L’SPD non era morta mentre erano evidenti le criticità della CDU/CSU che le elezioni hanno largamente confermato. Si ha la sensazione che la Grosse Koalition, che è stata l’immagine tipica è preferita della classe politica, adesso si sia un po’ sbiadita. Per questo, l’equilibrio politico tedesco dipende ormai da due forze minoritarie, cioè Verdi e Liberali”

 

 

Alla fine ce l’ha fatta: in Germania, il Partito socialdemocratico tedesco (SPD), guidato da Olaf Scholz, ha vinto le elezioni del Bundestag con il 25,7% dei voti, battendo, seppur di un soffio, l’Unione Cristiano-democratica (CDU) in blocco con l’Unione cristiano-sociale (CSU), che si presentava con Armin Laschet che non ha superato il 24,1% segue l’Unione, il peggior risultato del secondo dopoguerra.
Nonostante le grandi aspettative, ma pagando lo scotto di alcuni inciampi, i Verdi sono arrivati terzi al 14,8%, tre punti in più del Partito liberaldemocratico (FDP) che si attesta all’11,5%. In leggera ritirata l’estrema destra, Alternativa per la Germania (AfD) che ottiene il 10,3% mentre Die Linke subisce una batosta, fermandosi al 4,9% e non supera la soglia di sbarramento del 5%, ma entra egualmente al Bundestag perché ha vinto tre collegi uninominali.
Rispetto alle elezioni del parlamento federale tenute nel 2017, la SPD guadagna 5,2 punti, mentre l’Unione ne perde 8,8. I Verdi vedono i consensi aumentare del 5,9%. Per la Fdp l’incremento è dello 0,8%. AfD subisce, invece, un declino di 2,3 punti, pur rimanendo il secondo partito nelle regioni che una volta componevano la Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Per La Sinistra, la contrazione è del 4,3%. Gli altri partiti sperimentano un incremento del 3,7%.
L’SPD – che, va detto, trionfa anche a Berlino, esprimendo la prima sindaca donna, Franziska Giffey, e il ministro-presidente, Anna Kassautzki, nel Meclemburgo-Pomerania anteriore, in cui la cancelliera uscente ha vinto per ben otto volte di seguito dal 1990 – consegue una vittoria da record nel senso che in Germania non era mai accaduto che un partito vincitore di un’elezione nazionale prendesse meno del 31% dei voti. Comunque una vittoria quella dei socialdemocratici, che hanno ricevuto 1,4 milioni di elettori dalla CDU rispetto al 2017. Un altro milione sarebbe stato attratto dai Verdi e 340mila dai liberali di FDP. L’aumento di voti della SPD arriva anche dalla sinistra radicale di Die Linke, che avrebbe ceduto ai socialdemocratici circa 600mila voti.
Scholz, ex sindaco di Amburgo, vice cancelliere uscente e ministro delle finanze, ha dichiarato che il risultato è “un mandato molto chiaro: i cittadini vogliono un cambiamento” e che si metterà subito al lavoro per formare una coalizione , prima di Natale (intanto Merkel rimane alla Cancelleria): “Non deve succedere come quattro anni fa, quando è fallita la formazione del governo”, ha sostenuto Scholz lanciando una frecciatina al leader liberale Lindner, colui che fece saltare la coalizione coi Verdi, contribuendo alla formazione di una Grosse Koalition, cioè il governo di larghe intese tra socialisti e cristianodemocratici risultato delle elezioni del 2017.
“Gli elettori hanno dato forza a tre partiti: SPD, Verdi e FDP. Questi hanno un mandato chiaro a costruire il prossimo governo” ha tenuto a precisare il leader socialdemocratico, lasciando intendere di non voler riproporre la Grosse Koalition con i Cristiano-democratici (402 seggi) e di preferire uno schema ‘Semaforo’ (416 seggi). Serviranno comunque almeno 368 seggi sui nuovi 735 per avere l’ansia maggioranza.
Qualora fallisse – ha sottolineato Armin Laschet – Verdi e Liberali potrebbero passare ad una trattativa con la CDU/CSU, in uno schema ‘Giamaica’ (406 seggi). Del resto – ha spiegato il leader dell’Unione – «Non sempre è il partito più votato a esprimere il cancelliere. Chi diventa cancelliere in Germania deve riuscire a mettere insieme le diverse parti del Bundestag». Se si guarda indietro, nel 1969 Willy Brandt formò il governo con i Liberali, lasciando all’opposizione i cristiano-democratici che erano il primo partito. Idem fece, nel 1976 e nel 1980, Helmut Schmidt a capo di governi SPD-FDP.

Ma Armin Laschet ha ben altre gatte da pelare. Una sconfitta (di cui ha riconosciuto una parte di responsabilità) incassata alle prime elezioni federali senza Angela Merkel indebolisce la sua leadership perché richiede – ha affermato il segretario della CDU, Paul Ziemiack – “un’analisi brutale” di ciò che è andato storto. Markus Soeder, presidente degli alleati bavaresi della CSU, ha preso le distanze: “Per l’Unione è una sconfitta, chi perde così tanti voti non può dire altro che questo. E da secondi non si può pretendere, ma solo fare un’offerta” per il governo.

Se è certo che le trattative per la formazione del governo saranno lunghe, a fare da “king maker”, i Verdi e i liberali di FDP. La maggior parte delle combinazioni previste per la coalizione di governo li vede entrambi protagonisti, nonostante le profonde divergenze nei rispettivi programmi. Del resto, nel corso del dibattito tra gli ‘Spitzenkandidaten’ dei partiti andato in onda sull’emittente Zdf, il cosiddetto Elefantenrunde, il leader dei liberali, Christian Lindner, si è azzardato a definire  “auspicabile che i partiti che avevano lottato contro lo status quo per prima cosa parlino assieme”. Il riferimento era ai Verdi la cui leader, Annalena Baerbock, ha poi risposto: “E’ più che sensato che partiti anche distanti parlino tra di loro in diverse costellazioni”, afferma con un ampio sorriso, aggiungendo che “non si tratta di individuare il minimo comun denominatore, ma di porre le basi per costruire il futuro”. Dello stesso parere il co-leader dei Verdi, Robert Habeck a detta del quale “sarà d’aiuto che parlino assieme forse politiche anche lontane tra loro per vedere se sia possibile costruire ponti e trovare progetti comuni”. Peraltro, il non successo di Baerbock a permesso ad Habeck di riconquistare centralità nel partito. E ha assicurato di aver “già chiarito” internamente la questione di chi sarà vicecancelliere, cioè lui.

C’è chi, come il politologo Herfried Muenkler, azzarda ad affermare che il ridimensionamento dei grandi partiti tradizionali metterà fine della democrazia dei cancellieri nell’era post-Merkel. In ogni caso, dovendo gestire una coalizione più ampia, potrebbe essere più debole, anche se, nei propositi, vorrebbe essere una brava ‘Cancelliera’ (era l’ironico slogan di Scholz), in linea di continuità rispetto all’esperienza che si sta per concludere. E a livello europeo? “Nessuno deve cercare di dominare l’Unione europea. Ci deve essere una buona collaborazione fra nord e sud, est e ovest. Faremo in modo che l’Europa cresca meglio insieme”, ha sostenuto il candidato Cancelliere dell’SPD. Molto dipenderà dalla composizione del nuovo governo e potrebbe aver riflessi su vari dossier, da quello ambientale ed energetico, a quello economico (austerity o no? Patto di stabilità o no?), finanche le relazioni con Stati Uniti, Russia e Cina.

Olaf Scholz riuscirà a diventare ‘Cancelliera’? Con quale coalizione di governo? E con quali conseguenze per l’Europa e per l’Italia? Lo abbiamo chiesto a Gian Enrico Rusconi, grande esperto di storia tedesca, già Docente di Scienza Politica all’Università di Torino, oltre che autore della prefazione del libro di recente pubblicazione, ‘Goodbye Merkel’ (Edizioni Capricorno), scritto da Letizia Tortello e Alessandro Politi.
Con Olaf Scholz, l’SPD vince le elezioni con il 25,7% dei voti, conquistando, inoltre, Berlino e il collegio elettorale di Rügen, nel Land del Meclemburgo-Pomerania Anteriore, in cui la cancelliera uscente aveva vinto per ben otto volte ininterrottamente dal 1990. In molti, fino a qualche mese fa, la davano per morta. Come si spiega questa ‘resurrezione’? 
L’SPD non era morta mentre erano evidenti le criticità della CDU/CSU che le elezioni hanno largamente confermato. Possiamo dire che c’era una stanchezza della Grosse Koalition che è coincisa con un certo ‘merkelismo’. Direi che il risultato più interessante oggi non è tanto il buon riscontro ottenuto dai Verdi (che raggiungono il 14,8%) o dai Liberali (che sfiorano l’11%), ma il fatto che questi due partiti diventano importanti per l’equilibrio complessivo perché il problema, adesso, è la coalizione.
“La volontà degli elettori è chiara” ed è di cambiare, ha detto chiaramente Olaf Scholz nel discorso tenuto nella serata di ieri. Tuttavia, in campagna elettorale, si era voluto presentare come colui che meglio poteva fare la ‘Cancelliera’ nel senso di poter dare continuità al modello merkeliano. Quindi, cambiamento, ma nella continuità?
Si, ma non sopravvaluterei quanto si è detto finora di lui. Quella di Scholz era certamente una bella battuta.
Secondo quanto riportato dal quotidiano ‘Die Welt’, l’Unione ha ‘ceduto’ 1,4 milioni di elettori alla SPD rispetto al 2017. C’è chi dice che uno dei motivi della vittoria di Scholz risieda nel processo di ‘moderazione’, di ‘cristiano-democratizzazione’ da lui promosso per la Socialdemocrazia. È d’accordo?
Io direi, piuttosto, che sta ‘de-radicalizzando’ l’SPD. Il vero problema è che l’idea del socialismo in senso generale, della sinistra – infatti la Linke avrebbe ceduto ai socialdemocratici circa 600mila voti – sembra perdere terreno. Ciò non vuol dire che si va a destra perché c’è un aggiustamento rispetto a tutte quelle categorie tradizionali, una sorta di sdrammatizzazione delle posizioni.
Scholz è riuscito a riportare alla vittoria l’SPD dopo più di vent’anni. Al tempo, il leader socialdemocratico era Gerhard Schröder. Vede somiglianze tra i due?
Non credo, né sul piano personale né sul piano contestuale.
Come si spiega lo stretto margine, neanche due punti percentuali, tra SPD e CDU/CSU, un inedito per la storia tedesca? C’è molta frammentazione?
Io terrei conto di un altro dato e cioè quello di tendenza rispetto alle precedenti elezioni: il 25,7% dell’SPD è un +5% mentre il 24% della CDU/CSU è un -8%. Questo per dire che guarderei la dinamica piuttosto che il risultato finale. Ci potrebbe essere frammentazione, ma si ha la sensazione che la Grosse Koalition, che è stata l’immagine tipica è preferita della classe politica, adesso si è un po’ sbiadita, nessuno ci pensa più, anche se, almeno sulla carta, si potrebbe fare.
Anzi, sarebbe la più stabile e sicura perché composta da sole due forze.
Esatto. Per questo, sottolineerei la rilevanza che stanno acquisendo Verdi e Liberali, ormai diventati indispensabili sia per SPD che per CDU/CSU.
A questo proposito, c’erano molte aspettative su un eventuale exploit dei Verdi. Il risultato, è stato sicuramente positivo è migliore rispetto al passato, ma non un vero e proprio boom. 
Sì, ma quanto basta per essere rilevanti. Ormai l’equilibrio politico tedesco dipende da due forze minoritarie, cioè Verdi e Liberali. Non a caso, le due ipotesi di coalizione più accreditate – ‘Semaforo’ e ‘Giamaica’ – comprendono sempre Verdi e Liberali, alleati con SPD o CDU/CSU.
Questo è un segno di indebolimento dei due principali partiti?
Sì, ma non specificatamente. Di certo, è la CDU/CSU ad aver perso di più.
Perché, secondo Lei, la CDU/CSU ha ottenuto il peggior risultato del secondo dopoguerra? 
Il paradosso è che Merkel era Merkel. Anche se era Cristiano-democratica, la sua personalità la salvava da questa identificazione.
Era come se la CDU fosse diventata il partito di Merkel. 
Esatto. Il ‘merkelismo’ era inteso come una modalità di gestione.
Quindi, non c’era un problema di debolezza del candidato Cancelliere dell’Unione, Armin Laschet?
No. Direi piuttosto che la controprova è che se anche Merkel era per Laschet e Laschet continuava ad evocare continuamente Merkel, nessuno ci credeva. Questo perché la personalità sta contando tantissimo, più di quanto non si immaginasse, ma questa è la comunicazione politica, la pubblicità che è sempre incentrata sulla persona.
In più, le gaffe non lo hanno di certo aiutato.
Infatti, poi l’ultima sul voto proprio da ridere. Il problema è, appunto, ‘guai a fare una gaffe’. Sembrava che tutto il problema fossero le gaffes, ma non è possibile.
Laschet, pur ammettendo il pessimo risultato della CDU, ha anche avvertito: «Non sempre è il partito più votato a esprimere il cancelliere. Chi diventa cancelliere in Germania deve riuscire a mettere insieme le diverse parti del Bundestag». Se si guarda a qualche precedente, nel 1969 Willy Brandt formò il governo con i Liberali, lasciando all’opposizione i cristiano-democratici che erano il primo partito. Idem fece, nel 1976 e nel 1980, Helmut Schmidt a capo di governi SPD-FDP. Laschet potrebbe non avere tutti i torti, quindi, nell’ipotizzare un governo senza il vincitore, l’SPD?
No, infatti non li ha: sarebbe possibile perché non conta chi vince le elezioni, ma chi sa fare la coalizione. È la coalizione che governa, non chi ha vinto alle urne perché, anche se lo sembra, non è un presidenzialismo.
Si può, tuttavia, escludere un ritorno della Grosse Koalition? 
Io prevedo mesi di estrema e tormentata trattativa, alla fine della quale non è detto che non ci sia di nuovo una Grosse Koalition, ma in questo momento non se ne parla più.
Anche perché nel caso di nuova Grosse Koalition, Markus Söder, il leader della ‘costola’ bavarese dell’Unione, la CSU, ha già detto che il suo partito andrebbe all’opposizione. Un altro modo per insidiare la leadership di Laschet, già indebolito dalla sconfitta, e magari puntare alla Cancelleria tra quattro anni? Ci sono rischi di scissione, di frattura?
Sì, ma questo è fisiologico anche perché Söder è sempre stato un po’ così. E questa potrebbe essere l’occasione buona. Per ‘fisiologico’ intendo che, ad un certo, è anche salutare per un partito andare all’opposizione: non dico che ci sarebbero dei benefici, ma non la considererei una sconfitta.
Sconfitta è, invece, quella di AfD e Linke, rispettivamente l’estrema destra e l’estrema sinistra. Come la si spiega? L’estremismo non paga in questa fase?
Esatto, la sinistra estrema è in forte calo così come l’estrema destra, che ha tenuto il colpo, ma è forte solo all’Est, in Sassonia e Turingia. Certo, il 10,4% è tanto, ma è ferma, è paralizzata, è divenuta un fatto locale. Gli estremi perdono ed è come se, diciamo, tutto il baricentro si fosse spostato al centro.
Quale schema di coalizione ha più chance? 
Le trattative arriveranno fino a Natale e anche oltre. Io direi che ha più chance la coalizione ‘Semaforo’. Per la CDU/CSU è forse più probabile una traversata nel deserto. Magari gli fa bene.
Un governo formato da almeno tre partiti – quindi, probabilmente, più litigioso e più debole – senza la capacità di compromesso di Merkel,  renderebbe la Germania meno stabile rispetto a come l’abbiamo conosciuta finora?
È probabile. Perlomeno, senza esaltare troppo Merkel, la ‘Cancelliera’ era una personalità molto capace, autorevole.
Una Germania meno stabile sarebbe una Germania più ‘insulare’, più attenta alle sue beghe interne?
Sì, questo senz’altro.
Per l’Europa sarebbe una brutta notizia?
Sì, nel senso che non ci sarebbe più la tensione verso l’Europa. Adesso, questo sì, si potrebbe assistere ad un certo raffreddamento. Però, bisognerà vedere su che cosa e, tra l’altro, non ho visto grandi reazioni da parte della Francia. Parigi e Berlino si guardano sempre ‘sottecchi’, pur nella loro necessaria complicità.
Secondo il Segretario del PD, l’ex Premier Enrico Letta, la vittoria di Scholz dimostra che “dopo la pandemia, si vince a sinistra”. Lei che ne pensa?
Mi sembra un’affermazione audace. Certo la pandemia è stata qualcosa di molto importante, ma farne diventare una causa di vittoria mi sembra azzardato. Forse era una frase riferita più a casa sua che non alla Germania. Non credo che generalizzazioni di questo tipo siano veritiere.
Lei ha curato la prefazione di un libro appena pubblicato, scritto da Letizia Tortello e Alessandro Politi, intitolato ‘Goodbye Merkel’ (Edizioni Capricorno), un interessante e approfondito bilancio dell’era Merkel. Qual’è l’eredità della Cancelliera? Cosa lascia dietro di sé? Una Germania più forte o più debole?
Finché c’era lei, la Germania era forte. Senza di lei, la Germania perde qualcosa perché aveva una dimensione internazionale enorme e raramente un europeo ha avuto questa caratura. Poi bisogna ricordare gli importanti rapporti con la Russia di Putin: dimentichiamo che sistematicamente gas russo arriva in Germania. Sui rapporti con la Russia, da questo punto di vista, sono d’accordo tutti in Germania perché è vitale.
Come si guarda dagli Stati Uniti e dalla Cina alla fine dell’era Merkel?
Non lo so, non ho visto grandi reazioni.
Con le sue posizioni anti-NATO, la Linke nel governo non sarebbe ben vista da Washington?
Forse, anche se bisognerebbe capire quale Linke visto che la ‘vecchia guardia’ se ne sta andando.
Molti sostengono che l’uscita di scena di Angela Merkel potrebbe favorire una nuova centralità dell’Italia per via del Premier Mario Draghi. Lei che ne pensa?
È troppo presto per dirlo. Aspettiamo. Adesso la dinamica è tutta interna.
A questo proposito, il ‘New York Times’ parla di un sistema politico tedesco ‘bloccato’, ingessato. Lei è d’accordo?
Sì, ma la Germania deve avere il coraggio di riprendere un ruolo non egemonico, ma di orientamento e di guida dell’Europa: lo è virtualmente per la sua potenza economica, ma niente di più. L’Europa tira quando la Germania tira, per dirla con una battuta. La Germania, su questo, è un po’ reticente. Mi piacerebbe una Germania più assertiva perché dietro di lei c’è un’Europa più assertiva.
Più assertiva, ma anche più ‘rigorista’? Il fatto che i Liberali, molto attenti ai conti pubblici, siano tornati rilevanti per la coalizione di governo e che il loro leader, Christian Lidner, abbia rivendicato il Ministero dell’Economia, non lascia ben sperare Paesi come l’Italia. 
Certamente questa dinamica tra rigore e lassismo verrebbe fuori. In ogni caso, Lidner non pensa ad una dimensione economica Europea quanto piuttosto ai singoli Paesi. Temono sicuramente che la rinuncia al rigore possa, alla lunga, diventare qualcosa di negativo.