Non è difficile prevedere che l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca farà sentire i suoi effetti anche a livello globale. In Europa, l’eventualità era largamente temuta, sia per le sue ricadute sui conflitti in corso (primo fra tutti quello in Ucraina), sia per il possibile impatto sui delicati equilibri politici del continente, visti anche quelli che sono stati i risultati del voto per il Parlamento europeo del giugno 2024. In Italia, il ritorno di ‘The Donald’ alla Casa Bianca si rifletterà inoltre, con ogni probabilità, sul difficile rapporto fra gli alleati dell’attuale governo, in particolare la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (che prima e dopo il voto si è sostanzialmente attenuta a una linea di ‘imparzialità istituzionale’), e il vicepremier Matteo Salvini che, al contrario, non ha mai nascosto di guardare con favore al successo del movimento MAGA e del suo leader. Nonostante l’unità di facciata, il dialogo fra le due anime della coalizione è stato spesso problematico e oggi gli esiti del voto americano rischiano di rilanciare una rivalità che i risultati deludenti della Lega nel voto europeo parevano avere contenuto.

Ovviamente, non sono queste le sole possibili ricadute del voto statunitense. Se, su tutta una serie di questioni, la politica estera della nuova amministrazione resta in larga misura da decifrare, appare abbastanza chiaro il fatto che i rapporti fra Stati Uniti ed Europa siano destinati ad andare incontro a un periodo difficile. La minacciata introduzione di un dazio fra il 10 e il 20% sulle importazioni dall’Europa, per esempio, rischia di avere ricadute pesanti sia sul piano economico sia – soprattutto – su quello politico e di approfondire la differenza che già esistono fra i membri. Per l’Italia è una sfida importante e potenzialmente rischiosa. La debolezza del Paese a livello economico e la sua sensibilità alle fluttuazioni dei mercati, unite ai rapporti non sempre agevoli con i membri e con le istituzioni comuni, la espongono in modo particolare a queste dinamiche; ancora di più se si considera come il rapporto con l’alleato americano rappresenti da un tratto di fondo della politica estera nazionale e come questo rapporto sia stato spesso usato da Roma come una sorta di contrappeso nei suoi intercorsi con i partner europei.

Non è un problema che riguarda solo il governo attuale. Insieme a quello europeo e a quello mediterraneo, il ‘cerchio’ atlantico è da sempre uno dei tre sui quali si articola la politica estera dell’Italia repubblicana e tutti gli esecutivi si sono trovati – prima o poi, in un modo o nell’altro – di fronte alla necessità di bilanciare le diverse dimensioni, se del caso giocandone una contro l’altra. Ciò che differenzia la situazione attuale è, da una parte, la diversa posizione del governo italiano rispetto ai suoi interlocutori europei, dall’altra l’atteggiamento – molto diverso rispetto al passato – dell’amministrazione statunitense. Come ha dimostrato nel corso del suo primo mandato, Trump non sembra avere alcuna intenzione di giocare il ruolo equilibratore che hanno svolto i suoi predecessori, soprattutto se ciò dovesse essere andare a vantaggio di una realtà come la UE verso cui non ha mai nascosto la sua ostilità. Al contrario, sfruttare le crepe presenti nell’edificio europeo è stato uno dei tratti di fondo della strategia della Casa Bianca, in linea con il favore che Trump ha sempre espresso per i rapporti bilaterali.

In questo senso, lo spazio di manovra a disposizione dell’Italia appare limitato. La scelta di Meloni di proporsi come un possibile interlocutore privilegiato di Washington nei suoi rapporti con l’Europa potrebbe fornire una via d’uscita, con il vantaggio aggiuntivo di rafforzare la posizione della Presidente del Consiglio rispetto ai suoi avversari interni. Non è, però, una scelta priva di rischi. Da una parte, l’eccessiva vicinanza alle posizioni statunitensi potrebbe spingere l’Italia ai margini dei processi decisionali europei in un momento in cui gli equilibri interni al continente stanno attraversano una fase molto delicata, dall’altra potrebbe scontarsi con le ambizioni simili che nutrono altri paesi (per esempio la Polonia del Primo ministro Donald Tusk), che Washington potrebbe vedere come interlocutori più affidabili. Vi è, infine, l’interrogativo di fondo rispetto a quanto, effettivamente, la nuova amministrazione voglia interfacciarsi con un interlocutore privilegiato e quanto, piuttosto, non intende portare avanti ‘in autonomia’ una strategia di divide et impera simile a quella perseguita nel corso del suo primo mandato.

Di Gianluca Pastori

Gianluca Pastori è Professore associato nella Facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore. Nella sede di Milano dell’Ateneo, insegna Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa e International History; in quella di Brescia, Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali.