Tutte le parti in gioco nella crisi in Ucraina richiamo il rispetto di Minsk-2, salvo poi non fare nulla o quasi per iniziare a metterlo a terra. Una motivazione sarebbe il fatto che è altamente problematico, secondo altri, sarebbe già inapplicabile perchè superato dai fatti sul terreno

La risposta scritta del governo russo alla risposta americana, ricevuta da Mosca circa 3 settimane fa, sulla bozza di trattato russo tra la Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America sulle garanzie di sicurezza che Mosca aveva avanzato, è stata l’occasione per la Russia di richiama all’attuazione dell’accordo di Minsk. Per altro, nelle settimane scorse, il portavoce del Cremlino, Dmitrii Peskov, che aveva già chiesto la piena attuazione degli accordi di Minsk. E, sempre ieri, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha convocato una riunione per discutere l’attuazione dell’accordo. «Questi accordi, che sono stati negoziati nel 2014 e nel 2015 e firmati dalla Russia, rimangono la base per il processo di pace per risolvere il conflitto nell’Ucraina orientale», ha affermato il segretario di Stato americano Antony Blinken nelle sue osservazioni al Consiglio -tutte incentrate su come la Russia sta gettando le basi per giustificare l’inizio di una guerra e prepararsi a lanciare un attacco contro l’Ucraina nei prossimi giorni.
Anche ucraini ed europei hanno ribadito il sostegno all’accordo. «Tutti hanno confermato oggi che abbiamo gli accordi di Minsk. Devono essere soddisfatti», ha detto il capo di stato maggiore ucraino Andriy Yermak, al termine dei colloqui del Normandia tra Russia, Francia e Germania.
Insomma, tutte le parti in gioco nella crisi in Ucraina richiamo il rispetto di tale accordo,salvo poi non fare nulla o quasi per iniziare a metterlo a terra. Infatti, l’ultimo incontro del gennaio 2022 tra le varie parti dell’accordo di Minsk II non ha prodotto risultati. Una motivazione sarebbe il fatto che è altamente problematico, anche per le profonde differenze di interpretazione tra Mosca e Kiev, secondo altri,sarebbe già inapplicabile perchè superato dai fatti sul terreno.

Di fatto l’attuazione dell’accordo sarebbe potenzialmente una ‘valvola di sfogo della crisi‘, come lo definiscono alcuni osservatori di Washington, non ‘la‘ soluzione alla crisi. Perchè nella crisi ucraina, l’Ucraina è solo una parte del problema, quella, per altro, oramai meno importante, quasi solo più un pretesto, la crisi vera è sulla sicurezza europea, o meglio ancora, sull’Europa dopo il post-Guerra Fredda. Resta il fatto che l’accordo di Minsk potrebbe essere l’inizio di soluzione di un pezzo di crisi.

Raggiunto nel 2015 nella capitale bielorussa, firmato il 12 febbraio 2015, il Protocollo di Minsk, in seguito noto come Minsk II -perché sostituiva un precedente tentativo fallito di un piano di pace- ha introdotto un cessate il fuoco definito ‘imperfetto‘, che ha cercato di fornire una tabella di marcia per porre fine al conflitto nell’Ucraina orientale, ma non ha mai fermato davvero i combattimenti.
Minsk II è stato firmato da rappresentanti di Russia, Ucraina, leader separatisti e Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Successivamente è stato approvato da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
«Questo accordo stabilisce una tabella di marcia in 12 punti come segue: garantire un cessate il fuoco bilaterale immediato; effettuare il decentramento del potere, consentendo l’autogoverno locale temporaneo nelle aree di Donetsk e Luhansk nell’Ucraina orientale in base a una legge sullo ‘status speciale’; liberare immediatamente tutti gli ostaggi e le persone detenute illegalmente; garantire il monitoraggio del confine ucraino-russo e di una zona di sicurezza; garantire lo svolgimento di elezioni locali anticipate a Donetsk e Luhansk; rimuovere i gruppi armati illegali, l’equipaggiamento militare e tutti i combattenti e mercenari dal territorio ucraino; approvare una legge contro il perseguimento e la punizione delle persone per determinati eventi nella regione di Donetsk e Luhansk», si legge nella presentazione del Protocollo.

Minsk II «è un groviglio di disposizioni contraddittorie e una sequenza contorta e contestata di azioni. L’incoerenza testuale riflette interpretazioni incompatibili di ciò che deve essere ottenuto e come. E al centro c’è un semplice problema: l’Ucraina vede Minsk-2 come un mezzo per ripristinare la propria sovranità, mala Russia lo vede come uno strumento con cui paralizzare la sovranità dell’Ucraina»,sostengono Duncan Allan e Kataryna Wolczuk del programma Russia ed Eurasia presso il think tank Chatham House. «O l’Ucraina è sovrana o non lo è. Non esiste una via di mezzo», affermano i due analisti. E definiscono questo come il ‘Minsk Enigma‘, il quale «è integrato nelle disposizioni politiche fondamentali di Minsk-2, che sono le elezioni e lo ‘status speciale’.

«Per l’Ucraina, gli accordi rappresentano un’umiliazione nazionale e, se attuati, richiederebbero una fondamentale riscrittura della legge fondativa del Paese», afferma William Pomeranz, direttore ad interim del Kennan Institute del Wilson Center, esperto di Russia, in particolare sul fronte del diritto internazionale. «La Costituzione del 1996 ha stabilito l’Ucraina come uno Stato unitario con una forma di governo altamente centralizzata. L’Ucraina ha intrapreso una significativa politica di decentramentoall’indomani della Rivoluzione della dignità del 2014, ma gli accordi di Minsk invitano Kiev non solo a riconoscere l’indipendenza di Donetsk e Luhansk all’interno del Paese, ma anche a conferire a queste due regioni il potere di veto su qualsiasi legislazione nazionale. Tale autorità significherebbe che la Russia potrebbe effettivamente ottenere il controllo sulla politica interna dell’Ucraina. Richiederebbe anche significativi emendamenti costituzionali a cui nessun politico nazionale ucraino vorrebbe apporre il proprio nome».

«Mentre il ruolo della Russia nell’armare i ribelli separatisti e nell’invio di forze di terra per sostenere i combattimenti è stato ampiamente documentato dai governi occidentali e dai giornalisti investigativi, Mosca continua a negare il suo coinvolgimento nel conflitto», annota Amy Mackinnon, giornalista di sicurezza nazionale e intelligence di ‘Foreign Policy‘, indicando questo come il problema fondamentale. «La cosa numero 1 è che la Russia si rifiuta di riconoscere di essere parte degli accordi di Minsk e di avere obblighi ai sensi degli accordi di Minsk, cosa che non ha mai adempiuto», ha detto Kurt Volker, inviato speciale degli Stati Uniti in Ucraina durante l’Amministrazione Trump, parlando con Mackinnon. «Nonostante sia uno dei firmatari dell’accordo, Mosca insiste sul fatto che spetta al governo ucraino e ai leader separatisti dell’est risolvere la situazione di stallo».
«L’accordo prevede elezioni nelle due regioni separatiste in conformità con la legge ucraina,ma non è chiaro come l’Ucraina applicherà queste regole poiché non controlla questo territorio», afferma William Pomeranz. In effetti, il fatto che l’accordo non indica la sequenza temporale in cui dovrebbero essere eseguiti i 12 punti previsti è l’ennesimo elemento ostativo. «Mosca ha insistito affinché le elezioni locali si tengano prima nelle regioni separatiste e che alle cosiddette Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk venga concessa l’autonomia politica. I funzionari ucraini temono che ciò rafforzerebbe l’influenza di Mosca sulla regione, minerebbe la sovranità del Paese e metterebbe in ginocchio le sue aspirazioni di aderire alla NATO o all’Unione Europea. Mosca ha seguito un modello simile in Georgia, dove ha inviato truppe nelle regioni separatiste dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia e ne ha riconosciuto l’indipendenza», afferma Mackinnon. L’Ucraina, al contrario, insiste per riguadagnare il pieno controllo sui suoi confini e per il ritiro dei combattenti stranieri prima che si tengano le elezioni nel Donbass. E vuole anche che le forze russe se ne vadano. La Russia, ovviamente, dice di non avere forze nelle aree controllate dai ribelli.

Lo status delle aree del Donbas in mano ai ribelli non è mai stato definito. Il punto di vista di Kiev è che la regione dovrebbe avere lo stesso tipo di autonomia delle altre regioni ucraine, all’interno di una struttura federale. Mosca indica il linguaggio nell’accordo di Minsk che fa riferimento allo «status speciale di alcune aree delle regioni di Donetsk e Luhansk» e lo interpreta come un permesso a queste regioni di avere le proprie forze di Polizia e il proprio sistema giudiziario, tra gli altri vantaggi.

La questione dello ‘status speciale’ per il DNR/LNR è molto controversa perché, «le richieste della Russia vanno ben oltre ogni ragionevole definizione di autonomia. Mosca vuole una versione estrema dell’autonomia e insiste che ciò sia scritto nella Costituzione ucraina, il che significa che dopo la reintegrazione formale in Ucraina questi mini-Stati sarebbero essenzialmente indipendenti da Kiev», affermano Duncan Allan e Kataryna Wolczuk. «Ciò incorporerebbe l’influenza russa nel sistema politico ucraino, compromettendo la sovranità dell’Ucraina dall’interno».

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«Qualsiasi mossa di Kiev per devolvere il potere alle regioni separatiste in questa fase sarebbe probabilmente profondamente impopolare e vista come una capitolazione a Mosca», afferma Amy Mackinnon. Qualsiasi governo ucraino che accetti di dare al Donbas uno status speciale potrebbe non sopravvivere a una reazione pubblica. «Nel 2015, tre agenti delle forze dell’ordine sono stati uccisi nella capitale quando sono scoppiati violenti disordini sulla proposta di legge che avrebbe concesso maggiore autonomia alla regione. Tali disordini andrebbero solo a vantaggio di Mosca». «Il vero obiettivo della Russia è utilizzare tali proteste per destabilizzare internamente l’Ucraina, per organizzare attacchi al governo e al sistema di comando e controllo militare utilizzando aggressori travestiti da manifestanti e per assassinare alti funzionari», ha scritto su ‘Politico‘ Oleksandr Danylyuk, ex consigliere speciale del capo del Foreign Intelligence Service ucraino. «Tale caos disorganizzerebbe le forze armate ucraine e giustificherebbe la sua invasione militare dell’Ucraina con la scusa di ristabilire l’ordine».

L’accordo, afferma William Pomeranz, «include alcune scelte difficili anche per la Russia(sebbene la Russia non sia specificamente menzionata negli accordi come parte in conflitto), ma non vi è alcuna indicazione che la Russia manterrà le sue promesse. In particolare, la Russia non mostra alcun segno che intenda concedere all’Ucraina il controllo su tutto il confine di quest’ultima con la Russia, come richiesto da Minsk II, o che intenda ritirare le sue armi e altro equipaggiamento militare dalla regione. Inoltre, chiaramente non ha intenzione di restituire la Crimea all’Ucraina. In effetti, gli emendamenti del 2020 alla Costituzione russa affermano che la Russia non può rinunciare a nessuno dei suoi territori, il che significa che qualsiasi accordo che coinvolga la Crimea è definitivamente fuori discussione». Non solo: i deputati della Duma hanno approvato una mozione presentata dal Partito Comunista russo che chiede al Cremlino di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk nell’Ucraina orientale. La mozione è stata approvata da 351 parlamentari (quindi anche da tutti quelli del Partito conservatore Russia Unita di Vladimir Putin) e solo 16 si sono opposti e uno si è astenuto. Secondo Pomeranz tale approvazione significa «la fine del processo di Minsk» se Putin decidesse per il riconoscimento.
«Mentre gli accordi di Minsk definiscono un processo teorico per risolvere il conflitto, tutte le principali concessioni sarebbero assunte dall’Ucraina, in particolare il sacrificio della sua sovranità e la sua futura esistenza come Stato integrato e unificato. Pertanto, gli Stati Uniti inviano segnali contrastanti quando chiedono l’attuazione degli accordi di Minsk pur restando saldi sul diritto dell’Ucraina di difendere la propria integrità territoriale».
Conclude William Pomeranz «nonostante le dichiarazioni di Russia e Stati Uniti che giurano fedeltà al processo di Minsk, le condizioni stabilite negli accordi di Minsk non sono più favorevoli alla risoluzione della crisi».