina a Cancelliere del leader dell’Unione Cristiano-Democratica, Friedrich Merz, sembrava scontata tanto che Olaf Scholz, riporta la Bild, in procinto di cedere il posto, aveva già deciso di festeggiare insieme ai suoi ministri con una ‘cena rustica’ bagnata da un barile da 10 litri di birra del Sauerland trasportato da lui stesso dentro il baule della sua auto. Invece, il colpo di scena: Merz non ha raggiunto la maggioranza al Bundestag necessaria per essere eletto Cancelliere. È la prima volta che succede nella storia della repubblica tedesca. La chiamata al voto, proseguita in modo spedito, si è chiusa alle 9:35. Il risultato, uscito circa trenta minuti dopo, ha lasciato tutti sbalorditi: per l’elezione erano necessari 316 voti, ma al primo turno, per il leader dell’Unione hanno votato 310 parlamentari a favore, 307 contro, 3 si sono astenuti e un voto è risultato non valido. Secondo i calcoli dei media tedeschi a Merz sarebbero mancati 18 voti dalle file della sua maggioranza. Sulla carta, infatti, i gruppi parlamentari della cosiddetta piccola Grosse Koalizion, la coalizione nero-rossa, poteva contare su una maggioranza ridotta: 328 seggi (208 la Cdu-Csu e 120 la Spd) rispetto alla soglia dei 316 voti necessari. Merz aveva dichiarato di aspettarsi di essere eletto cancelliere al primo turno, sotto gli occhi di Angela Merkel, giunta in aula per assistere alla sua nomina. Ma qualcosa è andato storto. A guastare la sua festa sarebbero stati 18 franchi tiratori. Infatti Merz, ha ottenuto solo 310 voti favorevoli. Il ‘tradimento’ dell’accordo di governo sarebbe stato favorito dal voto segreto. Dopo l’appello nominale, il responsabile del gruppo parlamentare dell’Unione, Steffen Bilger (CDU), ha annunciato che il partito era pienamente rappresentato. Altrettanto ha fatto la SPD. “È una novità assoluta: mai prima d’ora un cancelliere designato era stato bocciato alle elezioni del Bundestag dopo un’elezione federale e il successo delle trattative di coalizione”, ha scritto Die Welt. Sei voti sotto la maggioranza necessaria, 18 in meno del totale della nuova coalizione, sembrano pochi, ma pesano in quanto non promettono bene per l’aspirante cancelliere e per la tenuta del nuovo esecutivo, a sei mesi dalla fine della ‘coalizione semaforo‘ a guida SPD, crollata proprio a causa della mancanza di compattezza tra le forze della maggioranza di governo. Tino Chrupalla, numero due del partito di estrema destra Alternative für Deutschland, ha detto al ‘Corriere della Sera’: «Oggi è un buon giorno per la Germania. Certamente non ha avuto il nostro voto». «Merz dovrebbe farsi da parte e andrebbe spianata la strada per elezioni generali», ha affermato alla Deutsche Welle la leader dell’AfD, Alice Weidel, convinta che oggi sia «una giornata positiva per la Germania». La stessa Weidel ha poi scritto su X che l’accaduto dimostra ”le basi deboli su cui si fonda la coalizione tra Cdu/Csu e Spd”, sostenendo anche che Merz, ”primo candidato alla carica di cancelliere nella Repubblica Federale Tedesca a fallire al primo turno”, ha “pagato il prezzo di tutte le sue macchinazioni in vista delle elezioni, una mostruosa frode elettorale mai vista prima”. Secondo il co-presidente del gruppo dei Verdi, Bas Eickhout, “una Germania instabile non aiuta l’Europa”, e ha aggiunto che per Merz “non è stato un buon inizio” e “sulla sua leadership c’è ancora da lavorare”. Dello stesso avviso Özdemir Cem, ex leader dei Verdi: «È una catastrofe per la Germania e per la democrazia». La situazione ha suscitato reazioni anche a livello internazionale: “Quello che è successo stamattina è un fulmine a ciel sereno, non era mai successo nella storia tedesca. In Europa come in Germania c’è un paesaggio politico frammentato e teso, la mancata elezione di stamattina è stata una cosa veramente inattesa”, ha detto la capogruppo dei liberali di Renew al Parlamento europeo, la francese Valerie Hayer. Merz aveva vinto le elezioni del 23 febbraio, ma era stata una non-vittoria: il risultato della CDU era stato un risultato buono, ma inferiore alle aspettative, mentre il partito di estrema destra, AfD, si attestava come il secondo partito più votato in Germania. Il leader della CDU non piace a parte dell’SPD e dell’AfD. Ma non va dimenticato che Merz ha anche dei nemici interni al suo partito e si può ipotizzare che qualcuno gli abbia voluto far pagare il voto sull’immigrazione con AfD a gennaio e quello più recente con SPD sul riarmo. Si sarebbe già riunito l’Ufficio di presidenza del Bundestag per stabilire il calendario dei prossimi turni di votazione. Anche al secondo turno, come al primo, comunque, sarà necessaria la maggioranza assoluta. Secondo quanto appreso sia dalla Bild sia da WELT, oggi non ci sarà un secondo turno di votazioni per l’elezione del cancelliere. Il giorno prescelto potrebbe essere venerdì, a meno che i due terzi del Bundestag non accettino, sempre con una votazione, di anticiparlo a mercoledì. Il Bundestag vota tre volte per eleggere il cancelliere, per le prime due votazioni serve la maggioranza assoluta, alla terza viene eletto cancelliere chi ha più voti. Il Parlamento ha 14 giorni per arrivare al via libera definitivo sulla nomina di Merz, termine oltre il quale il candidato non sarebbe più eleggibile. La maggioranza si trova ora di fronte ad un bivio: velocizzare i tempi, con il rischio però di assistere a una seconda bocciatura che darebbe un altro duro colpo alla stabilità del nuovo esecutivo, o prendersi tempo per discutere con gli alleati un modo per evitare una fumata nera. Secondo la Legge fondamentale, in particolare l’articolo 63, che contiene le regole per l’elezione del Cancelliere, spiega lo Spiegel, «se il candidato non viene eletto, il Bundestag può eleggere un Cancelliere entro 14 giorni dallo scrutinio con più della metà dei suoi membri». E quindi: «Se Merz dovesse avere l’impressione di poter ottenere più successo in un secondo turno di votazioni rispetto al primo, potrebbe ricandidarsi in qualsiasi momento. Nell’arco di due settimane possono essere effettuate più schede con candidati diversi. Ma per essere eletti hanno bisogno anche della maggioranza assoluta di almeno 316 voti». Non c’è limite al numero di votazioni possibili, sebbene sia sempre richiesta la maggioranza assoluta. Se durante questa fase non si arriva all’elezione del cancelliere, il processo elettorale entra in una terza fase in cui viene eletta la persona che ottiene il maggior numero di voti (maggioranza relativa). Quindi, la nomina di Merz probabilmente avverrà comunque, ma intanto la leadership di Merz parte ammaccata. Se così non fosse, toccherebbe al Presidente della Repubblica decidere se nominare effettivamente Merz cancelliere o sciogliere il Parlamento. L’estrema destra di AfD spinge affinché si torni al voto il prima possibile. La bocciatura fa crollare le borse europee virano in negativo dopo il voto: a Francoforte l’indice Dax, debole in apertura degli scambi, si appesantisce a -1,09%, a Milano il Ftse Mib segna -0,30%, Parigi-0,60%, Londra debole a -0,01%. [...] Read more...
6 Maggio 2025L’integrazione economica non eliminerà tutti gli attriti, ma rafforzerà le dipendenze reciproche e stabilirà canali chiari per il dialogo sulla prevenzione dei conflitti     Negli ultimi anni, l’Asia orientale ha assistito a un’intensificazione delle tensioni in materia di sicurezza tra Cina, Corea del Sud e Nord, Giappone e Taiwan, manifestandosi in frequenti pattuglie, incursioni di difesa aerea navale e manovre militari sempre più assertive vicino alle acque e allo spazio aereo contesi. Questi attriti coesistono con una profonda interdipendenza economica: nel 2024, il commercio totale regionale di merci ha raggiunto i 108 trilioni di dollari, crescendo del 3 per cento rispetto all’8% dell’anno precedente, mentre le esportazioni di servizi ammontavano a 880 miliardi di dollari e le entrate del turismo transfrontaliero si sono avvicinate a 130 miliardi di dollari. Gli afflussi diretti esteri di investimenti nella regione si sono attestati a 255 miliardi di dollari orientali, rendendo l’Asia il più grande destinatario del mondo per il quarto anno consecutivo. La tesi di questo saggio è che la cooperazione economica strategica sostenuta in settori non sensibili attraverso quadri istituzionali adattativi rafforzati e la gestione preventiva dei meccanismi di crisi può effettivamente ridurre gli incentivi ai conflitti, promuovere la comprensione reciproca e raggiungere una stabilità avanzata a lungo termine, prosperità condivisa tra queste economie interconnesse. Le lamentele storiche hanno creato una complessa rete di sfiducia nella regione. Nel 2024, la disputa delle isole Senkaku/Diaoyu tra Cina e Giappone ha portato a dodici proteste diplomatiche formali. Nel frattempo, lo Stretto di Taiwan ha visto circa 180 uscite aeree cinesi vicino alla linea mediana durante lo stesso periodo. Inoltre, nel Mar Ovest, Seoul e Tokyo si sono scambiate nove obiezioni ufficiali riguardanti le incursioni intorno agli isolotti di Dokdo (noti anche come Takeshima). Anche la zona di identificazione della difesa aerea di Taiwan ha dovuto affrontare un aumento significativo delle intrusioni, con un aumento del 28% anno su anno. Questi eventi sottolineano la durata delle questioni legacy risalenti ai ricordi di guerra, alla colonizzazione irrisolta e alle rivendicazioni di sovranità, amplificando la retorica nazionalista e limitando la flessibilità diplomatica. Nonostante le tensioni in corso, i legami economici hanno mostrato una notevole resilienza. Nel 2024, il commercio di merci a doppio senso tra Cina e Giappone ha superato i 330 miliardi di dollari, rendendola una delle più grandi relazioni bilaterali economiche al mondo. Le esportazioni di semiconduttori di Taiwan hanno raggiunto i 160 miliardi di dollari, rappresentando il 62% della capacità globale di fabbricazione dei wafer. Nel frattempo, le spedizioni di chip e display della Corea del Sud hanno totalizzato 142 miliardi di dollari, evidenziando il valore critico delle catene di approvvigionamento che abbracciano i principali centri di produzione della regione. Inoltre, gli scambi di servizi intraregionali si sono espansi, con la Corea del Sud che esporta 45 miliardi di dollari in servizi digitali ai suoi vicini e il Giappone che riceve 70 miliardi di dollari in ricevute per il turismo e i viaggi d’affari. Queste solide illustrazioni illustrano quanto siano diventati profondamente integrati i flussi di approvvigionamento e la catena di capitale, suggerendo che i costi economici e i conflitti di potrebbero superare i benefici di sicurezza percepiti. Gli accordi multilaterali hanno aumentato le opportunità di cooperazione. Il partenariato economico globale regionale (RCEP), entrato in vigore nel gennaio 2022, comprende Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e dieci nazioni dell’ASEAN. Insieme, questi paesi rappresenteranno circa il 29 per cento del PIL globale entro il 2024, generando un risparmio tariffario cumulativo stimato di 480 miliardi di dollari. Oltre all’RCEP, l’accordo globale e progressivo per il partenariato trans-pacifico (CPTPP) ha attirato l’interesse della Corea del Sud, di Taiwan e di altre economie osservatori, indicando una potenziale espansione che potrebbe fornire benefici nella liberalizzazione dei servizi e degli investimenti. Nel 2025, i primi sviluppi hanno evidenziato un consorzio verde trilaterale che ha impegnato 12 miliardi di dollari per la ricerca congiunta sull’idrogeno offshore, l’energia eolica e le batterie di stoccaggio. Nel frattempo, una coalizione di produttori di semiconduttori di Taiwan, Corea del Sud e Giappone si è concentrata su progetti collaborativi avanzati volti alle tecniche di litografia di nuova generazione. Tuttavia, ostacoli significativi impediscono un’integrazione più profonda. I sentimenti nazionalisti sono forti, come evidenziato da un sondaggio del gennaio 2025 che indica che il 49 per cento degli intervistati giapponesi vede la Cina come una grave minaccia alla sicurezza, mentre il 55 per cento dei sudcoreani ha opinioni sfavorevoli sulle intenzioni regionali del Giappone. Ciò crea sfide per raccogliere sostegno interno per iniziative politiche congiunte. A Taiwan, i dibattiti sull’identità e l’allineamento economico attraverso lo stretto mostrano che il 42 per cento dei cittadini è cauto riguardo a una più profonda integrazione, complicando gli sforzi per formalizzare la partecipazione ai forum multilaterali. Inoltre, la coercizione economica è diventata uno strumento di stato; a metà del 2024, i controlli cinesi sulle esportazioni di gallio e germanio hanno imposto una stima di 18 miliardi di dollari in costi aggiuntivi alle industrie dei semiconduttori a valle in Giappone e Taiwan. Allo stesso tempo, la Corea del Sud deve affrontare pressioni intensificate per navigare negli obblighi dell’alleanza concorrenti a causa delle restrizioni sulle esportazioni di tecnologia, in particolare nella microelettronica avanzata e nell’intelligenza artificiale. Queste dinamiche sottolineano un paradosso: l’integrazione economica rimane politicamente profonda e la concorrenza strategica minaccia costantemente di svelare i guadagni reciproci. Gli sforzi di diversificazione della catena di approvvigionamento hanno iniziato a rimodellare i modelli di commercio, con Giappone e Taiwan che hanno investito 25 miliardi di dollari in capacità di produzione alternativa di semiconduttori al di fuori della Cina tra il 2023 e il 2025, e le partnership con la Corea del Sud che accelerano nel sud-est asiatico per l’elettronica di assemblaggio del valore di 18 miliardi di dollari. L’alto costo del disaccoppiamento, a circa 45 miliardi di dollari di PIL perso in quattro economie di valore se le catene dovessero frammentarsi completamente, suggerisce che l’interdipendenza funziona ancora come una forza che frena l’escalation dei conflitti. Eppure lo spettro delle misure commerciali improvvise armate rimane reale; tariffe e aumenti inaspettati, divieti di esportazione potrebbero infliggere danni economici sproporzionati data la densità del commercio intraregionale. Per utilizzare la cooperazione economica come mezzo per raggiungere una stabilità regionale duratura, i responsabili politici dovrebbero dare priorità a partenariati specifici del settore che riducano le preoccupazioni per la sicurezza massimizzando i benefici condivisi. Le infrastrutture energetiche verdi, la salute pubblica digitale e l’agricoltura resiliente al clima sono aree eccellenti per la collaborazione trilaterale e quadrilaterale, in quanto non rientrano in interessi militari o di intelligence immediati. Il finanziamento congiunto di ricerca e sviluppo, proposto a 8 miliardi di dollari all’anno e gestito attraverso un segretariato ampliato Cina-Giappone-Corea, potrebbe accelerare i progressi tecnologici nel combustibile idrogeno, nell’eolico offshore e nella cattura del carbonio. Allo stesso tempo, i quadri istituzionali devono adattarsi: se RCEP dovrebbe creare un meccanismo informale di osservazione per Taiwan che consenta la partecipazione a comitati settoriali senza pregiudicare le posizioni sovrane, e il vertice Cina-Giappone-Corea incorpora un sistema di allarme precoce economico con indicatori trasparenti, come restrizioni di credito improvvisi oni aggiustamenti tariffari improvvisi, per segnalare i rischi emergenti. Anche i quadri istituzionali devono adattarsi. RCEP dovrebbe istituire un meccanismo di osservazione informale per Taiwan, consentendo la sua partecipazione a comitati settoriali senza compromettere la sovranità. Inoltre, il vertice Cina-Giappone-Corea dovrebbe implementare un sistema di allarme economico precoce con indicatori trasparenti, come improvvise restrizioni al credito o brusche variazioni tariffarie, per identificare i rischi emergenti. Le hotline del commercio delle controversie sotte da alti funzionari del ministero potrebbero offrire consultazioni e rapidamente disinnescare le ritorsioni unilaterali. Nel frattempo, i consigli d’affari e i consorzi accademici, nell’ambito della diplomazia di Track II, possono sviluppare reti transfrontaliere che rimangono isolate dai cicli elettorali. In conclusione, implementando partnership settoriali mirate, innovazioni adattive istituzionali e protocolli di risposta rapida, l’Asia orientale può trasformare la sua fitta rete in un cuscinetto affidabile contro i conflitti geopolitici. Mentre l’integrazione economica non eliminerà tutti gli attriti, rafforzerà le dipendenze reciproche e stabilirà canali chiari per il dialogo sulla prevenzione dei conflitti. Insieme, Cina, Corea del Sud, Giappone e Taiwan possono migliorare la resilienza regionale, ridurre i rischi di errori di calcolo e posare le basi per una pace e una prosperità sostenibili. [...] Read more...
6 Maggio 2025I laburisti e i conservatori hanno tre anni per cambiare le cose e riconquistare la fiducia degli elettori. E sarà tutt’altro che facile   Le elezioni locali tenutesi in Inghilterra giovedì scorso sono state un altro momento fondamentale nella politica britannica? Il successo del partito populista di estrema destra Reform UK, che ha ottenuto 677 seggi in consiglio, minaccia di frantumare il sistema bipartitico che ha dominato la politica del paese per più di un secolo. Sia il Partito Laburista al governo che il Partito Conservatore di opposizione hanno avuto una notte lividi. Nessuno di questi due colossi dell’establishment ha fatto appello agli elettori, il che significa sfide sismiche ai loro partiti e leader. Naturalmente, non è solo in Gran Bretagna che i partiti tradizionali hanno sofferto negli ultimi anni. Dove sono i repubblicani francesi e il Partito Socialista? E negli Stati Uniti, il tradizionale Partito Repubblicano è effettivamente crollato ed è stato preso in assalto dal movimento “Make America Great Again” di Donald Trump. I partiti anti-establishment sono in aumento, a sinistra e a destra, in tutta Europa. Circa un terzo degli europei ora vota per i partiti non tradizionali. La fedeltà al partito sta calando e le tendenze degli elettori sono più mutevoli. Suggerisce un’insoddisfazione diffusa in un momento di crisi economica e politica identitaria. Quindi, ciò che sta accadendo in Gran Bretagna è tutt’altro che unico. La domanda nella mente di molte persone è se questo possa dare un impulso al viaggio di Nigel Farage a Downing Street. Il leader di Reform potrebbe diventare primo ministro? Questa è una domanda valida. Ha il talento politico ed è uno dei comunicatori politici più efficaci del paese. È un marchio, è riconoscibile ed è un sempre presente nei media. L’opportunismo è il suo forte e non c’è un carro su cui non salterà se aiuta la sua ascesa al potere. La riforma ha trasformato le previsioni psefologiche in realtà di voto. Da quando il governo laburista sotto Keir Starmer è salito al potere la scorsa estate, i sondaggi d’opinione hanno mostrato che la riforma è aumentata rapidamente. Le elezioni della scorsa settimana sono state la prima volta che questo potrebbe essere trasmesso in reali guadagni politici, tra cui un quinto membro del Parlamento grazie a un’elezione suppletiva in cui una grande maggioranza laburista è stata rovesciata. Sarebbe imprudente per i laburisti e i conservatori vedere questo solo come un voto di protesta. La disaffezione sembra essere più profonda di questo, nella misura in cui sempre più elettori sono pronti a fidarsi di Reform con il loro voto. Ma un’elezione generale non è probabile fino al 2029. Molto cambierà da qui ad allora. Il Labour potrebbe riprendersi dalle difficili decisioni finanziarie che ha preso finora, compresa l’imposizione di tasse impopolari. I conservatori potrebbero abbandonare il nuovo leader inefficace Kemi Badenoch, ma per chi? Alcuni ipotizzano un ritorno per Boris Johnson, l’unico politico di destra che può competere per il tempo di trasmissione con Farage e andare testa a testa con lui. La riforma ha le sue debolezze. Dipende quasi totalmente da Farage. Senza di lui, crolla, piuttosto come potrebbe MAGA senza Trump. Sotto Farage, ci sono anche alcuni personaggi estremamente poco attraenti con opinioni che il loro leader non vorrebbe che fossero trasmesse. La riforma è anche lacerata da controversie di personalità. E come nuovo partito ha poca esperienza di governo effettivo, quindi, mentre inizia a prendere il controllo dei consigli locali, le prestazioni della riforma saranno valutate da vicino. Le politiche della riforma devono ancora subire il tipo di analisi forense che porterebbe un’elezione generale. Gli elettori vogliono che l’economia rimetta sulla strada giusta, ma cosa offre la riforma qui? Una posizione anti-immigrazione è nel suo DNA, ma ha le soluzioni? Le persone saranno scordeggiate dal suo approccio islamofobo e da quello che molti vedono come razzismo sottilmente mascherato in termini di atteggiamenti nei confronti degli immigrati? In che misura il Trumpismo ha influenzato le questioni? Ha potenziato le forze populiste in tutta Europa e altrove. Il movimento MAGA ha ispirato molti. Ai suoi seguaci piace vedersi come insorti. Eppure, contro questo, Trump è anche una responsabilità. Le sue politiche tariffarie sono appena benvenute al di fuori degli Stati Uniti. La vicinanza di Trump al presidente russo Vladimir Putin è anche un problema per artisti del calibro di Farage, che è consapevole di non voler essere scelto come burattino di Mosca. Essere pronti a resistere a Trump sembra offrire un vantaggio elettorale in alcuni paesi. Il Partito Liberale era giù e fuori in Canada, ma gli attacchi di Trump hanno permesso a Mark Carney di rivendicare una vittoria improbabile. In Australia, Anthony Albanese ha vinto un secondo mandato schiacciante contro un avversario definito Trump australiano. I laburisti e i conservatori hanno tre anni per cambiare le cose e riconquistare la fiducia degli elettori. Questo sarà tutt’altro che facile. I laburisti possono fare appello alla sinistra e al centro della politica britannica, che eviterà la riforma, così come le minoranze etniche, che avranno paura. I conservatori affrontano la scelta familiare se abbracciare la riforma – forse anche fondersi con essa per creare un unico blocco politico di destra – o trovare un modo per differenziarsi più chiaramente dal suo rivale. Non sorprenderti se Badenoch ha una breve durata di vita come leader. In ogni caso, la politica britannica è in una corsa accidentata. Ciò che l’elettorato desidera è un governo competente con un piano realistico. L’errore sarebbe che altri partiti imitassero Reform come la via da seguire. Questo è stato un voto “una piaga su tutte le vostre case”. La soluzione per i partiti mainstream è migliorare il loro gioco o affrontare l’oblio. [...] Read more...

Di James M. Dorsey

James M. Dorsey è un giornalista e studioso pluripremiato, Senior Fellow presso il Middle East Institute dell'Università Nazionale di Singapore e Adjunct Senior Fellow presso la S. Rajaratnam School of International Studies e l'autore della rubrica e del blog sindacati.