“Ogni dollaro speso in sicurezza e difesa ha anche un costo in anidride carbonica, ma i Paesi non sono tenuti, se non su base volontaria, a segnalare le proprie emissioni militari. Adesso è urgente una maggiore trasparenza, quella che, finora, era nell’interesse degli Stati non favorire“. Intervista a Doug Weir, Direttore della ricerca e delle politiche presso l’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente (CEOBS) e Visiting Research Fellow al Dipartimento di geografia del King’s College di Londra

 

Ancora una volta i militari e la guerra sono convintati di pietra nei dibatti alla COP26, in queste ore alle ultime ‘travagliate’ battute. Eppure, un ‘dirty affair’ è spesso definita la guerra, a cui viene accostato, appunto, l’aggettivo ‘dirty’ (‘sporca’) in riferimento alle menzogne, alla distruzione e al dolore che essa comporta, ma – stando alle evidenze scientifiche – anche nel suo significato più letterale, ancor più calzante, spesso ben poco preso in considerazione, ma che, negli ultimi tempi, dovrebbe far riflettere: fare la guerra, o anche solo prepararla, è un affare sporco perché è anche altamente inquinante, molto poco ‘green’.
Una settimana fa, è stata celebrata la ventesima ‘Giornata Internazionale per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente nelle guerre’, istituita il 5 novembre 2001 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e la cui ricorrenza è il 6 novembre: essa nasce con l’intento di sensibilizzare sulle conseguenze dei conflitti armati sull’ambiente. In una nota dell’ONU si legge: «Gli effetti delle guerre sull’ambiente vengono troppo spesso trascurati. Non può esistere una pace duratura se vengono distrutte le risorse naturali sui quali si basano i mezzi di sussistenza della popolazione».
Come sottolinea l’ONU sono diversi i danni ambientali che possono essere causati dalle guerre; tra le strategie militari rientrano, per esempio, l’inquinamento delle risorse idriche, la devastazione dei raccolti, l’uccisione degli animali e la deforestazione. Per affrontare queste enormi problematiche, le Nazioni Unite coordinano sei agenzie e dipartimenti come il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP), il Programma delle Nazioni Unite per gli Insediamenti Umani (UNHABITAT), l’Ufficio per il Supporto al Consolidamento della Pace (PBSO), il Dipartimento degli Affari Politici (DPA) e il Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali (DESA). Inoltre, Il 27 maggio 2016 le Nazioni Unite hanno adottato la Risoluzione UNEP/EA.2/Res.15; con la quale si riconosce: «il ruolo degli ecosistemi integri e delle risorse naturali gestite in modo sostenibile nel ridurre il rischio di conflitti armati».
Anche Papa Francesco non ha mancato di far notare il degrado ambientale derivato dalle guerre; in particolare dell’Enciclica ‘Laudato sii’, il Pontefice scrive: «La guerra causa sempre gravi danni all’ambiente e alla ricchezza culturale dei popoli, e i rischi diventano enormi quando si pensa alle armi nucleari e a quelle biologiche». A questo il Papa aggiunge l’appello ai leader internazionali perché adoperino «maggiore attenzione nel prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti». «Gli Stati devono ridurre le spese militari in favore di una risposta ai bisogni umanitari e delle esigenze della nostra casa comune. In questo contesto, desidero rinnovare la richiesta della Santa Sede affinché i governi destinino ‘il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari’ alla costituzione di ‘un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri’», ha auspicato Monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, all’ONU.
Le parole di Papa Francesco sono basate, come vedremo, su dati di fatto incontrovertibili, ma prima di fare qualsiasi considerazione, occorre tenere presente che: la combustione di 1 litro di benzina produce 2,35 kg di anidride carbonica (CO2), quella di 1 litro di gasolio produce 2,66 kg di CO2, e quindi, in media, per ogni litro di carburante si emettono circa 2,5 kg di CO2. Facendo due conti, un carro armato Abrams M1, che pesa 65 tonnellate, percorre 1 km con circa 4,5 litri di carburante, quindi serviranno 450 litri per 100 km; n aereo da caccia tipo F-15E Strike Eagle o F16 Falcon consuma circa 16.200 litri/ora; un caccia-bombardiere B52 consuma circa 12.000 litri/ora; un elicottero da combattimento tipo AH64 Apache consuma circa 500 litri/ora. Mezzi di appoggio, logistica varia: si può stimare in media un consumo di 1 litro/km.
Ciò detto, la maglia nera delle forze armate più inquinanti del mondo è degli Stati Uniti, il più grande consumatore istituzionale di combustibili fossili al mondo e il più grande emettitore istituzionale. Secondo uno studio del 2019, se l’esercito americano fosse un paese, il suo consumo di carburante da solo lo renderebbe il 47esimo più grande produttore di gas serra al mondo, situato tra Perù e Portogallo. In altre parole, le forze armate a stelle e strisce sono un attore climatico più importante di molti dei Paesi industrializzati riuniti al vertice COP26 di Glasgow: «un inquinatore maggiore di 140 Paesi messi assieme», ha ammesso la speaker della Camera USA, Nancy Pelosi.
Il paradosso, però, è che, nonostante il ruolo fortemente inquinante delle forze armate, sappiamo sorprendentemente poco delle loro emissioni. Una lacuna che è una vera e propria voragine considerata l’ampiezza globale del comparto militare e la sua forte dipendenza dai combustibili fossili. Alcuni scienziatistimano che, insieme, le forze armate e le loro industrie di supporto potrebbero rappresentare fino al 5% delle emissioni globali: più dell’aviazione civile e delle navi messe insieme.
Uno dei motivi per cui sappiamo così poco è dovuto al fatto che le forze armate sono una delle ultime industrie altamente inquinanti le cui emissioni non devono essere segnalate alle Nazioni Unite. Un capolavoro, una trovata geniale, direte voi, ma il merito è degli Stati Uniti (guarda caso!) il cui team di negoziatori, nel 1997, ottenne un’esenzione militare generalenell’ambito dell’accordo sul clima di Kyoto.

Attualmente, 46 Paesi e l’Unione Europea sono obbligati a presentare relazioni annuali sulle loro emissioni nazionali ai sensi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). L’accordo di Parigi del 2015 ha rimosso l’esenzione militare di Kyoto, ma ha lasciato la segnalazione delle emissioni militari volontaria e, spesso, incompleta perché non vengono inclusi i dati sul carburante oltre che imprecisa se è vero che, ad esempio, il Canada che rendiconta le sue emissioni in più categorie IPCC, riporta i voli militari sotto il trasporto generale e l’energia per le basi sotto le emissioni commerciali/istituzionali.
Se il caos caratterizza le segnalazioni delle emissioni militari dei Paesi che hanno preso l’impegno, figurarsi cosa avviene in quelle dei molti Paesi che non devono riferire annualmente all’UNFCCC è anche peggio. Ciò include Paesi con enormi budget militari, come Cina, India, Arabia Saudita e Israele.
La sottosegnalazione è la parola d’ordine, così come i dati inaccessibili o aggregati con fonti non militari. Ma non perché i vertici militari siano aprioristicamente contrari quanto piuttosto “perché hanno subito poche pressioni esterne alla trasparenza, in parte grazie alle esenzioni previste dall’UNFCCC. E ovviamente gli Stati li hanno protetti dal controllo perché era nel loro interesse farlo”, mette in chiaro Doug Weir, Direttore della ricerca e delle politiche presso l’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente (CEOBS) e Visiting Research Fellow al Dipartimento di geografia presso il King’s College di Londra, specificando che “Una delle cose che vogliamo che www.militaryemissions.org faccia è attirare l’attenzione sul fatto che i primi 60 Paesi per spesa militare spendono miliardi di dollari ogni anno per le loro forze armate. Ogni dollaro ha un costo in anidride carbonica, ma la maggior parte di questi Paesi non riporta nulla sulle proprie emissioni militari“.
Al momento – evidenzia un rapporto firmato da Linsey Cottrell del CEOBS – «di fronte alla crisi climatica e alla spesa militare globale che sale a quasi 2 trilioni di dollari nel 2020, c’è urgente bisogno che i militari siano inclusi negli impegni degli Stati per ridurre le loro emissioni di gas serra (GHG). La riduzione delle emissioni non dovrebbe essere l’unico obiettivo. Questo perché concentrarsi solo sulla transizione dalla tecnologia militare alla tecnologia dei combustibili non fossili senza affrontare l’intero costo ambientale della tecnologia militare e delle attività militari, rischia di trascurare l’impatto più ampio delle attività militari sull’ambiente».
Mentre l’aumento della spesa militare generalmente significa maggiori emissioni, non esiste una semplice equazione per calcolare ciò che i militari emettono sulla base della sola spesa”, spiega Doug Weir, che però ci tiene a chiarire che non si può fare di tutta un’erba un fascio: “Molte cose devono essere prese in considerazione come le dimensioni, la struttura e la disposizione delle forze militari e il rapporto tra l’esercito e l’economia in generale. Ci sono alcuni Paesi che sono più progressisti rispetto ad altri sulle questioni ambientali, e questo tende a essere per ragioni culturali, ma non ci sono ‘militari green’”.
Per emissioni militari – come spiega un altro rapporto CEOBS – «si intende l’uso di energia nelle basi militari e l’uso di carburante per il funzionamento di attrezzature militari, come aerei, navi militari e veicoli terrestri, che sono spesso considerati i principali responsabili delle emissioni di gas serra militari. Quando i militari riferiscono sulle loro emissioni, sono questi dati che di solito vengono forniti. Tuttavia, la ricerca sulle forze armate del Regno Unito e dell’UEmostra che sono l’approvvigionamento di attrezzature militari e altre catene di approvvigionamento che rappresentano la maggior parte delle emissioni militari».

Fonte: CEOBS

Da sempre, la guerra è un grande business economico perché tiene in vita una lunga filiera che va dagli eserciti fino alle case produttrici di armamenti, ma, guardando all’evidenza, non lo è per l’ambiente: in particolare, sottolinea lo studio CEOBS, «la produzione di armi e la catena di approvvigionamento militare svolgono quindi un ruolo significativo nel costo del carbonio della guerra. Nel 2019, le vendite delle 25 maggiori aziende produttrici di armi hanno raggiunto una cifra stimata di 361 miliardi di dollari, con un aumento dell’8,5% rispetto al 2018. Ogni vendita ha il suo costo individuale del carbonio, dall’estrazione delle materie prime, fino alla produzione da parte delle compagnie di armi, uso da parte delle forze armate, smantellamento e smaltimento a fine vita».
Va detto che qualche passo in più nella direzione di una maggiore consapevolezza ambientale di molte big corporation del settore si sta facendo, ma c’è ancora molto da fare: «diverse aziende di tecnologia militare producono rapporti sulla responsabilità sociale d’impresa (CSR) e forniscono emissioni di gas serra e dati ambientali. La qualità e la portata di questi rapporti CSR varia considerevolmente. Ad esempio, Lockheed Martin include l’’uso dei prodotti venduti’ nei suoi dati sulle emissioni, mentre i dati di molte altre società di tecnologia militare sono molto meno completi. Proprio come con le lacune nei rapporti militari da parte dei governi, ci sono enormi disparità nei rapporti nel settore della tecnologia militare», rende noto il CEOBS, precisando, che «per l’UE, le grandi società di interesse pubblico sono tenute per legge a fornire relazioni non finanziarie, che includono informazioni sulle loro emissioni di gas a effetto serra. Tuttavia, le attuali linee guida sulla comunicazione delle informazioni relative al clima non sono vincolanti. Si spera che le modifiche previste rafforzeranno i requisiti di rendicontazione non finanziaria dell’UE».

Fonte: CEOBS

Dai calcoli, tuttavia, restano esclusi i dati relativi all’impatto delle operazioni di conflitto che sono ben poco sostenibili. A stabilirlo è sempre il CEOBS che, in un recente report, ha scandagliato quali sono gli effetti diretti e indiretti, in termini di emissioni di gas serra, della guerra sull’ambiente. A proposito di emissioni dirette, esse scaturiscono dalle «infrastrutture di produzione, stoccaggio o trasporto del petrolio che sono spesso oggetto di combattimenti, come è avvenuto in Colombia, Libia, Siria e Iraq. Incendi e fuoriuscite generano emissioni e, a volte, le infrastrutture petrolifere sono attivamente armate. È stato stimato che gli incendi petroliferi della Guerra del Golfo del 1991 hanno contribuito per oltre il 2% alle emissioni globali di CO2 da combustibili fossili quell’anno, con conseguenze lontane e durature. Ciò include l’inquinamento degli incendi che contribuiscono allo scioglimento accelerato dei ghiacciai tibetani a causa della fuliggine depositata sul ghiaccio. La vegetazione può anche essere un bersaglio di guerra, con il carbonio che immagazzina rilasciato quando viene rimosso. L’uso storico di defolianti chimici e bonifica meccanica in Vietnam, Cambogia e Laos aveva l’obiettivo militare di eliminare la copertura forestale, perdendo tra il 14 e il 44% della foresta del Vietnam. Più di recente, una foresta è stata bruciata nel Nagorno-Karabakh, probabilmente per aiutare la guerra dei droni, i raccolti sono stati attaccati nel nord-est della Siria e le aree protette sono state incendiate in Israele da aquiloni incendiari».
Al contrario, le emissioni indirette dei conflitti attivi «sono le più difficili da quantificare, ma forse le più significative dato che si estendono a molti settori e nel futuro. Nelle prime fasi dei combattimenti, le emissioni principali proverranno dalle infrastrutture danneggiate, dalla perdita di vegetazione e dalla fornitura di aiuti umanitari. Il monitoraggio delle emissioni indirette richiede innanzitutto la comprensione della relazione tra il cambiamento della società e l’ambiente poiché molti di questi cambiamenti riguardano le strategie alternative impiegate dalla popolazione civile che sono spesso più dannose e meno efficienti. Ad esempio in Siria, c’è una crisi della raffinazione artigianale del petrolio, con poca comprensione di come la pratica altamente inquinante contribuisca alle emissioni. Lo stesso vale per la deforestazione per legna da ardere e carbone, ben documentata in Congo, nello Yemen, nel Sud Sudan, in Siria e altrove. Lo sfollamento umano transfrontaliero può contribuire alle emissioni annuali dei paesi vicini, ad esempio quelli del Libano, della Giordania e della Turchia, degli sfollati a causa dei combattimenti in Siria».
In questo senso, anche il sostegno umanitario per fornire cibo, acqua e riparo ai civili colpiti dal conflitto ha, purtroppo, un costo in termini di sostenibilità: in particolare, certificano i ricercatori del CEOBS, «il consumo di carburante è particolarmente elevato – nel 2017 è costato circa 1,2 miliardi di dollari, o il 5% della spesa per gli aiuti – principalmente per la logistica e per alimentare i generatori che forniscono elettricità vitale. I campi per sfollati possono anche rilasciare carbonio a seguito di cambiamenti del paesaggio, ad esempio la deforestazione vicino ai campi Rohingya in Bangladesh, qualcosa che donatori e agenzie hanno cercato di affrontare attraverso soluzioni basate sulla natura. Rimane un’ambizione per le organizzazioni umanitarie espandere il principio del ‘Non nuocere’ del settore alle emissioni di carbonio. Per fare ciò, dovrebbero essere stabilite delle linee di base, firmate delle carte e considerati gli impegni di riduzione, come hanno già fatto alcuni gruppi» come «le agenzie umanitarie e di sviluppo» che «stanno avanzando nella transizione verso l’energia pulita, incluso l’UNHCR che ha risparmiato quasi 1 Mt di CO2 nel 2019».
Più un conflitto diventa si cronicizza, è l’allarme del CEOBS, «più il sottosviluppo, la mancanza di investimenti esterni e una governance debole possono far sì che le vecchie tecnologie inquinanti rimangano in uso, dove altrimenti potrebbero essere sostituite. Un esempio è la pratica del flaring, ovvero la combustione del gas di petrolio in eccesso come sottoprodotto della produzione di petrolio, che lo rilascia come CO2».
Come si può notare nel grafico realizzato dal CEOBS, l’intensità del flaring sia continuata e/o addirittura aumentata – ben al di sopra della media globale (contribuiscono per circa il 15% delle emissioni globali di flaring – equivalente ad almeno 51 MtCO2e di emissioni nel 2020) – sostanzialmente in Libia, Iraq, Siria e Yemendurante e dopo i conflitti, nonostante il calo complessivo della produzione totale a causa dello stallo della produzione di petrolio. L’instabilità politica in Libia e Iraq, peraltro, non ha fatto altro che limitare «gli sforzi per ridurre la pratica del flaring» ed «aumentare l’utilizzo interno del gas, sia nella produzione di energia che liquefatto per l’esportazione». Nel frattempo, il flaring continua, immettendo nell’atmosfera anche ‘black carbon’ e di metano che ha «un potenziale di riscaldamento globale 28 volte maggiore della CO2».

Fonte: CEOBS

Un vero disastro che, spesso, è anche dovuto al fatto che «le infrastrutture energetiche obsolete potrebbero anche dover cambiare attività per affrontare le sfide associate ai conflitti», come accaduto, in Ucraina, alla centrale elettrica di Luhanska, oppure in Libano alla centrale di Zoukoppure a causa del ricorso massiccio ad impianti molto poco eco-sostenibili, come quelle delle miniere di carbone abbandonate o non gestite nella regione ucraina del Donbas.
È fuorviante, tuttavia, pensare che il settore energetico sia il solo a subire le conseguenze ‘ambientali’ di un conflitto: Gaza, lo Yemen e la stessa Libia sono esempi di come anche la mala-gestio delle acque reflue e dei rifiuti solidi vengano molto penalizzati e come questo contribuisca all’exploit delle emissioni.
Anche nel migliore dei casi, ricorda il CEOBS, molti conflitti sono seguiti «da cambiamenti nell’uso del suolo su larga scala ed emettono carbonio indirettamente attraverso la perdita o la modifica della vegetazione e dei suoli come serbatoi di carbonio: i cambiamenti nell’uso del suolo su larga scala possono assumere diverse forme e influenzare le emissioni in modi diversi. Uno dei più comuni è dove l’insicurezza o fattori socio-economici portano all’abbandono forzato dei terreni agricoli, come è avvenuto in Bosnia, o quando clima, disponibilità di acqua e conflitti si combinano per aumentare le aree spoglie, come è avvenuto in Siria . La distruzione deliberata e poi l’abbandono dei terreni agricoli a causa del conflitto – come è avvenuto in altre parti dell’Iraq settentrionale – può portare a un aumento delle emissioni di CO2. Nella Crimea occupata, il degrado del suolo è dovuto alla scarsità d’acqua, causata in parte dallo sbarramento a monte del Canale della Crimea settentrionale da parte dell’Ucraina. Mentre l’insicurezza e il conflitto aumentano, questo può portare alla deforestazione, come è attualmente il caso in Myanmar, dove la giunta militare utilizza le vendite di legname per le entrate. Il fuoco è spesso uno dei mezzi principali per eliminare la vegetazione. Stimiamo che le emissioni di carbonio dovute agli incendi della vegetazione nelle aree di conflitto nel solo 2020 siano state di circa 1.456 Mt CO2». Qualora avvenga, anche la distruzione delle zone umide rischia di trasformarle da importanti serbatoi a grandi fonti di carbonio. Lo stesso può dirsi per i mari che possono diventare fonti di carbonio per il mancato trattamento di acque reflue o il forte afflusso di sedimenti generati dal conflitto.
Le attività militari possono anche portare a cambiamenti duraturi nell’uso del suolo: che sia dovuto ad una deliberata tattica della terra bruciata oppure conseguente ad uno sviluppo di fortificazioni e installazioni, esso «può avere ripercussioni anche su aree fragili, ad esempio in Kuwait e in Iraq, dove è possibile osservare dallo spazio l’aumento della polvere sulle basi militari. I suoli superiori e il loro potenziale di stoccaggio del carbonio sono comunemente colpiti da conflitti. L’erosione del suolo e la desertificazione legate alla guerra sono state identificate in Siria, Bosnia, Iraq e Afghanistan. Sia la desertificazione che l’erosione del suolo possono accelerare la perdita di carbonio dai suoli e ridurre il loro potenziale di essere efficaci serbatoi di carbonio».
La guerra, in generale – indica con preoccupazione il CEOBS – può indebolire a tal punto la capacità di governance centrale da farle perdere il controllo sulle risorse ad alta emissione a favore di cerchie corrotte o di gruppi armati non statali, come accaduto con la presa dei giacimenti petroliferi iracheni da parte dello Stato Islamico. Nel medio-lungo termine, «riduce la probabilità che gli Stati colpiti da conflitti partecipino a processi e progetti internazionali per affrontare il cambiamento climatico, spesso nonostante la propria vulnerabilità agli shock climatici. La segnalazione all’UNFCCC illustra questo fenomeno. Esaminando le sue comunicazioni nazionali fondamentali, scopriamo che la Libia non ha mai presentato, mentre l’ultima presentazione dalla Siria risale al 2010. Pochi Paesi colpiti dal conflitto hanno fornito aggiornamenti biennali. All’inizio del 2021, sette paesi dovevano ancora ratificare l’accordo di Parigi, la maggior parte dei quali è o è stata recentemente coinvolta in un conflitto: Sud Sudan, Iraq, Eritrea, Yemen e Libia».

Fonte: CEOBS

A guerra terminata, quello che rimane sul terreno è distruzione e macerie la cui gestione, insieme alla bonifica e alla ‘ricostruzione’, è fortemente inquinante in quanto «consuma enormi volumi di materie prime e di conseguenza genera enormi volumi di emissioni: 3.560 Mt CO2e a livello globale nel 2019. La produzione di cemento è particolarmente ad alta intensità di carbonio, rappresenta l’8% delle emissioni globali di GHG e può essere ancora più inefficiente in aree di conflitto». Ma prima di edificare nuovamente, bisogna «affrontare l’eredità dei residuati bellici può contribuire alle emissioni, e in alcuni casi per molti decenni. Prendendo solo le mine antiuomo, sono presenti in 57 Stati e 131 km2 sono stati bonificati nel 2019. La bonifica è un processo ad alta intensità energetica in cui l’ambiente non è la preoccupazione principale e che può distruggere direttamente o indirettamente la vegetazione e, attraverso lo sminamento meccanico, pozzi di carbonio del suolo».
Il ritorno alla normalità, spesso, si accompagna ad uno stravolgimento dell’uso del sottosuolo, «dovuto allo sviluppo economico, al ritorno delle popolazioni in aree precedentemente insicure o all’espansione o conversione agricola. Ciò avviene tipicamente in un contesto istituzionale debole con uno Stato di diritto limitato, che spesso porta a cambiamenti ambientali dannosi». Un esempio di questo fenomeno è la «deforestazione come quella avvenuta in Colombia, dove la smobilitazione delle FARC in un conflitto sostenuto da diritti fondiari ineguali ha creato le condizioni per una perdita di foreste particolarmente rapida». Ma non è un caso raro, «anzi nelle aree con foresta tropicale la deforestazione legata alla transizione verso la pace è la norma, come ha dimostrato uno studio su Nepal, Sri Lanka, Costa d’Avorio e Perù».
Indispensabile è lo sviluppo di nuove metodologie di rendicontazione. «A causa dell’impatto dei conflitti sulla governance ambientale, non possiamo fare affidamento solo sulla rendicontazione nazionale delle emissioni» – fanno notare gli analisti del CEOBS – «Esistono due database principali, il CDIAC e EDGAR, ciascuno con metodologie leggermente diverse e imperfette. Entrambe le metodologie suggeriscono che in ogni caso il conflitto ha portato a una riduzione o un plateau delle emissioni totali», ma è una conclusione errata perché «questi database delle emissioni non includono cambiamenti nella copertura del suolo, incendi o emissioni biogene. In secondo luogo, si basano su informazioni incerte o ipotesi ‘predefinite’: ottenere dati di attività corretti per le aree di conflitto è particolarmente impegnativo, per non parlare dei fattori di emissione rappresentativi. In terzo luogo, non affrontano le emissioni ‘bloccate’ da infrastrutture vecchie e degradate, sulle quali si farà affidamento dopo il conflitto per ringiovanire l’economia o richiedono la ricostruzione».
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Il CEOBS è entrato ancor più nel merito, spiegando quali siano i comparti delle forze armate più inquinanti: prima in classifica l’areonautica che «emette grandi quantità di gas serra durante la produzione e il funzionamento: solo nel 2017 l’aeronautica statunitense ha acquistato 4,9 miliardi di dollari di carburante. Una singola missione di due bombardieri B-2B assetati di carburante nel gennaio 2017, in volo dagli Stati Uniti alla Libia, ha emesso circa 1.000 tCO2e. I jet militari in genere volano ad altitudini più elevate rispetto alle compagnie aeree commerciali. Oltre a emettere gas serra, gli aerei che volano ad alta quota possono anche causare ulteriori effetti di riscaldamento atmosferico a causa delle scie lasciate dagli aerei, che, così come altri effetti diversi dalla CO2, come le
emissioni di NOx dell’aviazione, contribuiscono in modo significativo agli impatti sul riscaldamento climatico delle emissioni degli aerei. Ciò significa che i soli dati sul consumo di carburante non sono affidabili per valutare l’intero impatto climatico dell’aviazione militare. Al 2021 la flotta globale di aerei militari è 53.563, che è più del doppio della flotta civile prevista di 23.715. Nel complesso, l’aviazione rappresenta circa il 3,5% del riscaldamento climatico e il ruolo dell’aviazione militare è attualmente stimato tra l’8% e il 15% del questo totale. Il contributo degli aerei militari è difficile da stimare e probabilmente rappresenta la più grande fonte di incertezza nell’aviazione globale: la difficoltà principale deriva dalla non divulgazione dei dati sull’attività dell’aviazione militare, che sottolinea l’importanza di un reporting trasparente».
Anche la Marina – prosegue il CEOBS – non brilla per virtuosità green se è vero che, a causa dell’uso di carburante ‘bunker’ più inquinante, «è responsabile del 2,5% delle emissioni globali di gas a effetto serra e in aumento. Anche la spesa navale è in aumento, ma ancora una volta c’è una scarsità di dati che rende difficile stimare le emissioni globali di GHG della flotta navale. Le navi militari, insieme ad altre attrezzature militari, hanno in genere un’aspettativa di vita più lunga rispetto alle attrezzature civili, il che rischia di ‘bloccare’ la tecnologia ad alta intensità di carbonio e ritardare la decarbonizzazione: la nuova portaerei HMS Queen Elizabeth ha una durata stimata di 50 anniIl tonnellaggio della flotta mercantile è stimato dall’UNCTAD in 2.100 milioni di tonnellate, mentre il tonnellaggio navale di tutti i Paesi è di circa 8,7 milioni di tonnellate. Queste cifre suggeriscono che la flotta navale rappresenta solo lo 0,42% del tonnellaggio totale, ma quando la navigazione civile inizia a far fronte alle sue emissioni di gas serra, i militari potrebbero essere lasciati indietro. La mancanza di dati di riferimento per l’esercito renderà inoltre difficile tenere traccia dei progressi promessi. Come ammette la marina neozelandese, le flotte continueranno a fare affidamento sul carburante diesel per i prossimi decenni, durante i quali sono previste più operazioni come risultato diretto della risposta alle minacce o alle emergenze del cambiamento climatico».
Cambierebbe qualcosa se venisse adottato il biocarburante in alternativa ai combustibili fossili per i mezzi militari? «Attualmente la sostenibilità ambientale dei biocarburanti è stata messa in discussione e il loro uso potrebbe rimanere a lungo appena oltre l’orizzonte» – sentenzia il CEOBS – «Pertanto, i militari che propongono di utilizzare biocarburanti o altri combustibili sintetici (come l’ammoniaca), o anche reattori nucleari mobili, dovranno essere consapevoli delle loro emissioni indirette e di altri costi ambientali».
Certo è che che anche i rifiuti e il loro smaltimento costituisce un problema di prim’ordine: rappresentando circa il 3% delle emissioni globali di GHG, – fa notare il rapporto CEOBS – «le forze armate devono sia ridurre significativamente il volume di rifiuti che genera sia gestire in modo responsabile i rifiuti che producono. Ciò include qualsiasi materiale o equipaggiamento in eccedenza, come le munizioni che vengono comunemente distrutte da una detonazione aperta o da un incendio. Ciò può causare la contaminazione del suolo, generare inquinanti atmosferici nocivi e rilasciare gas serra. Le pratiche di smaltimento dei rifiuti in tutto l’esercito sono state gestite male in passato, con l’uso di fosse aperte, sepolture e scarsa conformità con i protocolli standard di gestione dei rifiuti. Operatori commercialiscarsamente regolamentati incaricati dal governo degli Stati Uniti di gestire i rifiuti dalle basi militari in Iraq e Afghanistan, hanno portato a tutele ambientali inadeguate, smaltimento improprio dei rifiuti e scarsi risultati ambientali. La valutazione degli impatti a lungo termine sulla salute dei veterani statunitensi è in corso. Le linee guida del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ora ne vietano l’uso a meno che ‘non esista alcuna alternativa fattibile’. A marzo 2019 le fosse per le ustioni erano ancora in funzione in diversi siti statunitensi in Medio Oriente e Afghanistan. L’uso dello smaltimento dei rifiuti mediante combustione all’aperto non è stato sradicato in tutti gli eserciti».
C’è poi la questione delle basi e dei depositi militari. Stando a quanto riportato dal CEOBS, «si stima che le terre e le proprietà di addestramento militare coprano tra l’1 e il 6% della superficie terrestre globale. Per questo motivo, il modo in cui vengono utilizzati e gestiti potrebbe avere un impatto significativo sulle emissioni globali di GHG. La zona di addestramento militare comprende spesso aree di importanza ecologica, è tipicamente chiusa al pubblico e rimane relativamente indisturbata, rispetto ad altri usi intensi del suolo. È necessaria una migliore gestione del territorio per ottimizzare il consumo del carbonio e ridurre al minimo le perdite di carbonio dal suolo. Questi miglioramenti potrebbero anche aumentare la biodiversità e aiutare a costruire la resilienza climatica. La temperatura del suolo, il drenaggio, l’erosione e la deposizione possono influenzare il flusso di carbonio, il che significa che una migliore gestione del territorio e una riduzione dei disturbi del suolo possono aumentare il contenuto di carbonio del suolo. I terreni militari hanno una portata significativa ma sottoutilizzata per l’incameramento del carbonio». Non mancano poi gli incidenti come avvenuto nel 2018, nel Kurdistan iracheno, dove saltò in aria il deposito d’armi di Baharka.
Inoltre, prosegue il CEOBS, «laddove sia necessaria la bonifica di terreni contaminati relativi alla tenuta militare, devono essere seguite anche pratiche di bonifica sostenibili,garantendo la protezione delle persone e dell’ambiente in generale da rischi inaccettabili e bilanciando ciò con obiettivi di sostenibilità come la riduzione al minimo delle emissioni di GHG. Gli incendi boschivi possono essere importanti fonti di emissioni e ridurre la capacità della vegetazione e del suolo di immagazzinare carbonio. I recenti incidenti di incendi paesaggistici su terreni militari – come quelli in Scozia, Galles, Kenya, Alaska e Australia – evidenziano anche la necessità di migliori pratiche di utilizzo del suolo e una migliore risposta alle emergenze, dove vi sono maggiori rischi di incendio. A meno che non siano in atto misure di adattamento ai cambiamenti climatici, le temperature estive più elevate e le condizioni di siccità aumenteranno i rischi di incendio, ad esempio durante le esercitazioni di tiro dal vivo. Uno studio accademico in Israele ha rilevato l’elevata prevalenza di cicatrici da fuoco vicino ai campi di addestramento …. Nei casi in cui si verificano incendi su terreni di addestramento militare, affrontare l’incendio può essere complesso e pericoloso a causa della presenza di ordigni inesplosi. In pratica, le operazioni di incendio pianificate servono anche a ridurre il rischio di incendi boschivi sui terreni militari. Gli stessi esercizi di addestramento militare, naturalmente, generano anche significative emissioni di gas a effetto serra, anche dovute al degrado del suolo. Ciò è particolarmente vero quando viene effettuato in ambienti fragili come i deserti semi-aridi».
Nel complesso è dunque necessaria una maggiore trasparenza e una trasmissione più consolidata dei dati in modo che le emissioni militari di gas serra possano essere gestite e ridotte in modo coerente con l’obiettivo di 1,5°C specificato dall’Accordo di Parigi del 2015. “Questo è un problema globale” – incalza Doug Weir – Storicamente ci si è concentrati sulle emissioni militari degli Stati Uniti perché sono le più grandi”. Come fanno notare dal CEOBS, «un problema ricorrente, ad esempio, sono i moduli di rendicontazione delle spese militari dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il disarmo che non includono i costi del carburante e le statistiche dell’Agenzia internazionale per l’energia ed escludono anche l’uso di energia militare».
Siamo una svolta nella consapevolezza dell’establishment militare mondiale e nelle grandi multinazionali della difesa? A questa domanda Doug Weir risponde che “per anni c’è stato silenzio da parte dei militari su questo tema, almeno in pubblico, la cultura dell’eccezionalità militare che ha creato l’esenzione del Protocollo di Kyoto è molto forte. Nell’ultimo anno questo ha iniziato a cambiare, con segnali di crescente apertura da parte di alcuni militari e istituzioni come la NATO. La preoccupazione pubblica per l’urgenza della crisi climatica sta aiutando, così come gli obiettivi Net Zero nazionali che stanno costringendo i governi a guardare alle loro emissioni. Nel Regno Unito, l’esercito è responsabile di oltre il 50% delle emissioni del governo. Ma poiché questo non è stato affrontato in modo serio storicamente, i militari sono molto indietro rispetto ad altri settori nel conteggio e nella segnalazione delle loro emissioni. In alcuni casi, e varia a seconda dell’azienda, il settore dell’industria militare fa di più sulla segnalazione delle emissioni rispetto a molte forze armate”.
Per la prima volta, però, il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha partecipato al vertice sul clima delle Nazioni Unite, la COP26, definendo il cambiamento climatico «un compito importante» per l’Alleanza. Il gesto simbolico di Stoltenberg è innegabilmente un primo segnale positivo di un cambio tendenza perché – commenta Doug Weir – “riconosce che le emissioni militari devono essere ridotte. Questo è un grande balzo in avanti rispetto a dove eravamo anche l’anno scorso. Ovviamente, non è neanche lontanamente abbastanza, ma è l’inizio di quello che sarà un lungo viaggio”.
 
Ma cosa sta facendo la NATO e cosa può fare per la trasformazione verde della sicurezza alleata? A giugno, l’Alleanza ha annunciato che «…tutti gli alleati hanno preso un chiaro impegno a ridurre significativamente le emissioni militari. Abbiamo anche concordato di fissare obiettivi concreti affinché la NATO contribuisca all’obiettivo di emissioni nette zero entro il 2050». La NATO ha quindi pubblicato il suo Piano d’azione per il cambiamento climatico e la sicurezza, che delinea lo sviluppo di una metodologia per misurare le emissioni di gas serra e che ‘potrebbe contribuire alla formulazione di obiettivi volontari per ridurre le emissioni di gas serra delle forze armate’. Questo è un inizio, ma occorre fare di più e, soprattutto, la corsa alla riduzione delle emissioni di gas serra non deve perdere di vista altre questioni ambientali che devono essere affrontate come l’approvvigionamento e la disattivazione delle attrezzature, la gestione dell’arsenale militare, la gestione dei rifiuti e la protezione dell’ambiente durante le attività e le missioni militari.
Tuttavia – evidenziava nel giugno scorso Doug Weir in un report – «è importante separare ciò che la NATO è d’accordo a fare  da ciò che i suoi stati membri accettano di fare per le loro forze armate più in generale. Quest’ultimo obiettivo è il più importante dal punto di vista della riduzione delle emissioni». Eppure, ricorda Weir nel suo rapporto, «nessun obiettivo chiaro è stato fornito dagli Stati membri per i loro tagli alle emissioni militari, oltre a ‘una riduzione significativa’, né sulla portata delle emissioni che sarebbero state ridotte. L’avvertimento della compromissione della deterrenza e della postura di difesa, sebbene non sorprendente, potrebbe senza dubbio essere utilizzato per limitare l’ambizione di eventuali impegni assunti. L’obiettivo per le operazioni della NATO è un po’ più progressista. Nel comunicato, gli Stati membri “invitano il Segretario generale a formulare un obiettivo realistico, ambizioso e concreto per la riduzione delle emissioni di gas serra da parte delle strutture e strutture politiche e militari della NATO e valutare la fattibilità del raggiungimento dello zero emissioni nette entro il 2050”. Questo non è ancora un impegno netto zero 2050, ma uno studio di fattibilità verso tale obiettivo».
Ciò che viene riportato, e come viene riportato, è cruciale per ridurre le emissioni. Ecco perché la NATO ha annunciato che “…  svilupperà una metodologia di mappatura per aiutare gli alleati a misurare le emissioni di gas serra dalle attività e dalle installazioni militari, che potrebbe contribuire alla formulazione di obiettivi volontari per ridurre tali emissioni”. Questo solleva diverse questioni – scriveva pochi mesi fa Doug Weir – «Cosa verrà cristallizzato nell’ambito della nuova metodologia, saranno solo le emissioni in tempo di pace o anche quelle durante i conflitti? Prenderà in considerazione le catene di approvvigionamento militari? Si baserà su approcci standard alla comunicazione delle emissioni e sarà trasparente? È forse sintomatico della mancanza di consenso tra gli Stati membri della NATO che il loro sostegno al processo proposto sia così debole».
Se è vero che l’Alleanza Atlantica inizia a prendere in considerazione le problematiche inerenti il clima, è anche vero che, per il momento, riferimenti alla necessità di ridurre le emissioni per l’industria della tecnologia militare o maggiori dettagli su quali saranno le modalità per ottenere la riduzione restano assenti. “La nostra sicurezza e difesa complessive dipendono sia da quanto spendiamo sia da come lo spendiamo” si legge nel comunicato, ma ancora senza una chiara connotazione ‘ambientale’.
È sicuramente lodevole l’intenzione dell’Alleanza di monitorare i progressi compiuti, di modulare l’impegno a seconda dei risultati conseguiti, oltre che di cooperare con il mondo della ricerca, e di organismi internazionali come ONU e UE, ma – ricorda Doug Weir – «la NATO agisce per consenso e le tensioni che questa condizione ha creato possono essere viste anche in alcune delle sue posizioni sul clima». Ciò nonostante, l’Alleanza, che per il momento non è andata oltre delle dichiarazioni di intenti, dovrà dimostrare con i fatti la sua credibilità e la sua leadership, soprattutto ‘bruciando sui tempi’ le potenze rivali, Cina e Russia in primis.
«Non possiamo scegliere tra forze armate forti o verdi», ha esclamato il Segretario generale. Un l’illusione? Doug Weir sostiene che Come con tutti i settori, le forze armate possono ridurre la loro impronta ambientale, ma come con altri settori altamente inquinanti come il cemento o l’aviazione, ci saranno dei limiti, i governi e le società dovranno affrontare scelte su quanto possono essere grandi le loro forze armate e che tipo di cose possono fare, se vogliono rispettare il budget globale del carbonio”.
In realtà, la rivoluzione ‘copernicana’ in atto dovrebbe modificare i termini della questione: gli Stati-nazione non possono più permettersi di scegliere tra sicurezza (nazionale e globale) e clima, devono affrontarle e bilanciarle entrambi, rendendole due facce della stessa medaglia. Non a caso la speaker della Camera USA, Nancy Pelosi, ha affermato che «il clima è una questione di sicurezza nazionale», e, presentando la nuova analisi del rischio climatico del Pentagono, anche il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha riconosciuto che «il cambiamento climatico tocca la maggior parte di ciò che fa questo dipartimento», aggiungendo che «questa minaccia continuerà ad avere implicazioni peggiori per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Il portavoce del dipartimento della Difesa Usa, John Kirby, nel corso di una successiva conferenza stampa, alla domanda di un giornalista su quale sia la minaccia maggiore per il Paese – la Cina o i mutamenti climatici – ha replicato che «siamo pagati per esaminare tutte le minacce alla nostra sicurezza nazionale. Avete sentito il segretario (della Difesa, Lloyd Austin) parlare del clima come di una minaccia reale ed esistenziale per la sicurezza nazionale, non solo degli Stati Uniti ma di tutti i Paesi del mondo. Al contempo, riteniamo la Cina come la prima tra le sfide più pressanti del dipartimento. Sono entrambe equamente importanti».
Il Dipartimento della Difesa USA sta già sperimentando i rischi climatici su base giornaliera. Dalle regolari inondazioni in una giornata di sole alla base navale di Norfolk, sede del più grande complesso di basi vulnerabili dell’esercito, agli uragani che hanno distrutto parti significative della base aeronautica di Tyndall in Florida e di quella dei Marines di Camp Lejeune in Carolina del Nord, le forze armate statunitensi devono gestire i rischi climatici quotidianamente, andando incontro ad una seria perdita di reattività.
Allo stesso tempo, denuncia il Pentagono, il cambiamento climatico sta incoraggiando le potenze rivali in tutto il mondo. Nell’Artico, il ritiro del ghiaccio marino, lo scioglimento del permafrost e l’aumento delle temperature stanno «creando una nuova frontiera della competizione geostrategica». La Russia ha piani ambiziosi per la navigazione attraverso la rotta del Mare del Nord, sostenuti da una maggiore capacità militare di operare in acque artiche più aperte. La Cina prevede una ‘Via della seta polare’ che collega i porti da Shanghai a Rotterdam e sta costruendo capacità artiche per collegare la sua vasta rete di trasporti e influenza globale. Nell’Indo-Pacifico, l’innalzamento del livello del mare, le temperature più elevate e gli eventi meteorologici più estremi stanno aiutando la Cina a guadagnare influenza, soprattutto verso quei piccoli Paesi più vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico. Se è così, il cambiamento climatico non è solo un ‘moltiplicatore di minaccia’, ma anche la ‘minaccia che modella’ che colpisce direttamente la capacità militare americana, creando i presupposti -quali fame, siccità, malattie, migrazioni- per instabilità e conflitti.
«Il costo dell’inazione è di gran lunga superiore al costo delle azioni di prevenzione», ha detto Carlo, il Principe di Galles. E questo è indubbiamente vero anche dal punto di vista strategico-militare: se qualcuno pensasse che investire risorse nella ‘green defense’ sia uno svantaggio, si sbaglia di grosso. ‘Se vuoi la pace, prepara la guerra’ scriveva il latino Vegenzio, ma la crisi climatica in atto e le sue possibili conseguenze non possono essere tralasciate. Anzi, vanno ampiamente considerate: d’altro canto, come ha rimarcato il Segretario generale della NATO, i militari dovranno prepararsi a scenari molto più estremi, in condizioni meteorologiche più estreme, con temperature anche di 50 gradi Celsius. Il che richiederà addestramenti ed equipaggiamenti più all’avanguardia.
Cosa fare, allora, per ridurre le emissioni militari? I Paesi dovrebbero allora modificare la quantità e/o la qualità degli investimenti militari? Secondo il rapporto Demilitarization for Deep Decarbonization dell’International Peace Bureau (Ipb) 2018: «Ridurre il complesso militar-industriale e ripudiare la guerra è una condizione necessaria per salvare il clima, destinando le risorse risparmiate all’economia post-estrattiva e alla creazione di comunità resilienti». Doug concorda che “i due trilioni di dollari all’anno che vengono spesi per le forze armate a livello globale sarebbero di gran lunga maggiori benefici per lo sviluppo sostenibile se fossero reindirizzati altrove”. 
 

Qualcuno sembra averlo capito. La legge sulla difesa annuale degli Stati Uniti per il 2022 è stata approvata dopo aver ricevuto un sostegno bipartisan per aumentare il budget al di sopra dell’importo iniziale richiesto da Biden da 24 a 740 miliardi di dollari, un budget enorme di cui una gran parte – ha assicurato Pelosi – sarà speso per convertire le tecnologie dei combustibili fossili per renderle più ecologiche. Anche il Vicesegretario alla Difesa, Kathleen Hicks, ha affermato che il dipartimento stava «spingendo verso zero emissioni nette entro il 2050: Il dipartimento si impegna a raccogliere la sfida, apportando cambiamenti significativi nel nostro uso dell’energia e aumentando i nostri investimenti nella tecnologia dell’energia pulita».

Il Ministero della Difesa del Regno Unito si è già messo a lavoro qualche anno fa quando ha delineato una ‘strategia sostenibile’ per il 2015-2025 con un doppio obiettivo: implementare un comparto militare che abbia un impatto ambientale ridotto e assicurare sostenibilità e resilienza dello stesso nel tempo. Ragioni per cui Londra intende aumentare l’efficienza energetica e, al contempo, ripensare l’uso del suolo.

Anche l’Italia sembra essersi avviata nella giusta direzione con il programma ‘Flotta verde’ avviato dalla Marina Militare italiana e che prevede l’impiego di nuove tecnologie per garantire un trasporto marittimo pulito e sostenibile. Come? Attraverso l’utilizzo di combustibili sostenibili, l’implementazione di misure risparmio energetico oltre che lo sviluppo di tecnologie di eco-design quali l’alimentazione elettrica da terra durante le soste nelle basi navali, moderni sistemi di desalinizzazione dell’acqua marina per il consumo del personale a bordo, monitoraggio e riduzione della segnatura acustica delle navi.

Per quanto concerne la prima modalità, già nel 2013, a seguito di un accordo siglato tra la Marina Militare e la società ENI, quest’ultima ha dato vita al Green Diesel, un biocombustibile le cui emissioni di anidride carbonica sono la metà rispetto ai combustibili fossili tradizionali. L’Italia è divenuta il primo Paese a sperimentarlo, addirittura conducendo nel 2016 un’esercitazione di rifornimento in mare con le navi della flotta USA. Una grande campagna di sensibilizzazione del personale, unita all’uso di propulsione ibrida per le basse velocità e sistemi automatici per la gestione energetica stanno dando una grande mano.

Al di fuori del Vecchio Continente, un modello virtuoso è l’Australia che ha elaborato già nel 2010 un piano di azione sul tema e approvato nel 2016 la ‘Environmental Strategy’, la quale prevede una serie di misure per ridurre l’impatto ambientale del settore Difesa per i prossimi vent’anni.

Ci sono, però, trappole in vista: il fenomeno del cambiamento climatico può essere utilizzato per giustificare maggiori spese militari e atteggiamenti più aggressivi, che genereranno maggiori emissioni, contribuendo ulteriormente alle minacce che il cambiamento climatico porterà”, avverte Doug Weir.

In termini di emissioni militari globali, la COP26 non ha portato alcuna novità. Cosa aspettarsi dalla COP27? Doug Weir conclude netto: Mettere le emissioni militari nell’agenda della COP27 è una priorità, è stata ignorata per troppo tempo e qualsiasi azione deve iniziare con una maggiore trasparenza sulla segnalazione delle emissioni, in modo che i militari e il pubblico possano finalmente capire quanto sia grande il loro impatto”. Se il cambiamento climatica è una minaccia per le Nazioni di tutto il mondo e tutti i cittadini saranno richiamati alle loro responsabilità, possono i militari tirarsi indietro?