“Lo scontro in atto è il tentativo di Francesco di rimanere neutrale nella disputa elettorale americana”. “E’ molto difficile che la Santa Sede possa subordinare i propri obiettivi sulla Cina all’agenda statunitense: questo perché vorrebbe dire rinunciare alla propria, che diverge da quella americana, per obiettivi e modalità”. Intervista a Davide Borsani (ISPI)
Dopo giorni, per non dire settimane, di critiche e tensioni tra Stati Uniti e Santa Sede, finalmente domani il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, che in questi giorni è in tour in Europa ed ha avuto incontri bilaterali anche con il Premier italiano Giuseppe Conte e il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, varcherà le Mura leonine per incontrare l’omologo vaticano, il Cardinale Pietro Parolin.
Per la verità, le ha già varcate oggi per prendere parte ad un simposio sulla libertà religiosa organizzato dall’Ambasciata USA presso la Santa Sede. L’ennesima occasione, in realtà, per rintuzzare il Vaticano sulla questione ‘Cina’, il rivale strategico per l’Amministrazione Trump, l’estrema frontiera dell’evangelizzazione per Papa Francesco.
Quello che Mike Pompeo sta provando a fare da un paio di settimane è scongiurare l’auspicato (almeno dalla Santa Sede) rinnovo ‘ad experimentum’ dell’accordo provvisorio (segreto) sulla nomina dei vescovi siglato tra Cina e Vaticano il 22 Settembre 2018, entrato in vigore l’anno successo e da rinnovare entro il 22 Ottobre prossimo. Il metodo utilizzato è la minaccia di discredito qualora ciò avvenisse, la ‘perdita di autorità morale del Papa’ per stare alle parole del numero uno della diplomazia a stelle e strisce, secondo cui è inaccettabile il silenzio vaticano sulle repressioni ad Hong Kong o sulle ‘rieducazioni’ imposte agli Uiguri.
Al tentativo di disturbare la sintonia tra la Cina e il Vaticano o, addirittura, di coinvolgere quest’ultimo nella ‘crociata’ contro il regime di Pechino, si aggiungerebbe, stando alle parole pronunciate oggi da Monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, la tentata ‘strumentalizzazione’ del Papa a fini elettorali, per consolidare il voto cattolico che potrebbe rivelarsi decisivo in alcuni ‘swing States’. Proprio per questo motivo, a detta di Gallagher, Francesco, peraltro a pochi giorni dall’uscita (il 4 Ottobre prossimo) della sua terza enciclica di Francesco, ‘Fratelli Tutti’ (una citazione di San Francesco) ha rifiutato l’incontro che, sebbene richiesto, è apparso fin da subito irrituale. Un rifiuto che, in quanto a freddezza, ha superato quello di Benedetto XVI del 2007 di incontrare Condoleeza Rice per esprimere contrarietà rispetto alla Guerra in Iraq.
Del resto, come dimostra una recente rilevazione del Pew Research Center, sei adulti statunitensi su dieci affermano di avere un’opinione ‘molto’ o ‘per lo più’ favorevole di Papa Francesco, rispetto a circa la metà che lo aveva detto nel Settembre del 2018, quando la stessa domanda è stata posta l’ultima volta. A quel tempo, un gran giurì della Pennsylvania aveva appena pubblicato un rapporto che rivelava decenni di abusi sessuali su minori da parte di preti cattolici, e l’ex cardinale Theodore McCarrick si era recentemente dimesso a causa di accuse separate di abuso sessuale. Nel complesso, l’opinione pubblica di Papa Francesco è ora più o meno allo stesso livello di quando ha assunto il papato nel 2013, ma ancora al di sotto dei punti più alti nel 2015 e nel 2017, quando il 70% degli adulti statunitensi ha dichiarato di avere un ‘molto’ o ‘abbastanza’ favorevole considerazione del Pontefice.
Circa tre quarti dei cattolici (77%), secondo il Pew Research Center, ora vedono favorevolmente il Papa, circa 10 punti percentuali in meno a quanto registrato a gennaio 2017 (87%), ma non statisticamente diversa dalle valutazioni registrate a Gennaio o Settembre 2018.
L’opinione positiva su Papà Francesco è piuttosto trasversale, accumunando tanto i cattolici che partecipano alla messa settimanalmente quanto quelli che partecipano meno spesso (79% e 76%, rispettivamente). Sicuramente, come rilevato da un sondaggio del gennaio 2018, una crescente polarizzazione sui opinioni di Papa Francesco, con i repubblicani cattolici che hanno opinioni meno favorevoli sul pontefice rispetto ai democratici cattolici. Quella polarizzazione persiste oggi, con circa nove democratici cattolici su dieci (87%) e inclini democratici che vedono Francesco favorevolmente rispetto al 71% tra i repubblicani cattolici e gli orientamenti repubblicani.
Da questo punto di vista, secondo il PEW Center, la metà o più degli elettori registrati cattolici (dal 48% in su) si descrive come repubblicani o afferma di propendere per il Partito Repubblicano, mentre più o meno la stessa quota (47%) si identifica o tende verso il Partito Democratico. Un dettaglio non da poco visto che in diversi casi è stato decisivo per l’esito di un’elezione mentre, la maggior parte degli elettori ispanici cattolici (68%), nel frattempo, si identifica come Democratici.
C’è effettivamente il tentativo di strumentalizzare il Papa a fini elettorali? Cosa temono gli Stati Uniti dal rinnovo dell’accordo tra Cina e Vaticano sulla nomina dei Vescovi? Che da pastorale diventi, di fatto, politico? Quali rischi comporta questa frattura tra Stati Uniti e Vaticano? Ha risposto a queste e ad altre domande Davide Borsani, Associate Reaserch Fellow dell’ISPI specializzato in Relazioni Transatlantiche.
L’amministrazione Trump cerca di strumentalizzare Papa Francesco? «Sì, e questa è proprio una delle ragioni per cui il Papa non incontrerà il segretario di Stato americano Mike Pompeo», così avrebbe risposto Monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede nel corso del Simposio sulla libertà religiosa organizzato dall’Ambasciata USA presso il Vaticano alla quale partecipava anche il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo. Quali finalità ha questa strumentalizzazione?
La strumentalizzazione a cui si riferisce Gallagher è da mettere in relazione alle elezioni americane che sono dietro l’angolo e, in particolare, al voto cattolico che, negli Stati Uniti, rappresenta un bacino elettorale molto ampio, equivalente ad un quinto e un quarto della popolazione. Stiamo parlando di un voto che, oltre ad essere influente sull’esito delle elezioni, è influente dal punto di vista etnico nel senso che i bianchi cattolici hanno un certo tipo di vocazione elettorale per il Partito Repubblicano, mentre l’altra grande percentuale di cattolici non bianchi, gli ispanici, hanno un’inclinazione a votare Partito Democratico. E questo non avviene da oggi, ma è una cosa che abbiamo registrato nel corso delle ultime elezioni in modo esponenziale nel momento in cui la maggioranza bianca si sente in un certo qual modo sfidata dal gruppo etnico ispanico che è in ascesa, in percentuale, rispetto allo zoccolo duro bianco conservatore.
E poi ci sono gli evangelici, anch’esso parte integrante dello zoccolo duro del voto conservatore, che approva le politiche trumpiane, in forte opposizione a Papa Francesco e alle sue aperture…
Assolutamente sì. Gli evangelici quando vanno a votare non sono certamente divisi. Stiamo parlando di una maggioranza schiacciante che vota per i Repubblicani. Dobbiamo anche tenere in considerazione che lo scontro cui stiamo assistendo in queste ore, in questi giorni, non appare per nulla nuovo rispetto nel rapporto tra questo Papa e l’Amministrazione statunitense, in particolare, oserei dire, il Partito Repubblicano. Fin dall’insediamento di Papa Francesco, c’è stata tutta una serie di critiche per le cui il Pontefice, circa un anno fa, si era addirittura detto onorato di ricevere attacchi da parte degli americani.
Senza dimenticare le critiche del Pontefice al populismo, alla cattiva politica che rifiuta il dialogo multilaterale come strumento di pace, discrimina, si rifiuta di gestire fenomeni epocali come l’immigrazione o i cambiamenti climatici. Molte, dunque, le questioni che hanno fatto emergere divergenze tra Francesco e Trump. «Mi sembra che usare l’argomento» della libertà religiosa e quello dell’accordo sulla nomina dei vescovi in Cina non «sia la cosa più opportuna, se quello che si vuole ottenere è il consenso degli elettori» avrebbe dichiarato il Segretario di Stato Vaticano, il Cardinale Pietro Parolin. In quest’ottica, la richiesta, peraltro ‘irrituale’, così a ridosso di elezioni, di un’udienza di un esponente di spicco dell’Amministrazione americana, sembra quindi voler sottintendere la volontà del Presidente di consolidare il voto cattolico che potrebbe divenire ago della bilancia decisivo in alcuni ‘swing State’. Condivide?
Assolutamente sì. Non sarebbe decisivo solo in alcuni Stati del Midwest come Illinois, Indiana o Ohio, ma anche la stessa Florida, proprio per il motivo che si diceva prima: questa divisione tra i cattolici ispanici che tendono verso i Democratici e i cattolici bianchi che tendono più verso i Repubblicani, chiaramente la Florida che è ‘swing State’ potrebbe tornare decisiva come nelle elezioni di vent’anni fa. Da questo punto di vista, lo sforzo che sta facendo Trump è quello di raccogliere quanti più voti possibili da un bacino che comunque, per diverse ragioni, non è eccessivamente vicino al suo modo di porsi, ma, d’altro canto, è una manovra che non trova sola corrispondenza a Roma, ma, se pensiamo anche alla recente nomina alla Corte Suprema di Amy Coney Barrett, chiaramente va incontro a quell’obiettivo.
In quest’ottica, il fatto che Biden sia un cattolico spinge ancora di più Trump su questo sentiero?
Certo, assolutamente. Siamo di fronte al tentativo di sottrarre voti a quel bacino cui Biden, con la sua testimonianza, si rivolge.
Veniamo al dossier spinoso riguardante la Cina. Di fatti, le tensioni, sotto traccia (nemmeno poi tanto) fino ad una settimana fa, sono aumentate in seguito ad un intervento firmato dal Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, sulla rivista dei cattolici neoconservatori ‘First Things’, che invocava il non rinnovo dell’accordo provvisorio, peraltro segreto, tra Cina e Vaticano sulla nomina dei vescovi, pena, a detta del capo della diplomazia USA, la perdita di ‘autorità morale del Papa’. Anche nelle ultime ore Pompeo ha rincarato la dose esortando il Pontefice ad avere «coraggio contro le persecuzioni religiose», in particolare nei confronti di Pechino, sottolineando come «in nessun luogo la libertà religiosa è sotto attacco più che in Cina» e che «gli Stati Uniti fanno la loro parte nel parlare in nome delle vittime della repressione religiosa, possiamo fare di più, ma lavoriamo duramente per gettare una luce sugli abusi, punire chi è responsabile e possiamo incoraggiare altri ad unirsi a noi. Ma per quanto le nazioni possano fare alla fine i nostri sforzi sono limitati dalla realtà della politica mondiale gli Stati possono a volte fare compromessi per far avanzare buoni fini, i leader vanno e vengono e le priorità cambiano. Ma la Chiesa è in una posizione differente».Alla Santa Sede devono essere apparsi come tentate interferenze nelle proprie decisioni sovrane?
A differenza degli anni ‘80 quando l’obiettivo comune era il comunismo e l’Unione Sovietica, qui ci troviamo di fronte al tentativo americano di aumentare la pressione strategica, economica ed anche morale sulla Cina, ricorrendo a tutte le armi che hanno a disposizione gli Stati Uniti. Dall’altra parte, c’è un’entità sovrana, la Santa Sede, che, in questa fase ha adottato nei confronti di Pechino un’agenda non ideologica, non basata, a livello di ‘public diplomacy, sul rispetto dei diritti umani con dichiarazioni roboanti.
«Non mi avete sentito pronunciare la parola Cina? Non mi avete sentito pronunciare nessun nome di nessun Paese», ha reagito oggi Monsignor Gallagher, chiarendo che «questa è la prassi della diplomazia vaticana».
Una diplomazia vaticana, quella di Francesco, che si fonda sulla ‘realpolitik’, cercando di avvicinare Pechino al dialogo attraverso il tentativo di non irritarla inutilmente visto che sappiamo quanto la Cina sia irritabile sulle questioni che riguardano la sua struttura interna. Qui si spiegano le omissioni di prese di posizione di Francesco su Hong Kong per non irritare inutilmente, a suo avviso, Pechino.
Omissioni che Pompeo ha rimproverato a Francesco anche in merito al ‘maltrattamento’ cinese della minoranza musulmana degli Uiguri.
Sì. Inoltre occorre tener presente che i cattolici non sono così pochi in Cina. Quindi l’obiettivo che ha Papa Francesco non è solo far rispettare i diritti umani tout court, ma anche tenere un’occhio particolare a questa minoranza cattolica che, sappiamo da decenni, fa fatica ad emergere e a professare la sua fede in libertà.
Difendere e promuovere la libertà religiosa – ha tenuto a precisare oggi, stizzito, Parolin – è un «segno distintivo della diplomazia della Santa Sede». Questo diritto, affiancato all’«inviolabile diritto alla vita», è il fondamento di tutti gli altri diritti umani. Quasi a rimandare al mittente (Pompeo) le esortazioni ricevute perché se c’è uno Stato che dedica le maggiori energie alla promozione della libertà religiosa, per motivi anche intuibili ed evidenti, è proprio quello del Vaticano.
Da questo punto di vista, l’accordo sulla nomina dei vescovi rispondeva proprio a questo requisito. La Santa Sede non ammette l’ingerenza di Stati sovrani in merito alla scelta delle nomine episcopali, ma, evidentemente, la Cina rappresenta un’eccezione di ‘realpolitik’ in quanto a metà strada tra le parti che permette alla Santa Sede, quantomeno, di avere voce in capitolo in una situazione dove, precedentemente, voce in capitolo non ne aveva.
Proprio riguardo all’accordo, si era già pronunciato poche settimane fa il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Pietro Parolin: «La nostra intenzione è che sia prolungato, che si continui ad adottarlo ad experimentum, come è stato fatto in questi primi due anni, in modo da verificarne ulteriormente l’utilità per la Chiesa in Cina», auspicando la medesima volontà da parte cinese «anche se questi primi risultati non sono stati eclatanti, mi pare che si è segnata una direzione che vale la pena di continuare». «In ogni epoca storica», aveva poi rimarcato il numero uno della diplomazia vaticana, «dobbiamo cercare tutti gli spazi e tutte le possibilità che ci sono offerti anche nei confronti di questo grande Paese per collaborare insieme» e con la Cina, aveva tenuto a precisare, «il nostro interesse attuale è far sì che la Chiesa possa vivere una vita normale che per la Chiesa cattolica è anche avere relazioni con la Santa Sede e col Papa, e di cercare che ci sia unità nella Chiesa». In seguito, in un editoriale pubblicato in prima pagina sull’Osservatore Romano, il direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione del Vaticano Andrea Tornielli, aveva confermato l’intenzione della Santa Sede di rinnovare l’accordo, chiarendo tuttavia che l’accordo «non è mai stato meramente diplomatico e men che meno politico, ma è sempre stato genuinamente pastorale il suo fine è di permettere ai fedeli cattolici di avere vescovi che siano in piena comunione con il Successore di Pietro e allo stesso tempo siano riconosciuti dalle autorità della Repubblica Popolare Cinese». Cosa temono allora gli Stati Uniti? Che l’accordo finisca per legittimare Pechino, togliendo spazi di manovra a Washington?
Il rischio è legittimare un certo tipo di atteggiamento del regime e quindi, in qualche modo, rafforzare la posizione di prestigio della Cina sulla scena internazionale e, di converso, anche all’interno degli Stati Uniti poiché, chiaramente, ciò che fa la Santa Sede sulla scena internazionale, ha un riflesso all’interno degli Stati dove la componente cattolica è forte. E non è un caso che la Santa Sede sia un’ente a vocazione universale e, nonostante le sue dimensioni territoriali estremamente ridotte, l’autorità morale che può esercitare è estremamente elevata. Da qui la critica di Pompeo e la reazione irritata della Santa Sede nel momento in cui si va a mettere in dubbio la fonte della sua autorità nella scena internazionale.
«Vent’anni fa Giovanni Paolo II canonizzò 87 credenti cinesi e 33 missionari europei uccisi prima che in Cina l’attuale regime comunista prendesse il potere. All’epoca disse: “la Chiesa intende semplicemente riconoscere che quei martiri sono un esempio di coraggio e coerenza per tutti noi, e che essi onorano il nobile popolo cinese”», ha detto Mike Pompeo. Perché paragonare San Giovanni Paolo II all’attuale Pontefice? Per dividere il mondo cattolico e vaticano, indebolendo l’azione diplomatica di Francesco?
Non credo ci sia tanto l’obiettivo di spaccare il mondo cattolico. Quello che sta facendo adesso, in tempo di elezioni, variabile da non dimenticare, è quello di cercare di mostrare gli Stati Uniti come forza morale sulla scena internazionale, cercando di ottenere l’assenso o, quantomeno, il sostegno della Santa Sede nel ribadire la correttezza della propria posizione. Quello che non sta riuscendo a Pompeo è tirare il Papa per la giacchetta: non è il primo, tantomeno l’ultimo, sia per ragioni interne sia per ragioni internazionali, ma una costante fin dall’ascesa di questo Papa è che il tentativo di trascinarlo in contese geopolitiche, sia da una parte che dall’altra, non ha sortito particolari effetti. Il Papa sta perseguendo una propria agenda, con solide basi. Il fatto che possa anche non piacere è una delle motivazioni per cui anche all’interno del Vaticano ci siano differenti opinioni, ma chiunque sia il Papa, la Santa Sede ha sempre esercitato un’autorità morale e politica riconosciutagli da tutte le potenze, non solo cristiane.
Come si arriva a questo scontro, uno dei più forti da quando, nel 1984, Stati Uniti e Santa Sede hanno stabilito per la prima volta relazioni diplomatiche piene quando ai vertici c’erano rispettivamente Ronald Reagan e Giovanni Paolo II? E in questo cambio di registro, quanto ha contato e conta l’origine sudamericana del Pontefice, più recalcitrante verso le alleanze tradizionali, con uno sguardo più ampio sul mondo?
Due fattori sicuramente: innanzitutto il contesto internazionale, non più in tempo di Guerra Fredda, all’interno di una lotta tra due ideologie contrapposte. Benché questa Amministrazione americana stia cavalcando il discorso di una ‘Nuova Guerra Fredda, essa non ha più la portata di quello con l’Unione Sovietica. E poi è altrettanto evidente il background personale dei due Pontefici: da una parte un Papa polacco con solidi legami con Solidarnosc, il sindacato cattolico, la presenza sovietica come una minaccia politica e morale per il futuro del proprio Paese, ma anche del continente europeo. Regime sovietico, tra l’altro, che vedeva nel clero un nemico. Dall’altra un Papa argentino, con un background culturale con venature anti-yankee, che vede nel ‘Colosso del Nord’ se non una minaccia, una sfida per il Sudamerica per affermarsi nello scenario internazionale. Questi due fattori contribuiscono ad un cambio di registro e, in parte, di agenda, benché la Santa Sede rimanga flessibile e consapevole delle necessità della ‘realpolitik’. Per esempio su Cuba, Stati Uniti e Santa Sede hanno collaborato e, in Venezuela, Washington vede nel Vaticano un attore risolutore. In altri scenari, come quello asiatico, soprattutto in un momento elettorale come questo, la tentazione di tirare il Papa per la giacchetta è più forte.
Le due diverse agende, ciascuna con le sue priorità, finiscono, dunque, per creare tensioni tra Washington e Santa Sede?
Sono due agende di due Stati che a volte convergono, a volte divergono.
Ciò sarebbe avvenuto a prescindere da chi oggi si trova ai vertici?
Io vedrei sicuramente influente la cosiddetta ‘agenzia umana’, ma se pensiamo all’esempio di Reagan e Giovanni Paolo II, quest’ultimo si oppose alla Prima Guerra del Golfo, nonostante fosse legittimata dalle Nazioni Unite, in risposta ad un’aggressione. L’aumento delle tensioni negli ultimi dieci anni ha coinciso sì con l’ascesa al soglio pontificio di Papa Francesco, ma anche con una polarizzazione sempre più accentuata negli Stati Uniti che porta a dividere gli stessi cattolici. Da questo punto di vista, abbiamo più i livelli che portano le tensioni ad aumentare. Poi chiaramente il ruolo della Cina che sembra essere diventato molto importante e che negli ultimi dieci mesi è diventato il nemico per gli Stati Uniti di Trump in cerca di un contraltare per rafforzarsi sulla scena interna, diviene influente e dirimente nei rapporti tra Washington e Roma.
È una coincidenza che Monsignor Viganò, che da qualche anno si rivolge accuse pesanti a Francesco, utilizzi, abbia più o meno le stesse posizioni di Mike Pompeo?
Non è una coincidenza nel senso che, non è un segreto, nella Chiesa vada avanti questo scontro interno tra conservatori e progressisti. E questo va ad affiancare le critiche mosse dalla destra conservatrice americana. Teniamo conto che la Chiesa Cattolica statunitense ha una grossa disponibilità di risorse nel mondo cattolico, quindi stiamo parlando di una variabile molta influenza nella Chiesa. Per questo, Francesco si deve guardare le spalle anche all’interno della Santa Sede.
Alla vigilia della visita in Vaticano del Segretario di Stato americano, anche l’ex vescovo di Hong Kong, Joseph Zen ha criticato aspramente le linee dettate dal Vaticano ai cattolici cinesi dopo l’intesa con Pechino sulla nomina dei vescovi, da lui definito «un documento in cui il Vaticano incoraggia la gente ad entrare nella Chiesa indipendente, che persino Papa Francesco ha ammesso essere – in una udienza privata – oggettivamente scismatica», dicendosi preoccupato che «la Chiesa clandestina per anni e anni ha sofferto ogni forma di mali solo perché rimasta fedele alla Chiesa Cattolica. Oggi riceve l’invito ad arrendersi». Dopo aver esortato Francesco a nominare un nuovo vescovo per Hong Kong, Zen ha espresso parole di sostegno a Mike Pompeo, presentandolo come un «credente convinto» che nel suo articolo recente su ‘First Things’, in cui criticava le aperture della Santa Sede a Pechino, «si è fortemente esposto per la difesa della libertà religiosa di ognuno, specialmente in Cina. Spero che possa ottenere qualche cosa perché una vera libertà religiosa è qualcosa di importante. Bene che Pompeo giri il mondo predicando questo verbo e spero che a Roma riceva una buona accoglienza». Il rifiuto di Francesco di concedere udienza a Zen è stato più dettato dalla volontà di non cedere alla linea americana e conservatrice o da quella di non irritare la Cina?
Credo che Francesco non voglia, in questo momento, divenire oggetto della contesa elettorale e che le cose vadano avanti senza la sua ingerenza, così da non incorrere in passi falsi o in critiche per interferenza nelle elezioni americane. Dunque tutto il conflitto attuale della Santa Sede con Pompeo credo sia da ricondurre al tentativo di Francesco di rimanere neutrale nella disputa in un Paese che, nonostante gli attriti, rimane comunque al centro delle attenzioni vaticane.
Se l’obiettivo è disturbare, indebolire il dialogo tra la Santa Sede e la Cina, l’ atteggiamento così critico e aggressivo di Pompeo non rischia di essere contro-producente?
Se consideriamo chi è attualmente il Pontefice, senza dubbio. Sul lungo periodo rimane il punto di domanda nel senso che dovremmo prima capire se questo non sia il tentativo di giocare una carta estemporanea in relazione alle elezioni per rafforzare la posizione interna oppure se sia una strategia di lungo periodo di creare una coalizione anti-cinese nella quale coinvolgere l’autorità morale della Chiesa. Da questo punto di vista, credo sia molto difficile che la Santa Sede possa subordinare i propri obiettivi sulla Cina all’agenda statunitense: questo perché vorrebbe dire rinunciare alla propria, che diverge da quella americana, per obiettivi e modalità.
Lo iato potrebbe trasformarsi nell’ennesimo colpo sferrato alla già precaria unità dell’Occidente?
Se guardiamo alle politiche verso la Cina, è difficile intravedere un’unità di azione degli ultimi anni. Quello tra Stati Uniti e Santa Sede potrebbe fare la differenza nella gestione della questione cinese tra una parte dell’Atlantico e l’altra: non dimentichiamo le polemiche per l’accordo per le Vie della Seta o quelle per l’accordo sugli investimenti tra UE e Cina. Sicuramente si tratta della prima grande frattura nell’era del COVID-19, laddove negli ultimi mesi avevamo assistito ad un allineamento, non tanto nella retorica quanto nella sostanza, tra le due sponde dell’Atlantico che hanno chiesto a Pechino di rendere conto della fase di diffusione del virus. Ricordiamo il caso della lettera di alcuni ambasciatori europei inviata al ‘Global Mail’, censurata laddove parlava della diffusione del virus che veniva indicato come nato in Cina. E questo era stato oggetto di attacco da una parte della stampa statunitense.
Ritiene qui che quella tra Stati Uniti e Santa Sede non sarà rottura? E cosa da aspettarsi dal prossimo futuro?
Bisogna tenere presente che gli Stati Uniti, specialmente in questa fase, stanno guardando al futuro in un’ottica di breve periodo, mentre la Santa Sede, per sua natura, guarda all’avvenire con un’ottica di lungo periodo. Siamo di fronte ad una frattura che è sicuramente ricomponibile e, di sicuro, entrambi gli Stati hanno interesse ad avere una Cina ‘azionista responsabile’ del Sistema Internazionale. Quello che cambia in questa fase sono gli obiettivi tattici e gli strumenti per perseguirli: la Santa Sede predilige il dialogo, gli Stati Uniti preferiscono l’aumento della pressione.
Decisivo sarà l’esito delle elezioni presidenziali americane del 3 Novembre prossimo…
Secondo me, in parte. Non ho la sfera di cristallo, ma credo che nel breve-medio periodo la palla sia nel campo cinese.
E con Joe Biden alla Casa Bianca, cosa cambierebbe nel rapporto tra Stati Uniti e Vaticano?
Non credo cambierebbe nulla nella relazione tra Vaticano e Stati Uniti. Quello che cambierebbe sarebbe il tentativo di tirare il Papa per la ‘giacchetta’ che, con Biden, dal profilo molto più istituzionale come si è visto in parte nel dibattito di questa notte, sarebbe sostituito da un atteggiamento più prudente, non sotto i riflettori che è una delle caratteristiche della Santa Sede.
A proposito di Biden e Trump, come Le è sembrato il primo dibattito tra i candidati andato in onda questa notte?
Mi è sembrato un dibattito che rispecchia la situazione in cui versano gli Stati Uniti, di caos, di incertezza, senza una guida carismatica che sia anche istituzionalmente di peso. Dovendo fare una previsione sulle elezioni, di sicuro non vincerà Biden, al massimo le perderà Trump.
Nei rapporti tra Santa Sede e Stati Uniti, non è irrituale che un Segretario di Stato pieghi la diplomazia americana agli interessi del Presidente di turno che si candida ad un secondo mandato?
In realtà non mi sovviene, soprattutto nelle relazioni con un’istituzione importante come la Santa Sede, anche perché gli interessi vitali americani non cambiano da un Presidente all’altro. La politica estera non ha le stesse priorità di quella interna. Ecco perché il Segretario di Stato dovrebbe essere quanto più istituzionale possibile, anche nel caso dovesse lasciare il testimone ad un successore di un altro colore. Da questo punto di vista, l’atteggiamento di Pompeo non è rituale, ma credo che l’eco che sta avendo dovrebbe essere ridimensionata: stiamo parlando di una situazione per cui pochi mesi fa Francesco ha incontrato il Vicepresidente Pence. Quindi non certo un muro contro muro.
D’altra parte, «il Papa aveva detto chiaramente che non si ricevono personalità politiche durante la campagna elettorale, d’altra parte un segretario di Stato incontra il suo omologo, appunto il segretario di Stato», ha chiarito il Cardinale Pietro Parolin, che poco prima aveva manifestato «sorpresa si per questa uscita che non ci aspettavamo anche se conosciamo bene da molto tempo la posizione di Trump e del segretario Pompeo in particolare. Sorpresa perché era già in previsione una visita a Roma in cui Pompeo avrebbe incontrato dei vertici della Santa Sede, e ci sembrava quella la sede più opportuna e più adatta per parlare di queste cose e lo faremo: ci incontreremo domani e ci sarà modo di confrontarci su queste tematiche». Toccherà quindi al Segretario di Stato Vaticano tentare di smorzare i toni, rendere il dialogo schietto, ma non ai limiti dello scontro?
Sicuramente è la persona più alta in grado con il compito di ricucire con la diplomazia americana. Ma anche qui non eccederei nello stimare la portata del dissenso, anche perché nel corso degli ultimi anni, sono state diverse le occasioni in cui a livello di dichiarazioni ci sono stati scontri, ma poi quando si è trattato di collaborare, la cooperazione pragmatica c’è stata comunque.
Questo attrito più marcato tra Santa Sede e Washington crea imbarazzo per gli alleati USA, sopratutto europei, con forti legami con il Vaticano?
Non credo che questo atteggiamento americano possa intaccare le relazioni tra gli Stati Uniti e questi Paesi. Se parliamo dei Paesi europei, nella fattispecie, questi sono più preoccupato per altre questioni in relazione alla posizione americana sulla scena internazionale. Da questo punto di vista, al momento, tenderei a ricondurre le tensioni attuali al livello bilaterale, non escludendo, che nel lungo periodo, la frattura possa approfondirsi.