Il voto che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca dopo i quattro anni dell’amministrazione Biden ha messo in luce diverse indicazioni, sia riguardo alle dinamiche interne ai partiti, sia al loro rapporto con l’elettorato, che negli ultimi anni è cambiato in modo significativo. Giunto al termine di una campagna elettorale densa di emozioni, dall’attentato del 13 luglio al ritiro di Biden dalla corsa per la rielezione meno di dieci giorni dopo, il successo del tycoon innescherà inoltre, con ogni probabilità, un vivace dibattito soprattutto all’interno del Partito democratico, che, nonostante lo sfoggio di unità, ha affrontato la prova elettorale profondamente diviso. Al momento, gli esiti di questo dibattito sono aperti a tutte le speculazioni. Tuttavia, le difficoltà che sembrano esserci state nel raccogliere il consenso di gruppi tradizionalmente pro-dem come le donne, i giovani, le minoranze e gli elettori più scolarizzati, lascia presagire un percorso lungo e difficile, destinato a sfociare in una (almeno parziale) ridefinizione dell’offerta politica del partito e – probabilmente – nell’avvio di un processo di ricambio dei suoi vertici.
Anche se, rispetto ai primi giorni, i risultati ufficiali sembrano in parte ridimensionare la portata dalla vittoria di Trump in termini di voto popolare, la sconfitta di Kamala Harris è stata, infatti, netta. La vicepresidente ha pagato lo scotto di una campagna iniziata tardi, che – nonostante le ampie disponibilità economiche – le ha impedito di battere sistematicamente il territorio; di una legittimazione debole, non avendo dovuto superare la prova delle primarie; dello scarso favore di cui gode presso una parte del partito e della sfiducia di una larga fetta di elettorato, che le imputa il ruolo avuto in un’amministrazione che – pur avendo ottenuto successi in molti campi – è stata fin da subito poco scarsa popolare. A queste debolezze ‘strutturali’, Harris ha aggiunto una proposta politica poco convincente, generica su molti aspetti, ambigua su altri, per esempio quello delle politiche ambientali ed energetiche o quello del ruolo di Washington nella crisi in corso in Medio Oriente. Questa ambiguità, se da un lato non ha portato i voti attesi dell’elettorato moderato, dall’altro le è costata quelli di diverse fette del mondo liberal.
Servirà tempo per avere e interpretare i dati disaggregati ma, in questa prospettiva, nemmeno la scommessa sul voto femminile e l’enfasi posta sui temi dell’aborto e dei diritti riproduttivi paiono avere pagato. L’impressione è che, piuttosto, la candidata democratica non sia stata in grado di affrontare i temi che stanno davvero a cuore all’elettorato e soprattutto che non sia riuscita ad andare incontro davvero alle paure di una middle class con cui ha cercato (senza successo) di immedesimarsi. In questo senso, le critiche che Bernie Sanders ha mosso al Partito democratico nelle ore successive alla sconfitta colgono bene il punto. L’essere identificato come il partito dello status quo ha punito i dem in un momento in cui i sentimenti dominanti fra gli elettori sono la rabbia e la frustrazione. Penalizzante è stata anche la percezione del Partito democratico come legato a doppio filo ai grandi interessi economici e finanziari (un problema che aveva già avuto Hillary Clinton nelle elezioni del 2016) e come rappresentante di una élite sociale largamente autoreferenziale e scollegata dai problemi della vita di tutti i giorni.
Per molti aspetti, l’esatto opposto di Donald Trump, che, nonostante le diatribe che hanno punteggiato il suo primo mandato, i guai giudiziari e le condanne raccolte, è riuscito ancora una volta a catalizzare i favori di una larga fetta di elettorato, allargando, inoltre, il suo bacino di consenso a nuovi (e per molti aspetti inattesi) supporter. È questo, forse, il risultato più significativo, anche se per avere una conferma definitiva bisognerà disporre – come si è detto – dei dati definitivi disaggregati. La capacità di intercettare i voti delle minoranze (o, almeno, di alcune di queste), individuando nuove linee di segmentazione,potrebbe contribuire a ridisegnare il panorama politico USA. Resta, comunque, il fatto che, anche questa volta, il voto è sembrato essere più ‘contro’ qualcuno che ‘a favore’ di qualcosa: una tendenza che pare essersi consolidata e che, se da una parte conferma il profondo grado di polarizzazione raggiunto dalla vita politica statunitense, dall’altro contribuisce ad aumentarlo, lasciando presagire anni agitati per il Paese, data anche la ‘naturale’ propensione di Donald Trump ad assumere posizioni divisive.