“Il Presidente russo ha ottenuto passi avanti verso un negoziato, ma faceva conto proprio su una divisione dell’Unione Europea, creando attrito tra Stati Uniti e Vecchio Continente. Il coltello è, ma già lo era, dalla parte del manico nelle mani di Putin”. Intervista a Mara Morini, Professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova
Per l’Ucraina potrebbero essere ore cruciali, ma niente va dato per scontato in questa fase. Mentre ieri il Presidente russo, Vladimir Putin, incontrava al Cremlino il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz, Mosca diffondeva le immagini del ritiro dei battaglioni tattici pronti a caricare le armi sui treni diretti verso le basi permanenti in Daghestan e Ossezia del Nord.
«Gli Stati Uniti sono ancora pronti ad impegnarsi nella diplomazia con alleati, partner e insieme alla Russia, ma anche a rispondere fermamente in caso di invasione dell’Ucraina da parte di Mosca», ha dichiarato nella serata di ieri il Presidente americano, Joe Biden, sottolineando anche che «non abbiamo ancora verificato che le unità militari russe siano effettivamente tornate nelle loro basi… Siamo certi che ne rimangano molte in una posizione minacciosa … Resta il fatto che la Russia ha dispiegato più di 150 mila militari tra il confine ucraino e la Bielorussia, l’ipotesi di una invasione resta distintamente possibile».
Anche da Bruxelles, dove oggi si è tenuta la riunione dei ministri della Difesa dei Paesi NATO, sono arrivati segnali di scetticismo: «Saremo cauti fino a quando non vedremo un’adeguata riduzione dell’escalation militare da parte del Cremlino», ha dichiarato il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace.
«Non vediamo ancora alcun ritiro » delle truppe russe dal confine, ha affermato oggi anche il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in visita a una base militare nell’Ucraina occidentale. «Per il momento abbiamo solo sentito parlare del ritiro. Come ho detto più volte, siamo calmi rispetto a qualsiasi minaccia perché ci ricordiamo che tutto questo non è iniziato ieri, ma molti anni fa». Ad ogni modo, ha concluso, «per il momento il ritiro si limita a una dichiarazione. Quando avverrà tutti lo vedranno».
A fronte del giallo del ritiro (oppure no), «pur non volendo la guerra» – ha dichiarato ieri Putin – «non accetteremo mai l’espansione della Nato ai nostri confini che percepiamo chiaramente come una minaccia. Le risposte dell’Alleanza alle nostre richieste finora non ci soddisfano, ma ci sono argomentazioni che possono essere avanzate». La porta della diplomazia resta, dunque, aperta e, poche ore prima del bilaterale con Scholz, la Russia aveva messo un’altra carta sul tavolo: i deputati della Duma avevano votato una mozione, proposta dall’opposizione del vecchio partito comunista, che invita Putin a riconoscere la sovranità delle autoproclamate repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk, nella regione orientale ucraina del Donbass. Un riconoscimento che costituirebbe una violazione degli Accordi di Minsk e come tale, anche oggi, il portavoce Peskov, ha ribadito che il Presidente non intende accettare.
Va detto che, per secoli, all’interno dell’impero russo, l’Ucraina era conosciuta come ‘Malorossiya’ o ‘Piccola Russia’, denominazione che ne sottolineava l’appartenenza alla realtà imperiale zarista, ma che era anche causata dalle norme il regime degli zar che sopprimevano l’uso della lingua e della cultura ucraine, così da soffocarne l’identità, l’indipendenza e la sovranità. Lo stesso Putin ha recentemente scritto un articolo in cui afferma che russi e ucraini sono ‘un popolo, un tutt’uno’, concetto ripreso dalla storia della ‘Kyivan Rus’, a federazione medievale che comprendeva parti dell’Ucraina e della Russia moderne e aveva come centro l’attuale Kiev, la capitale dell’Ucraina.
Come noto, nel 2014, è avvenuta l’annessione della Crimea da parte della Russia ed è iniziata l’invasione della regione dell’Ucraina orientale, il Donbass che, insieme alla Crimea, ospita un gran numero di persone russofone e di etnia russa. Negli anni che hanno preceduto le azioni militari russe, Putin e i suoi alleati hanno spesso invocato il concetto di ‘mondo russo’ o ‘Russkiy Mir’ – l’idea che la civiltà russa si estenda ovunque vivano i russi etnici. Sulla base di questa ‘ideologia’, veniva sancito che, indipendentemente da dove si trovino i russi nel mondo, il diritto/dovere dello Stato russo a proteggerli e difenderli. In questa logica, rientra il sostegno dei separatisti filo-russinelle regioni ucraine di Donetsk e Luhansk dal 2014.
Non bisogna dimenticare che l’attuale composizione etnica dell’Ucraina – con una minoranza particolarmente ampia di russi che vive nell’est – riflette l’assorbimento del Paese nell’Unione Sovietica dal 1922. Gli ucraini etnici vivevano in tutto il Paese prima che fosse incorporato nell’Unione Sovietica. Nel 1932-33, secondo alcune ricostruzioni storiche ancora oggi in discussione, Stalincausò una carestia – nota come ‘Holodomor’ – che uccise circa 4 milioni di ucraini nelle regioni orientali, ma permise ai russi di etnia russa di trasferirsi nel territorio dell’Ucraina, da dove guidarono la campagna di industrializzazione di Stalin.
Quando gli ucraini votarono per l’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991, tutte le sue 24 regioni – tra cui Donetsk, Luhansk e Crimea – hanno sostenuto l’indipendenza. La grande minoranza di etnia russa – il 17,3% della popolazione – erano cittadini ucraini in uno Stato indipendente. Per la maggior parte, anche loro hanno votato per l’indipendenza. Per la maggior parte dei primi due decenni dopo l’indipendenza, i russi etnici hanno vissuto pacificamente con gli ucraini e le altre minoranze etniche del Paese. Ma le cose sono cambiate nel 2010 quando Viktor Yanukovich, originario del Donetsk, è diventato presidente dell’Ucraina. Sebbene non abbia dichiarato apertamente di preferire un futuro filo-russo per l’Ucraina, molte delle sue politiche hanno segnato un allontanamento dalle politiche filo-europee dei suoi predecessori. L’Ucraina era sulla buona strada per firmare un accordo di associazione con l’Unione Europea nel 2013 quando Yanukovich ha deciso di aderire a un’unione economica con la Russia. Ciò ha innescato proteste di massa in tutto il paese che hanno portato all’espulsione di Yanukovich. Putin ha quindi annesso la Crimea con il pretesto di proteggere i russi etnici che vivono in quella penisola.
Nel frattempo, i separatisti filo-russi hanno conquistato più città nelle regioni di Donetsk e Luhansk nella speranza che la Russia avesse un interesse simile a proteggere i russi nell’Ucraina orientale. Ma i russi etnici e di lingua russa nell’est dell’Ucraina non hanno automaticamente sostenuto i separatisti o vogliono far parte della Russia. Dal 2014, circa 1,5 milioni di persone hanno lasciato il Donbass per vivere in altre parti dell’Ucraina. Nel frattempo, almeno un milione di persone sono partite per la Russia. A molti di coloro che rimangono nei territori occupati dai separatisti viene ora offerta una corsia preferenziale per la cittadinanza russa.Questa politica consente a Putin di aumentare il sentimento filo-russo nell’Ucraina orientale.
Di contro, in tutta l’Ucraina, c’è stato un aumento del sentimento di un’identità ucraina forte e unificata dal 1991. Nel frattempo, la stragrande maggioranza degli ucraini sostiene l’ingresso nella NATO. La maggior parte degli ucraini vede il proprio futuro come un paese sovrano che fa parte dell’Europa.
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Ma cosa pensano i russi? Lo ha provato a scandagliare un recente sondaggio pubblicato dal ‘Washington Post’, basato su rilevazioni risalenti al mese di dicembre 2021. Sulla base di queste rilevazioni, solo l’8% pensa che la Russia debba inviare lì forze militari per combattere contro le truppe del governo ucraino e solo il 9% pensa che la Russia dovrebbe addestrare o equipaggiare le forze separatiste con armi russe.
Il sostegno all’intervento armato è diminuito di quasi la metà dal 2016. E quel calo si è verificato tra i sostenitori del Partito Russia Unita di Putin, i comunisti e il partito nazionalista LDPR allo stesso modo. Anche tra i più nostalgici dell’Unione Sovietica, per i quali ci si potrebbe aspettare che il ripristino della sfera di influenza sovietica risuoni maggiormente, meno del 10 per cento desidera vedere le truppe russe combattere in Ucraina.
Naturalmente, l’opposizione pubblica non ha sempre vincolato le azioni di Putin. E anche quando lo erano, l’inizio dell’intervento ha poi cambiato il sentiment: per esempio, una volta fuggito il presidente ucraino Viktor Yanukovych nel 2014 durante le proteste di Euromaidan, i media statali russi si sono messi in moto e anche l’opinione pubblica ha cambiato idea.
D’altro canto, pochissimi russi vogliono che la Russia tratti l’Occidente come un ‘nemico’. Solo il 6% circa a livello nazionale ha affermato che la Russia dovrebbe avvicinarsi all’Occidente come un nemico. Inoltre, i russi non vedono Putin favorevole a una posizione ostile nei confronti dell’Occidente: a dicembre, la maggioranza degli intervistati si è detta convinta che Putin ritenga che la Russia dovrebbe trattare l’Occidente come un alleato (39%) o un amico (11%).
I sondaggi suggeriscono infine che mentre i russi non vogliono annettere l’Ucraina o trattare l’Occidente come un nemico, pensano che sia importante resistere alla NATO. Putin ha rimarcato a più riprese che la NATO è responsabile dell’aumento delle tensioni e l’opinione pubblica sembra condividere questo punto di vista: infatti, mentre i russi si oppongono a un conflitto più ampio in Ucraina e preferirebbero non avvicinarsi all’Occidente come un antagonista, opporsi alla NATO è un tema popolare.
Sulla base anche di queste considerazioni di politica interna russa, l’ipotesi un conflitto tra Russia e Ucraina è remota? Lo abbiamo chiesto a Mara Morini, Professoressa associata di Scienza politica all’Università di Genova dove insegna Politics of Eastern Europe e Politica comparata, ma anche Visiting Professor all’Accademia Diplomatica del Ministero degli Esteri della Federazione Russa e alla High School of Economicsdi Mosca. Osservatrice elettorale dell’OSCE-ODIHR in Russia, Uzbekistan e Moldova, oltre che coordinatrice dello Standing Group ‘Russia e spazio post-sovietico’ della Società Italiana di Scienza Politica (SISP), nel 2020, ha pubblicato, con il Mulino, il libro ‘La Russia di Putin’, un preziosomanuale per chi vuole conoscere meglio, oltre la superficialità, una Nazione importante quanto complessa.
Professoressa Morini, «la Russia» – ha dichiarato ieri il Presidente russo, Vladimir Putin, nel corso della conferenza stampa con il Cancelliere tedesco, Olaf Scholz – «non vuole la guerra», ma «non accetteremo mai l’espansione della NATO fino ai nostri confini». Nelle stesse ore, Mosca diffondeva le immagini del ritiro di una parte delle truppe, anche se, contestualmente, la NATO, poi il Regno Unito, gli Stati Uniti ed, oggi, anche l’Ucraina hanno esternato le proprie perplessità. Recentemente, Lei ha scrittoche l’obiettivo del Presidente russo è triplice: «trattare alla pari con Washington, portare l’Ucraina nell’area di influenza russa e scavalcare l’Europa quale mediatore». Ci sta riuscendo? A che gioco sta giocando Putin?
A mio avviso, come ho anche scritto, in un periodo in cui ritiene la presidenza di Biden politicamente debole dal punto di vista domestico e, quindi, potenzialmente, anche da quello internazionale; l’Europa, già di per sè divisa, gli appare concentrata sulla questione energetica e sul post-Merkel, su Macron in piena campagna per le presidenziali, anche noi eravamo impegnati sulle presidenziali e su quanto sarebbe potuto accadere al governo con Draghi. Insomma, una situazione di inverno, anche per il fattore ‘gas’, che ha portato ad un’accelerazione della richiesta che era già nelle idee del Cremlino, a maggior ragione perché l’Ucraina di Zelensky, in questo anno e mezzo, ha aumentato la narrazione anti-russa con una serie di provvedimenti e, soprattutto, con l’incessante richiesta dell’adesione alla NATO che, comunque, il Presidente ucraino non ha mai formalizzato per iscritto, ma che sappiamo non sarebbe facile da ottenere. Il paradosso è che sembra che stiamo in guerra su una cosa che sembra neanche esistere e che non ha motivo di essere neanche nel breve e lungo periodo.
Il Ministro degli Esteri russo, Serjey Lavrov, ha parlato di «terrorismo mediatico» da parte degli Stati Uniti, pronti a «diffondere una falsa data di invasione militare». Ricordiamo che si era parlato del 16 febbraio come data di una possibile invasione russa dell’Ucraina. Anche la portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zackarova, su Telegram, ha tuonato che «la data del 15 febbraio del 2022 entrerà nella Storia come il giorno del fallimento della propaganda di guerra da parte dell’Occidente. Svergognati e annientati senza sparare un colpo». Poche settimane fa, peraltro, Lei stessa aveva fatto notare che «le truppe al confine non significano necessariamente un’invasione». Condivide, quindi, quest’idea del terrorismo mediatico fomentato da una parte dell’Occidente?
Sì, io credo ci sia stata effettivamente un’escalation mediatica, voluta essenzialmente dagli Stati Uniti, in parte per cercare di ‘mettere al muro’ Putin, capire se si trattasse di un bluff o meno, quali erano le reali intenzioni di Putin e, in secondo luogo, in chiave interna perché se guardiamo a quello che ha detto Biden ieri sera, questo elemento della libertà, che gli Stati Uniti devono difendere in qualsiasi modo, è un richiamo all’eccezionalismo americano – che ormai contraddistingue quasi tutte le presidenze americane degli ultimi decenni – da usare a livello domestico. In questo senso, si tratta di un’escalation mediatica che, però, poi, ha portato danni di non poco conto all’economia ucraina al punto che Zelensky ha richiamato alla calma perché – ha detto – ‘noi stessi non abbiamo alcun sentore che in tutto il 2022 ci possa essere un’invasione da parte della Russia’, ma soprattutto perché vengono danneggiati dal punto di vista turistico, ma anche finanziario se è vero che più di 30 oligarchi hanno deciso di lasciare il Paese così come 23 deputati. La situazione economica è già drammatica in Ucraina e adesso ancora di più.
I danni economici, però, hanno colpito anche il resto dell’Europa che sta soffrendo per i rincari di gas, energia, grano.
Certo. In realtà, però, se andiamo a vedere le reazioni, nonostante l’assenza di una regia comune dell’Unione Europea – sarebbe toccato, secondo me, ad Ursula Von der Leyen andare a Kiev e a Mosca – si sono mossi, singolarmente, Macron e Scholz e la situazione sembra essersi quanto meno ridimensionata: Lavrov ha detto che ci sono i margini per un negoziato, però Putin ha tenuto a precisare che “non vogliamo sentirci dire domani che l’Ucraina non entra nella NATO, ma lo vogliamo vedere scritto oggi”. Indubbiamente, ora si tratta di capire se gli Stati Uniti e la NATO decideranno di realizzare qualcosa di scritto. È questo il punto. Nel frattempo, ci siamo dimenticati che c’erano i famosi 15 giorni di risposta da parte della Russia agli Stati Uniti che si erano scritti: c’è stato, potremmo dire, uno spostamento del baricentro della questione.
È, dunque, Putin ad uscire vincitore da questa prima fase dell’escalation? O c’è un pareggio?
Il Presidente russo esce vincitore perché faceva conto proprio su questo, su una divisione dell’Unione Europea, creando attrito tra Stati Uniti e Unione Europea. Ricordiamoci che è passato poco meno di un anno dal viaggio di Biden in Europa, all’insegna dell’’America è tornata’, totalmente all’opposto della presidenza Trump che, invece, si era molto scontrata con l’Unione Europea. In questo senso, da quanto si è visto, il coltello è, ma già risultava, dalla parte del manico nelle mani di Putin. Dico questo essendo tra coloro che non hanno mai creduto alla possibilità di una guerra, tranne che nel caso di un incidente.
Veniamo a quanto accade a Mosca. Ieri, la Duma, la Camera Bassa del Parlamento russo, ha approvato una risoluzione non vincolante che chiede al Cremlino di riconoscere come nazioni indipendenti le autodichiarate Repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk. Il riconoscimento ufficiale andrebbe contro gli accordi di Minsk, che invece prevedono un ritorno di questi territori insorti dentro l’Ucraina, nel quadro di un regime di quasi autonomia. Tale motivazione è stata addotta dallo stesso Putin che sembra non voler accogliere la richiesta. Ma per quanto ancora? Potrebbe diventare una leva diplomatica oppure uno strumento di pressione tale da vincolare o influenzare le trattative?
Per i rapporti che storicamente e politicamente intercorrono tra la Presidenza e il Parlamento, se quest’ultimo ha attuato un’iniziativa – in realtà del Partito Comunista della Federazione Russa, poi approvata anche da Russia Unità – vuol dire che il Cremlino ne era assolutamente al corrente. In secondo luogo, è probabile che questa fosse un’opzione per una via d’uscita oppure era già previsto dalla tattica di Putin di utilizzare questa proposta, quindi il riconoscimento de facto, in modo tale che qualsiasi cosa fosse accaduta nella regione del Donbass – ad esempio, un attacco da parte dei nazionalisti ucraini – essendo riconosciuta come parte della Russia, avrebbe consentito di intervenire, ma solo in quella regione. È da mesi che parliamo di invasione dell’Ucraina, ma, in realtà, poteva essere circoscritta solo alla regione del Donbass e questa potrebbe anche essere una soluzione, che ora è in stand by perché prevalgono i negoziati, ma se veramente Putin non dovesse ottenere quello che vuole, dato che la proposta di legge richiede l’approvazione a più livelli – governo, Ministero degli Esteri, Presidenza – potrebbe essere ripresa e portata avanti con lo scopo di andare contro quelli che sono gli Accordi di Minsk, ma potendo dire, al contempo, che il primo a non voler applicare quegli accordi è stato Zelensky. Escluderei l’ipotesi di uno scontro istituzionale tra Presidenza e Parlamento, anche perché non è una proposta che è rimasta minoritaria da parte del Partito Comunista. Essendo stata approvata anche da Russia Unita, credo sia un segnale di cui tener conto perché ci indica il vero obiettivo di Putin: usare questa strategia perché, dopo avere ‘riunificato’ la Crimea alla Russia, può intervenire per fermare quello che lui definisce ‘genocidio’ e formalizzare una situazione di presenza russa che comunque è già molto strutturata da anni, non solo perché ci sono abitanti russi, russofoni, con il passaporto russo, che hanno votato alle elezioni parlamentari della Duma dello scorso settembre, ma proprio anche per questioni di sicurezza nazionale e di ‘difesa umanitaria’.
Un recente sondaggio pubblicato dal ‘Washinfton Post’ stima che solo l’8% dei russi intervistati pensa che la Russia debba inviare in Ucraina forze militari è solo il 9% ritiene necessario l’addestramento delle forze separatiste da parte russa. Inoltre, secondo lo stesso sondaggio, il sostegno dell’opinione pubblica russa al supporto armato si sarebbe ridotto negli ultimi 5 anni di almeno la metà, in modo trasversale a livello partitico, sia tra i sostenitori di Russia Unita (il partito di Putin) che tra quelli di comunisti e nazionalisti LDPR. Dalle stesse rilevazioni, appare anche chiaro che i russi non vogliono l’annessione dell’Ucraina.
Diciamo che anche la forma mentis dell’opinione pubblica russa è molto influenzato anche dai mass media, soprattutto la televisione, quindi, è diffuso tra i russi questo senso di fratellanza con gli ucraini. Fratellanza, peraltro, sottolineata dallo stesso Putin nell’articolo pubblicato su un quotidiano tedesco la scorsa estate e questa percezione è molto presente nella popolazione russa. In questo senso, non sarebbe percepita positivamente un’invasione del genere, se non per difendere l’Ucraina dagli Stati Uniti. E questo è il messaggio che sta passando, dal punto di vista mediatico, in Russia. È comunque un po’ rischioso perché c’è ancora la pandemia, che sta avendo conseguenze sul piano economico e sociale: non dimentichiamo che i russi esprimono ancora un forte consenso nei confronti di Putin perché guardano anche al loro portafogli. Quindi, anche in previsione delle elezioni presidenziali del 2024, non è che può tirare la corda più di tanto in quanto, da un lato, una parte della popolazione potrebbe rivivere quanto accaduto con le guerre cecene, cioè vedersi arrivare a casa i figli-soldati morti, e questo non sarebbe un aspetto positivo nell’ottica del consenso; dall’altro lato, bisognerebbe vedere la capacità di reazione russa alle eventuali sanzioni economiche. Finora la Russia è riuscita a resistere molto bene, ma non è detto che, se anche nel breve periodo riuscissero ad ammortizzare, riescano a farlo anche nel lungo termine. Sarebbe da evitare ed ecco perché mi convince molto di più l’operazione fatta in Parlamento.
Un’economia infragilita, anche da una pandemia che non sembra ancora sotto controllo, sono alcune delle criticità attuali della Russia, dalle quali, secondo molti osservatori, Putin, aumentando la tensione con Kiev, starebbe cercando di sviare l’attenzione. Lei che ne pensa?
È una chiave di lettura molto occidentale nel senso che è vero che l’economia russa non è al suo massimo splendore, ma non è neanche nella fase della stagnazione breznevriana’, come viene raccontata in Occidente. Questo perché Putin, nel tempo, anche grazie alla collaborazione con la Presidenza della Banca centrale russa, ha cercato di evitare di essere troppo dipendente dal prezzo delle risorse naturali, creando due fondi di riserva che sono come dei ‘tesoretti’ che gli consentono di intervenire in ambito economico per affrontare determinate crisi: la prima è stata quella pandemica, ma, nel caso ci fossero nuove sanzioni, potrebbero di nuovo attingere a questi fondi. Non è una situazione economica così negativa, certo la ripresa è lenta, ma non è neanche a livelli drammatici, come viene presentata.
Come definirebbe gli attuali rapporti tra Putin e il comparto militare, nell’ambito della crisi ucraina? C’è totale condivisione di vedute?
Sì, per il semplice fatto che c’è il Ministro della Difesa, Sergej Shoigu, che è tra i migliori amici di Putin, che può consentire un filo rosso tra l’aspetto politico e quello militare. In questo senso, non ci sono particolari divisioni tali da poter bloccare o da mettere in difficoltà quello che potrebbe essere la strategia di Putin o lo scenario sull’Ucraina, che, in ogni caso, verrebbe percepita come una difesa del territorio e non un’invasione.
Qual’è la posizione di quelli che in Occidente sono definiti gli ‘oligarchi’ russi sull’Ucraina? C’è sintonia con il Cremlino?
Partendo dal presupposto che è molto cambiato il concetto di ‘oligarchi’, molto diversi da quelli del periodo di Eltsin – non sono più giovani imprenditori che si sono arricchiti, approfittando delle liberalizzazioni, ma sono anche ex esponenti del KGB, da cui proviene anche Putin, ma che sono poi stati inseriti nei posti chiave dell’amministrazione presidenziale – credo che potrebbero essere più preoccupati qualora si arrivasse all’imposizione di sanzioni ad hoc, ad personam. In quest’ottica, potrebbero esercitare una pressione su Putin affinché non insista più di tanto nel perseverare sulla questione Ucraina-NATO in quanto si sentirebbero svantaggiati dal punto di vista economico. Ma bisognerebbe arrivare alla certificazione di queste sanzioni, perciò, al momento, non credo possano incidere più di tanto sull’azione di Putin.
Negli ultimi giorni, è stato, forse, per certi versi, addirittura esasperato il valore simbolico della fotografia che ritrae, a colloquio, il Ministro degli Esteri russo, Lavrov, e Putin, separati da un tavolo le cui dimensioni sembrano anche maggiori di quello (Made in Italy) che separava il Presidente russo da Macron. Secondo le interpretazioni più maliziose, quel tavolo esemplificherebbe la sempre maggiore solitudine e ‘paranoia’ di Putin nel prendere le decisioni: soprattutto dopo lo scoppio della pandemia, si sarebbe ridotta a tre o quattro uomini la cerchia degli uomini più fidati. È così o è solo retorica anti-russa? Qual’è la sua opinione a riguardo?
A mio avviso, questa immagine del Putin ‘isolato’ si riallaccia a quella che è la definizione di Alexej Navalny del ‘nonno bunker’, cioè del fatto che, durante la pandemia, il Presidente russo non uscisse ed interagisse online con tutti. C’è anche da dire che, dal punto di vista dei rapporti istituzionali, ci sono due-tre ministeri, tra cui quello della Difesa e quello degli Esteri, che fanno parte di questa cerchia. È naturale che ci siano solo tre o quattro ministri che, su determinate questioni, interagiscono con Putin. Non è che prima interagisse con venti o trenta persone, ma ha sempre avuto una cerchia ristretta di consulenti, di esperti, ma poi la sintesi la fa con i principali ministeri riconosciuti anche dal punto di vista istituzionale e legislativo. Sulla questione dell’immagine del tavolo, in realtà abbiamo letto che era per lo più una precauzione anti-Covid in quanto né Macron né Scholz hanno voluto fare il PC-R test russo per la questione del DNA. È stata una dimostrazione molto chiara della distanza tra Europa e Russia, ma anche di cautela per la pandemia. Tutto sommato, però, non mi sembra che Putin sia più isolato del solito visto che ha sempre preso decisioni con poche persone.
«In Russia, di fatto, tutto dipende da un uomo. Quando dico ‘tutto’, penso alle decisioni. Stalin, almeno formalmente, era limitato dal ‘politburo’, un organismo politico che in linea di principio poteva dirgli di no, anche se ovviamente non lo faceva. Putin non ha il politburo, è onnipotente, un monarca assoluto, un Cesare. Ma sono convinto che dopo 22 anni al potere Putin non abbia nulla di positivo da dare alla politica russa. Qualunque sia il potenziale della sua leadership un tempo riservato alla Russia ora si è esaurito. E poiché non esiste un meccanismo per un cambiamento pacifico al Cremlino, non resta che il cupo slancio del continuo decadimento. È come una bicicletta, che deve andare avanti per rimanere in piedi. Bisogna vedere quando si fermerà e in che modo cadrà. Qualcosa deve succedere, perché Putin vuole restare in piedi. Quindi, sceglierà quelle che i russi chiamano ‘piccole guerre vittoriose’. Può essere Kharkiv, Odessa, Moldova, Kazakistan, proprio come è stato con la Crimea. È un po’ quello che succede con gli stupefacenti: euforia, seguita dal desiderio di un’altra dose» … «Il regime è preoccupato, incerto, non sa cosa potrà succedere. Si potrà andare avanti così per qualche tempo; è una stabilità in decadimento. Ricordiamoci com’era andata con Breznev». Queste parole sono di Adan Michnick, Direttore della Gazeta Wynorzka, leader di Solidarnosc, oltre che Docente dell’Istituto di studi slavistici dell’Accademia polacca delle Scienze. Al netto delle antipatie polacche per la Russia, come valuta quest’analisi? Putin alza la tensione in Ucraina perché, come una bicicletta, se si ferma, cade?
Vorrei sottolineare due aspetti: il primo è quello istituzionale che porta, in realtà, Putin o chiunque dovesse prenderne il posto, ad essere un po’ prigioniero di se stesso: ormai, la verticale del potere ha dato vita ad un sistema che se non lo si vuole destabilizzare portando ad un ulteriore crollo della Russia, come accaduto trent’anni fa per l’URSS, ha delle prassi consolidate e, da questo punto di vista, che sia Putin o un altro, chiunque si ritroverebbe prigioniero di questo meccanismo che, però, finora, ha dimostrato di funzionare, anche perché c’è Putin che riesce a fare sintesi tra le diverse sensibilità all’interno del Cremlino. È vero che è un uomo solo al comando, però è continuamente oggetto di pressione da parte delle diverse fazioni che portano le loro rivendicazioni di cui, finora, ha saputo fare sintesi. Il secondo aspetto è che, nonostante sia tutto possibile, la storia ci ha dimostrato che le rivoluzioni sono, più che altro, dall’alto, non con il coinvolgimento della popolazione. Questa rivoluzione potrebbe avvenire solo se Putin non avesse ancora deciso chi e con quali modalità dovrebbe succedergli. A questo punto, chiaramente, le fazioni entrerebbero in conflitto, come già è accaduto nel gennaio 2020 quando Putin ha accennato alla riforma costituzionale e molti hanno avuto paura perché, se non c’è Putin, cosa può succedere, anche dal punto di vista economico? Credo che, in realtà, questa affermazione di Michnick abbia una sua coerenza per chi ritiene Putin un leader isolato, incapace di leggere la realtà che lo circonda – soprattutto quella del proprio Paese – oltre che una persona che pensa di rimanere al potere all’infinito, senza prendere assolutamente in considerazione le modalità della sua successione. Ma non è una lettura interpretativa che mi convince del tutto.
E questo anche a fronte della recente riforma istituzionale?
Putin hai ormai in mente la scadenza delle elezioni del 2024: come si è capito, vuole rimanere al potere almeno dal 2024 al 2030, anche perché, a suo avviso, probabilmente, essere usciti in modo soddisfacente dalla pandemia, anche da un punto di vista economico (sta investendo molto in alcune riforme economiche entro il 2024, ad esempio per una maggiore indicizzazione delle pensioni), dare un’immagine totalmente diversa dalla narrazione dall’Occidente sul Donbass, effettivamente ricostruirebbe un po’ quella situazione che lo ha riportato alla rielezione del 2018, dopo la riunificazione della Crimea e il consenso aveva raggiunto oltre l’80%. Forse, ritiene che questo schema possa essere di nuovo applicato, quanto meno per passare l’appuntamento del 2024.
In occasione del trentennale dalla caduta dell’URSS, Putin ha definito quell’evento «la più grande catastrofe politica del XXI secolo», ma ha anche detto che «chi vuole farla rivivere nella sua forma precedente non ha testa». Tuttavia, c’è chi pensa che quella ucraina sia l’ennesima dimostrazione della ricerca di una ‘vendetta storica’ (per l’umiliazione subita dalla Russia con il crollo dell’Unione Sovietica) da parte di Putin, che, però, continua a rispondere puntando il dito sulle ‘colpe della NATO’. Quanto questi elementi influenzano effettivamente le scelte di Putin? E hanno molta presa sull’opinione pubblica russa?
Fanno parte della dottrina di politica estera della Russia di Putin e contano perché c’è una parte della popolazione over 55 e over 60 su cui fanno molta presa. Il consenso è un dato empirico da questo punto di vista. Inoltre, essere stato un Presidente che ha rispettato la Russia ad essere un attore globale riconosciuto a livello internazionale. Questo anche per dimostrare che, nel 2024, ‘se non ci sono io, cosa può accadere?’.
In questi giorni, è iniziato il processo ad Alexej Navalny. Cosa sta facendo l’opposizione russa rispetto alle decisioni di Putin sull’Ucraina?
Se ci riferiamo a quella sistemica, parlamentare, non si oppone a Putin, come dimostra la proposta della Duma di ieri, presentata dal Partito Comunista, che dovrebbe essere un oppositore di Russia Unita. La componente nazionalista, da questo punto di vista, è trasversale a tutto il Parlamento. Se ci riferiamo all’opposizione extraparlamentare, ultimamente, anche nell’ottica del memoriale di quanto accaduto a Navalny, si fa sentire, ma con poco eco, anche qui da noi, e con grande difficoltà ad incidere su quanto sta accadendo. Rimane legata ad un ruolo molto marginale, incapace anche di preoccupare la stessa presidenza.
A detta dell’ex direttore della CIA, James Woolsey, «per evitare la guerra, si deve aiutare Putin a salvare la faccia» dato che «è finito in un vicolo cieco: dobbiamo creargli una via di fuga restando uniti e rinviando l’ingresso di Kiev nella NATO». È in questi termini la questione? E qualisarebbero le ‘linee rosse’ per Putin, le condizioni minime ritenute accettabili dal Cremlino?
L’espressione ‘salvare la faccia’ è un esempio della retorica occidentale. Putin non ha bisogno di salvare la faccia all’interno della Russia. A livello internazionale, ha già dimostrato di avere creato una situazione per cui si è riaperto il dibattito all’interno dell’Europa su come approcciarsi alla Russia: una parte la vede un nemico da isolare, un’altra ritiene necessario quantomeno dialogare, e non solo dal punto di vista commerciale, anche nell’ottica di non lasciare Mosca nelle mani di Pechino. Credo che Putin stia mandando anche un messaggio subliminale di questo tipo, anche perché deve guardarsi le spalle dialogando con l’Occidente. Diciamo che questa crisi potrebbe essere un’occasione per riaprire la discussione sull’aspetto internazionale, cercando di far capire che la sicurezza in Europa non può essere stabilita solo dagli Stati Uniti o dalla NATO; gli europei, soprattutto alcuni, hanno compreso l’importanza anche di una difesa comune europea, oltre che una politica estera. Non credo Putin tornerà indietro e, quindi, la linea rossa è la garanzia formale che non ci sarà un’espansione della NATO, quantomeno nel lungo tempo, come ha ha fatto intendere il Cancelliere Scholz, anche perché rimane necessaria l’unanimità. Questo presuppone, però, che Zelensky se ne faccia una ragione e cerchi di capire anche lui come affrontare le elezioni presidenziali del 2024, visto che è molto in difficoltà.
Al Presidente ucraino, peraltro, Lei non ha mai risparmiato critiche.
Essendo un outsider populista, si è ritrovato, al governo, a scontrarsi con la realtà e con quelle che sono le dinamiche istituzionali ucraine che, ahimè, sono molto più orientate alla corruzione e meno alla trasparenza. Alla fine, ha preso dei provvedimenti che non lo dipingono come un leader del tutto democratico.
La guerra è, dunque, più lontana?
Dal punto di vista dell’escalation mediatica occidentale, non è detto perché, da quello che emerge in queste ore, Stati Uniti e NATO non sono per una de-escalation mediatica per ridurre i toni. Per chi come me ha sempre ritenuto che l’invasione non fosse una carta nelle mani di Putin, non credo sia cambiato nulla. Credo, piuttosto, che abbia ottenuto dei passi verso un negoziato. Ovviamente, molto dipenderà anche dalla capacità dei leader europei di convincere nella stessa direzione anche Biden e Zelensky.