La proposta di Donald Trump di ‘pulire’ Gaza e reinsediare la sua popolazione palestinese in Giordania e in Egitto non è semplicemente un’altra osservazione fuori mano nel suo lungo repertorio di dichiarazioni incendiarie. È un progetto politico-economico per la cancellazione etnica, una cospirazione culturale per privare i palestinesi della loro patria e, soprattutto, un palese tentativo di sovvertire il loro diritto all’autodeterminazione. La sua retorica, formulata nel linguaggio della convenienza, espone le basi ideologiche di un più ampio progetto neocoloniale, uno in cui il capitale globale, gli interessi imperiali e le ambizioni coloniali dei coloni convergono per garantire che il popolo palestinese rimanga apolidi, privo di potere e perennemente sfollato.
Un’eredità coloniale di spostamento
Le radici della proposta di Trump risiedono in un modello storico di espulsioni forzate e reinsediamento, risalente al “Nakba” del 1948, quando le milizie sioniste espulsero oltre 750.000 palestinesi dalle loro case. Questo non è stato un evento isolato, ma parte di una strategia duratura per creare uno stato a maggioranza ebraica, neutralizzando permanentemente le rivendicazioni palestinesi alla sovranità. Da allora, l’espansionismo israeliano, dagli insediamenti illegali in Cisgiordania all’assedio in corso di Gaza, è stato sistematicamente mirato a frammentare la continuità territoriale palestinese, rendendo lo stato sempre più insostenibile.
Lo schema di Gaza di Trump è una reincarnazione di questi sforzi passati. Si allinea con la strategia israeliana di lunga data di ingegneria demografica: spingere i palestinesi nelle terre arabe vicine in modo che la loro lotta nazionale si dissolga nelle crisi dei rifugiati della regione più ampia. Sostenendo lo spostamento forzato con il pretesto di aiuti umanitari, Trump sta semplicemente riconfezionando un progetto coloniale-coloni che è stato in divenire per decenni.
Perché la Giordania e l’Egitto hanno respinto lo schema
Il rifiuto assoluto della proposta di Trump da parte di Giordania ed Egitto è più di un semplice rimprovero politico; è una difesa contro la distruzione dell’autodeterminazione palestinese. Entrambi i paesi riconoscono che assorbire milioni di rifugiati di Gaza li trasformerebbe in strumenti degli obiettivi espansionisti di Israele, assolvendo efficacemente Israele dalle sue responsabilità legali e morali nei confronti del popolo palestinese.
Giordania: pericolo demografico e disordini politici
La Giordania ospita già oltre 2,3 milioni di rifugiati palestinesi registrati. Accettare di più altererebbe in modo permanente il suo equilibrio demografico, minacciando la delicata presa sul potere della monarchia hashemita. Il re Abdullah II, diffidente dei disordini interni, capisce che qualsiasi afflusso di massa di sfollati Gaza approfondirebbe le disuguaglianze economiche, esacerberebbe le tensioni nazionaliste e alimenterebbe l’opposizione al suo governo. Inoltre, la Giordania ha sempre sostenuto il diritto di ritorno per i rifugiati palestinesi; sostenere il piano di Trump significherebbe concedere ai progetti israeliani che cercano di cancellare del tutto questo diritto.
Egitto: un incubo geopolitico e di sicurezza
L’Egitto ha una propria serie di imperativi strategici. Il presidente Abdel Fattah el-Sissi ha ripetutamente avvertito che il trasferimento degli abitanti di Gaza nella penisola del Sinai trasformerebbe la regione in una zona di conflitto volatile, estendendo efficacemente la guerra di Israele oltre i suoi confini. Il Sinai è stato a lungo afflitto da insurrezioni e un afflusso di palestinesi sfollati non solo avrebbe aumentato l’instabilità, ma avrebbe anche trascinato l’Egitto in un ciclo infinito di scontri militari. Rifiutando il piano, il Cairo non sta solo preservando la sua sovranità territoriale, ma sta anche impedendo a Israele di esternalizzare la sua crisi di occupazione sui suoi vicini.
La macchina economica dell’espropriamenta ai danni dei palestinesi
Al centro della proposta di Trump c’è un calcolo economico fondamentale: la continua sottomissione dei palestinesi serve gli interessi sia di Israele che del capitale globale. L’occupazione israeliana non è solo un progetto militare; è un’impresa economica. La distruzione di Gaza e lo spostamento della sua popolazione aprono strade per le società israeliane per impadronirsi della terra, sfruttare le risorse e integrare il territorio nel più ampio quadro economico di Israele.
Un’analisi materialista critica rivela che la soppressione dell’autodeterminazione palestinese è profondamente legata agli interessi del capitalismo globale. L’economia high-tech di Israele prospera su contratti militari, tecnologia di sorveglianza ed esportazioni di armi, il tutto rafforzato dal perpetuo stato di guerra a Gaza. L’assedio di Gaza ha trasformato la striscia in un mercato vincolato, in cui le imprese israeliane traggono profitto dalla dipendenza umanitaria, impedendo al contempo qualsiasi forma di sviluppo economico indipendente. Il piano di Trump, eliminando la presenza palestinese, accelererebbe questo processo, trasformando Gaza in un esperimento neoliberista in cui la capitale israeliana e occidentale detta il suo destino.
La Cospirazione Culturale Contro L’Identità Palestinese
Al di là delle dimensioni politiche ed economiche, il piano di Trump alimenta anche una più ampia cancellazione culturale dell’identità palestinese. Per decenni, le narrazioni israeliane e occidentali hanno inquadrato i palestinesi come rifugiati o terroristi, mai come un popolo con una legittima rivendicazione della loro terra. Il linguaggio stesso usato per descrivere il conflitto, dai “territori contesi” alle “problemi di sicurezza”, spoglia sistematicamente i palestinesi della loro agenzia.
La retorica di Trump fa eco a questa disumanizzazione. Il suo appello a “ripulire” Gaza non è solo un discorso politico; è un’arma ideologica che cerca di rendere invisibili i palestinesi. Sostenendo il loro reinsediamento nei paesi arabi, rafforza il mito sionista secondo cui i palestinesi non sono indigeni della terra, ma semplicemente un altro gruppo di arabi sfollati che possono essere trasferiti a loro scomando. Questa è una pericolosa cospirazione culturale, che è stata usata per giustificare i sequestri di terre, l’aggressione militare e le politiche di apartheid.
Il piano di Trump non è solo un assalto ai diritti palestinesi; è un caso di prova per una dottrina autoritaria più ampia. Le sue politiche si allineano con una crescente tendenza globale in cui i leader di destra armano il potere statale per sopprimere le rivendicazioni indigene, che si tratti delle politiche di Modi in Kashmir o del trattamento di Bolsonaro delle tribù amazzoniche. La negazione dell’autodeterminazione palestinese fa parte di una logica imperiale più ampia: che i potenti dettano la storia mentre gli oppressi vengono rimossi, cancellati o assimilati con la forza.
Una revisione materialista ci ricorda che la lotta per l’autodeterminazione palestinese non riguarda solo la terra; si tratta di resistere a un sistema globale che prospera sullo sfruttamento, sullo sfollamento e sul capitalismo militarizzato. La lotta palestinese, come tutti i movimenti anticoloniali, è fondamentalmente una lotta contro le strutture di potere imperiali che cercano di ridurre le persone a pedi economiche e politiche.
Dalla lente di un libro di gioco realistico, una critica politico-economica in sintonia con le asimmetrie di potere, la lotta palestinese per l’autodeterminazione appare meno una disputa territoriale che una rivolta contro un ordine mondiale che commercia nello spostamento umano, nel profitto estrattivo e nell’aritmetica bruta della forza. Questa resistenza si allinea con i movimenti anticoloniali di tutto il mondo, che affrontano non solo gli occupanti ma l’architettura stessa dell’egemonia: sistemi che convertono le persone in lavoro sacrificabile, le nazioni in stati clienti e la sovranità in un privilegio riservato ai potenti.
La lotta qui riguarda tanto il suolo quanto l’illusione che l’arco della storia si pieghi inevitabilmente verso l’impero, o che le vite possano essere valutate nel libro mastro del capitalismo militarizzato.
Il percorso da seguire: resistenza contro la pulizia etnica
Il rifiuto di Giordania ed Egitto di accogliere la proposta di Trump è una significativa vittoria diplomatica, ma non è abbastanza. La comunità internazionale deve resistere attivamente al progetto israelo-americano di pulizia etnica in Gaza. Questo significa:
- Rifiutare gli schemi di reinsediamento: lo sfollamento forzato dei palestinesi deve essere riconosciuto come un crimine di guerra, non una “soluzione”. La comunità internazionale deve spingere per il diritto di ritorno, come sancito nella risoluzione 194 delle Nazioni Unite.
- Sanzioni economiche su Israele: finché le società israeliane trarranno profitto dalla sofferenza palestinese, il capitale globale continuerà ad alimentare l’occupazione. Sanzioni mirate e boicottaggi devono far parte della resistenza.
- Riformulare la narrazione: la lotta palestinese non è una crisi umanitaria; è una lotta anticoloniale. Il mondo deve riconoscere che l’autodeterminazione non è un privilegio ma un diritto fondamentale.
Il piano fantasmagorico di Trump per Gaza è ben più di una semplice spavalderia politica. Fa parte di una più grande cospirazione imperiale per cancellare l’esistenza palestinese. Ma come la storia ha dimostrato, nessuna quantità di spostamento, repressione o cancellazione culturale può estinguere le fiamme della resistenza. Il popolo palestinese non è un rifugiato in attesa; è una nazione che lotta per la liberazione. Il mondo deve stare con loro.