“Come in altre crisi internazionali degli ultimi dieci anni, anche in Afghanistan la Turchia entra da ‘supplente’ e poi, una volta entrata – anche con modalità accettabili e favorite pure dai suoi alleati tradizionali – tenderà ad agire e a muoversi per conto proprio”. Intervista ad Antonello Biagini, Professore emerito di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università La Sapienza di Roma
“Cauto ottimismo”: è con queste parole che il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito l’atteggiamento della Turchia rispetto ai talebani di nuovo al potere in Afghanistan che, come dichiarato dal Ministro della difesa di Ankara, Hulusi Akar, è un Paese “di importanza cruciale” e “il cuore dell’Asia”.
La settimana scorsa, talebani e funzionari turchi si sono incontrati nell’ambasciata turca di Kabul per “circa tre ore e mezza” per valutare la proposta degli studenti coranici di gestire la sicurezza dello scalo della capitale. «L’operazione può essere eseguita dalla Turchia tecnicamente… Ma la nostra richiesta è che la sicurezza sia garantita anche dalla Turchia, attraverso un’ampia squadra di sicurezza composta da ex soldati, ex polizia o un’impresa completamente privata» (come la SADAT International Defense Consultancy, nota per i rapporti credibili sulla sua supervisione e il pagamento dei combattenti siriani sostenuti dalla Turchia in Libia e Azerbaigian), aveva dichiarato un funzionario turco, e in collaborazione con il Qatar, al momento il principale mediatore ospitando a Doha gli incontri tra i talebani e la comunità internazionale.
Il governo turco ha poi deciso di declinare e ha ritirato le truppe, come aveva richiesto dal portavoce talebano, Zabihullah Mujahid, aveva dichiarato: “Vogliamo buone relazioni con la Turchia, ma non vogliamo i loro soldati in Afghanistan. Non c’è bisogno di truppe turche in Afghanistan, siamo più che in grado di mettere in sicurezza l’aeroporto di Kabul da soli”. Con il segno di ‘poi’, l’attacco di ISIS-K all’aeroporto ha dimostrato tutt’altro. Ecco spiegato perché l’impegno della Turchia con Washington ruotava attorno alla richiesta per l’esercito turco di mantenere una presenza non combattente all’aeroporto, dove ha avuto soldati di base per più di un decennio, ma alle seguenti condizioni: un compenso finanziario da parte di NATO e USA per sovvenzionare la missione; un contingente di forze da combattimento americane ed europee che rimanesse alla base per proteggerla da attacchi esterni.
Assicurare la sicurezza dell’aeroporto sarebbe stato anche un modo per accreditarsi come potenza militare regionale. Non a caso, durante un discorso del 25 agosto 2021 per celebrare l’anniversario di una storica battaglia turca, Erdogan ha dichiarato: “Ci siamo trasformati da un paese di battaglie esistenziali all’interno dei suoi confini a uno che ha voce in capitolo in ogni questione critica del mondo”.
“Se necessario, avremo l’opportunità di tenere nuovamente tali incontri. Con questi negoziati stiamo cercando di portare avanti un processo in modo sano“, ha reso noto il Presidente turco, ribadendo quanto detto pochi giorni prima, e cioe di essere pronto ad “incontrare i talebani se necessario, non ci opponiamo a questa eventualità. Quando busseranno alla nostra porta, noi apriremo e faremo i nostri incontri”. Del resto, la Turchia, unico membro NATO a farlo, ha mantenuto la sua ambasciata a Kabul ed Erdogan ha accolto con favore la ‘moderazione’ dimostrata dai talebani nelle loro ultime dichiarazioni sui diritti delle donne e altre questioni, affermando che il Paese è “aperto a una cooperazione” con i ribelli islamisti “molto sensibili verso le relazioni con la Turchia e speriamo che la loro sensibilità continui”. Ciò detto, occorre ricordare che la Turchia ha trascorso anni a coltivare relazioni con le comunità turche in Afghanistan e gli ex leader dell’Alleanza del Nord con stretti legami con Ankara. Questo potrebbe tornare utile al governo turco nell’interlocuzione con i talebani.
Secondo Erdogan, la crisi in Afghanistan dura da oltre 20 anni e in questo periodo, il mondo intero – in particolare l’Occidente e il mondo islamico – non hanno mostrato la “necessaria cura” nel loro agire. Per Erdogan né la Russia né in seguito gli Stati Uniti si sono dimostrati capaci di fornire “una cura” per l’Afghanistan. “Abbiamo fatto del nostro meglio. Abbiamo continuato il nostro lavoro in Afghanistan. I Paesi che ho citato si sono avvicinati a questi luoghi solo sotto forma di militari o armi. Hanno trasferito miliardi e miliardi di dollari. Ma dove vengono spesi questi soldi è importante”, ha evidenziato Erdogan, il quale ha ricordato che Ankara proseguirà il suo impegno nella ricostruzione del Paese. Secondo il presidente turco, “l’Afghanistan è stato lasciato da solo”.
Una buon motivo per interessarsene, ergendosi a mediatore, grazie ai buoni uffici dell’alleato Qatar, così da avere anche una nuova leva da utilizzare nei confronti degli USA e della NATO, essendo l’unico alleato rimasto sul terreno, con un’ambasciata. Ma anche nei confronti dell’UE, quest’ultima preoccupata dalla possibile nuova ondata di rifugiati provenienti dell’Afghanistan attualmente in Turchia che intanto ha completato il muro di 243 chilometri al confine con l’Iran: “Siamo consapevoli dei disordini che ha causato il problema dei rifugiati. Infatti, non c’è nessun altro Paese al mondo che ospita così tanti rifugiati e affronta così pochi problemi di sicurezza” – ha detto Erdogan – “Naturalmente, la Turchia non è un paese in cui chiunque può entrare, uscire e agire come desidera. Non permetteremo mai a coloro che non rispettano le leggi, le regole e l’ordine di mostrare atteggiamenti che causeranno il caos”, ha proseguito Erdogan. “La Turchia non ha alcun dovere, responsabilità o obbligo di essere il deposito dei rifugiati in Europa. La legge è uguale per tutti nel nostro Paese. I nostri ospiti non fanno eccezione. Tuttavia, non chiudiamo gli occhi su coloro che vogliono sfruttare i rifugiati per i loro sporchi programmi”, ha dichiarato Erdogan, inviando un duro altolà al Vecchio Continente.
“Il nostro Stato è il principale responsabile della sicurezza e del benessere dei suoi 84 milioni di cittadini”, ha dichiarato il presidente turco, osservando che la Turchia non volta le spalle a chi giunge alle sue porte.“Sappiamo che nel nostro Paese ci sono 300.000 immigrati afgani, di cui 120.000 registrati”, ha aggiunto il Presidente turco, definendo “menzogne” le cifre diffuse dal Partito popolare repubblicano (Chp) che parla di 1,5 milioni di rifugiati afgani attualmente in Turchia. È chiaro che occuparsi dei rifugiati può fornire un vantaggio economico, ma può essere anche un modo per inserirsi nel nuovo ‘Grande Gioco’ dell’Afghanistan dove le opportunità per le aziende e l’economia turca abbondano, a partire dalla ‘ricostruzione’ fino alle terre rare, i metalli(tra cui rame, ferro e litio) e pietre preziose. Secondo le stime, la ricchezza di minerali non combustibili ammonterebbe ad un valore di più di1 trilione di dollari.
L’Afghanistan torna fondamentale anche per il gas, di cui la Turchia vuole diventare il più grande hub mondiale. Questo spiega il rapporto stretto con l’Azerbaigian, che consente ad Ankara un accesso diretto alle vaste riserve di gas naturale in Turkmenistan. Dopo oltre trent’anni di conflittualità fra Turkmenistan e Azerbaigian, è stato inaugurato lo sviluppo congiunto del gasdotto transcaspico (TCP) che trasporterebbe il gas dal Turkmenistan all’Azerbaigian e poi, passando con un corridoio meridionale che attraversa la Turchia fino alla Grecia, farlo arrivare a tutta l’Europa sudorientale.
Lo scorso dicembre l’azera Socar Trading si è aggiudicata la gara per l’acquisto di 40.000 tonnellate di petrolio al mese prodotto da Eni Turkmenistan dal giacimento di Okarem e che dovrebbe passare attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, con grande vantaggio per l’Azerbaigian. D’altro canto, il gasdotto TAPI (Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India) trasporterà gas naturale dal Turkmenistan attraverso gli altri Paesi e farà guadagnare chi ha voce in capitolo in questa area. E questo fa gola ad Erdogan che potrebbe voler stringere un accordo simile a quello sottoscritto in Libia.
Qual’è la strategia turca nel nuovo ‘Grande Gioco’ in Afghanistan? Quali gli obiettivi? Lo abbiamo chiesto ad Antonello Biagini, Professore emerito di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università La Sapienza di Roma, oltre che Presidente della Fondazione Roma Sapienza.
I talebani hanno ripreso il potere a Kabul, rifondando l’Emirato Islamico. Ma è la seconda volta che gli studenti coranici governano l’Afghanistan. Quale fu l’approccio turco al primo Emirato?
I talebani andarono al governo dopo la fine dell’invasione sovietica che fu tra gli elementi che fecero crollare la stessa URSS. La Turchia era ancora profondamente allineata alla NATO e all’Occidente. La linea di divergenza turca inizia solamente dopo il 2002, ma per quasi un decennio dopo la fine della Guerra Fredda, la politica estera turca non aveva avuto grandi modificazioni anzitutto perché intendeva farsi accettare in Europa e per far questo doveva rimanere entro un ambito ‘occidentale’. Come sempre, però, la Turchia, pur essendo membro di una compagine come la NATO, ha mantenuto ampi spazi di manovra all’interno della propria politica estera, un po’ come è stato per l’Italia nei confronti del Medio Oriente. E questo, spesso, anche per conto degli Stati Uniti che magari non volevano apparire direttamente. Non c’è dubbio, quindi, che, essendo il partito al potere di forte ispirazione religiosa, non poteva condividere quanto veniva fatto in Afghanistan, ma sicuramente c’erano dei presupposti ideali perché questo atteggiamento di benevolenza potesse esserci. Furono anche gli anni in cui la Turchia, che stava avendo una forte crescita economica, mano mano, tentava di espandersi nelle zone del Caucaso attraverso la ‘diplomazia finanziaria’.
Come definirebbe la posizione turca, membro della NATO, sull’invasione dell’Afghanistan all’indomani dell’11 Settembre?
La Turchia non partecipò a quell’operazione a differenza di Paesi come l’Italia o l’Inghilterra. Va detto, però, che non fu fatta nemmeno pressione sui turchi perché portare le forze armate turche lì significava, comunque, anche sul piano religioso, creare una difficoltà oggettiva.
Venendo all’oggi, Erdogan, sunnita vicino alla Fratellanza Musulmana, si dice pronto al dialogo con i talebani, sunniti con un’interpretazione dell’Islam più vicina a quella wahabita. Tali distinzioni peseranno nel rapporto tra Ankara e Kabul? In che modo?
Ci sarà l’estremo pragmatismo che la politica turca, e non solo quella di questi anni, ha sempre avuto. Non dobbiamo dimenticare che nel formarsi come Stato nazionale la Turchia ha attuato delle linee di politica estera molto pragmatiche tant’è vero che lo stesso Ataturk affermava la necessità di trattare con tutti, a prescindere dalle appartenenze religiose. È vero che aveva una visione laica del mondo, è vero che questa visione si è in parte mantenuta, ma è anche vero che Erdogan, pur avendo un atteggiamento ideologico e religioso completamente diverso, non ha mai assolutamente toccato il mito di Ataturk, pur intaccando, talvolta, alcuni capisaldi di quel modello.
“Non importa chi sia responsabile dell’amministrazione, sostenere l’Afghanistan in tempi buoni e cattivi è un requisito della fraternità”, ha dichiarato Erdogan. Tra gli afghani, la Turchia è stimata non essendo percepita come ‘invasore’ e ciò, unitamente al suo essere stata, storicamente, sede del Califfato islamico – elemento che la retorica di Erdogan ha sempre richiamato – la rendono ben vista agli occhi del popolo dell’Afghanistan e a quelli dei talebani, desiderosi anche di riconoscimento internazionale.
Certamente. Parlo di pragmatismo intelligente di Erdogan perché bisogna ricordare che alcuni Giovani Turchi che furono oppositori di Ataturk, come il famoso Ismail Enver (noto anche come Ismail Pascià o Enver Pasha o Enver Bey), morì tra le montagne dell’Afghanistan e lì stavano attuando quello che si stava facendo in Turchia, cioè il processo di modernizzazione. Non a caso, il Regno afghano, prima delle varie invasioni – stando a tutte le ricostruzioni storiche – funzionò abbastanza bene.
La storia turca, unita alla retorica Islamica di Erdogan, tende quindi ad avvicinare Ankara a Kabul?
Sì, ma questa è anche la motivazione più facilmente comprensibile da tutti. In realtà, e questa è secondo me l’aspetto più importante della politica turca degli ultimi dieci anni, Ankara entra da ‘supplente’ in alcune vicende internazionali e poi, una volta entrata – anche con modalità accettabili e favorite pure dai suoi alleati tradizionali – tende ad agire e a muoversi per conto proprio. E questo sta avvenendo anche nel caso dell’Afghanistan.
Una settimana fa, funzionari turchi hanno incontrato i talebani all’ambasciata turca di Kabul. Il ‘pragmatico’ Erdogan ha parlato di ‘cauto ottimismo’ e c’è chi pensa che il tentativo della Turchia, alleato del Qatar che attualmente sta svolgendo il ruolo di principale mediatore (ospitando a Doha i colloqui per l’Afghanistan), di proporsi come interlocutore dei talebani sia in qualche modo assecondato volutamente dagli Stati Uniti. Condivide?
Certo. Il pragmatismo turco in Afghanistan si compone di due elementi fondamentali: il messaggio religioso facilmente recepibile da tutti e questo ha sempre funzionato; il tentativo turco di entrare in questi meccanismi per proporsi come collaboratore che si fa, poi, esso stesso di indirizzo politico. E questo gli è possibile perché, oggi, hanno anche un sistema di governo che gli consente di prendere delle decisioni molto veloci, pur se non condivise del tutto. Che gli Stati Uniti, in questo momento, abbiano una capacità di proposizione non lo ritengo proprio, ma non perché Kabul è la nuova Saigon – era una cosa differente, trovava la sua motivazione ideale nella difesa dal comunismo – bensì perché Washington, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, con questa realtà di essere la più grande potenza militare, non ha più individuato una sorta di linea politica coerente con la sua traduzione che comprendeva l’interesse nazionale, quello di vigile guardiano del mondo. E la cosa è molto grave e drammatica perché nel tempo si sono susseguite linee politiche ondivaghe nei confronti del Medio Oriente. Non so se sono costretti o è una scelta politica, ma sta di fatto che lasciano muovere Erdogan anche perché si sono auto-estromessi malamente: in queste vicende, c’è anche una questione di immagine e gli Stati Uniti non sembrano, al momento, un Paese che ha un’idea chiara di cosa fare. E questo è il più grande problema della nostra attualità politica e, in previsione, avrà delle conseguenze perché se è vero che il peggior nemico degli USA è oggi la Cina con la sua immensa forza economica, teniamo anche conto che nell’ultimo decennio si è stretta una forte alleanza tra Russia e Cina, cosa assolutamente inedita, mai verificata né in epoca ‘zarista-impero’ né in epoca ‘sovietica-popolare’.
Ribaltando la questione, non c’è dubbio, allora, che Erdogan proverà ad usare un eventuale canale privilegiato con i talebani per avere una leva in più nel rapporto con gli Stati Uniti e la NATO?
Sì, ma queste categorie sembrano venir superate dai fatti. Anche questo discorso della NATO ha avuto senso fino alla caduta dell’Unione Sovietica, poi l’Alleanza aveva perso la ragion d’essere tanto che le era stato, in seguito, attribuito il ruolo di organismo deputato alla sicurezza del mondo. Ma, da quel momento, non è mai riuscita ad assolvere a quel compito e, quindi, di fatto noi oggi assistiamo ad una forte regressione dei Paesi appartenenti ad un certo blocco e, contemporaneamente, ad una crescita di iniziativa e di potenza di quei Paesi che erano soggetti minori come la Turchia. Da questo punto di vista, è chiaro che la politica estera turca si muove abilmente e non vuole scontentare gli alleati tradizionali visto che neanche i turchi sanno esattamente come andrà a finire in Afghanistan e quindi non vogliono trovarsi impelagati come furono i sovietici o lo stesso Occidente che, checchè se ne dica, ne esce con le ossa rotte in quanto non è stato in grado di portare nessun cambiamento, ma anzi migliaia di morti che comunque peseranno sui rapporti futuri. Oggi, anche il governo talebano sarà disposto sicuramente, anche per motivi di carattere economico, a trattare con tutti, ma, una volta consolidato, non è detto che Kabul mantenga questa posizione. Perciò, oltre al messaggio comprensibile, alla necessità di mantenere uno stretto contatto con la costruzione del governo e dell’economia afghana isolando probabilmente la minoranza ‘problematica’ dei tagiki, per Ankara è fondamentale mantenere un ruolo anche perché c’è una Cina molto ben disposta ad entrare in partita non militarmente, ma con i soldi.
Alla riunione tra turchi e talebani all’ambasciata turca di Kabul, uno dei temi di discussione riguardava l’aeroporto della capitale afghana e l’eventualità che Ankara si assumere il compito di garantirne la sicurezza. Alla fine non se n’è fatto nulla e Ankara ha ritirato tutte le truppe come gli altri alleati, addivenendo alle richieste degli studenti coranici. Questo sarebbe, secondo diversi analisti, spia del fatto che la Turchia non è ancora in grado di muoversi su terreni del genere, senza la protezione a stelle e strisce. Lei che ne pensa?
Io lo leggo sia come il tentativo di rispettare l’Alleanza con gli Stati Uniti sia come il non volersi assumere un impegno nei confronti del quale potresti non essere efficace e, quindi, nel momento in cui qualcosa va storto (ad esempio, un attentato), evitare di essere considerati responsabili e di vedere intaccata la propria immagine. Al punto in cui erano arrivate le cose, come abbiamo visto, organizzare l’evacuazione di migliaia di persone e mantenere la sicurezza dell’aeroporto non era senza rischi.
Il Ministro degli Esteri turco Cavusoglu ha dichiarato che la Turchia “agirà in accordo con la comunità internazionale circa il riconoscimento del governo talebano”. Fino a che punto, allora, Ankara potrà spingersi nelle trattative con i talebani?
Cavusoglu ha detto una cosa ovvia nel senso che non c’è un problema di riconoscimento in quanto i talebani sono i vincitori e questo nessuno lo può negare. Quindi, ufficialmente o ufficiosamente, non si potrà non riconoscerlo perché i talebani al governo sono. Anche la Turchia, allora, naviga a vista e si regola sulla base di ciò che fanno gli altri che, alla fine, dovranno comunque riconoscerli.
In caso di violazioni dei diritti umani, ad esempio quelli delle donne, Ankara cosa farà? Potrà non prendere posizione anche se gli alleati occidentali dovessero imporre delle sanzioni?
Va benissimo che esistono i diritti umani, va benissimo che una Comunità Internazionale li riconosca e li difenda, puntando ad allargare il consenso su alcuni criteri generali. Tuttavia, è opportuno che non diventino lo ‘spolverino’ per coprire tutto il resto. Quello che voglio dire è che i diritti umani non sono una legislazione che si può imporre dall’alto, ma occorre modernizzare i Paesi affinché una serie di criteri entrino nell’opinione comune e vengano riconosciuti. Se non avviene questo, non si ottiene nulla: la Cina non rispetta i diritti umani, ma non c’è nessuno che pensa di non avere rapporti diplomatici, economici o culturali con Pechino. Sui diritti umani, poi, bisogna fare un’altra considerazione e cioè che si possono imporre quei diritti che sono compatibili con le culture perché altrimenti si rischiano delle contrapposizioni. È quindi necessaria gradualità. In Turchia, per quanto riguarda le donne, Erdogan ha fatto un’operazione che ha re-introdotto alcuni elementi secondari come il velo e non ci sono state sommosse internazionali. Questo per dire che ci sono modalità e modalità. È chiaro che Erdogan potrebbe avere con i talebani un atteggiamento che, da un lato, condanna certe misure che i talebani potrebbero imporre nell’immediato, e dall’altro tratta. Almeno in questa prima fase, ci saranno grandi concertazioni e trattative, ma i talebani non si muoveranno negativamente né sui diritti umani né contro coloro che hanno collaborato con l’Occidente. Il vero interrogativo riguarderà la fase successiva al consolidamento.
Parlando di Afghanistan, Erdogan non ha mancato di sottolineare le opportunità economiche per la Turchia. Occorre ricordare, infatti, che in Afghanistan si gioca una partita geoeconomica per quel che riguarda ricostruzione, minerali e terre rare, petrolio e gas. E tutto ciò fa gola anche ad Ankara e ha a che fare con il pragmatismo turco.
Nell’800 non si conosceva l’importanza dell’Afghanistan nell’ottica economica dei minerali e delle terre rare. Questo è un elemento che, oltre a quello dei gasdotti, è venuto fuori recentemente, ma forse ci aiuta a spiegare meglio anche tutta la vicenda cilena. Il fatto che siano state individuate terre rare nel territorio afghani cambia tutta la prospettiva e, a maggior ragione, rafforza il governo talebano che, di fatto, diventa come quello saudita, che pur non rispettando nessun diritto umano, siccome era il maggior produttore di petrolio, nessuno gliene chiedeva conto. Quando l’interesse petrolifero è diminuito perché sono state scoperte nuove tipologie di combustibile, si è iniziato a far notare quali erano le mancanze di Ryad. Per uno come Erdogan che ha riproposto nella politica mondiale la Turchia – che dopo una grande crescita, ha avuto anche grandi discese – è chiaro che essere attore, seppur non esclusivo, della ricostruzione dell’Afghanistan, insieme alla possibilità di sfruttarne le materie prime, è di grande interesse. Ma tutto dipenderà dai talebani.
Erdogan ha parlato anche di possibile un accordo simile a quello che la Turchia sottoscrisse, a suo tempo, con il governo di accordo nazionale libico (GNA) di Sarraj. Le sembra un’ipotesi concreta o è troppo presto?
Per arrivare ad un accordo ufficiale è chiaro che i tempi sono prematuri. Che tutte queste attività turche portino a questo obiettivo non avrei dubbi altrimenti sarebbe illogico. Siccome non hanno problemi perché sulla questione dei diritti umani, Erdogan non si scandalizza se i talebani non mandano a lavorare le donne.
Di recente, è stato completato il muro al confine turco-iraniano. L’obiettivo è contenere l’ondata di profughi che si prevede arriverà dall’Afghanistan. Erdogan ha già lanciato l’altolà all’Europa affermando che “la Turchia non ha alcun dovere, responsabilità o obbligo di essere il deposito dei rifugiati in Europa”, ma, di fatto, sembra voler mettere pressione al Vecchio Continente per trattare, come per i rifugiati siriani per i quali l’UE ha un accordo plurimiliardario con Ankara. Il leader turco ha un’altra arma di ricatto contro l’Europa?
È uno scenario già visto con l’accordo che prevede il pagamento di diversi miliardi da parte Europea per il ruolo che la Turchia ha avuto, non di certo un grande risultato dal punto di vista dei diritti umani. Poi certo l’Europa non può accogliere tutti, ma se parliamo di diritti umani, quella è stata una delle pagine più grigie della storia europea. Sui siriani ci potrebbe essere stato anche un altro aspetto: accogliendo i rifugiati, si acquisisce titolo per entrare nel dossier ‘sistemazione della Siria’. L’accoglienza dei migranti, storicamente, era un modo per costituirsi una carta da giocare sul tavolo delle trattative successive.
E questo stratagemma Erdogan potrebbe usarlo anche per l’Afghanistan?
Certamente. È chiaro che c’è l’obiettivo economico, ma c’è anche l’elemento del ‘Tu non mi hai fatto entrare in Europa quindi se vuoi i miei servizi mi devi pagare’.
Pochi giorni fa, è risaltata all’attenzione la visita, irrituale dal punto di vista formale, del consigliere della sicurezza nazionale emiratino, Sheikh Tahnoun bin Zayed al-Nahyan, ad Erdogan a cui è seguita una conversazione telefonica tra il Presidente turco e il principe ereditario di Abu Dhabi, Sheikh Mohammed bin Zayed al-Nahyan. Nei mesi scorsi, c’è stato un riavvicinamento tra Ankara e Il Cairo. Come la crisi afghana sta ridisegnando la collocazione regionale della Turchia, alleato di ferro del Qatar?
Più che ridisegnando, si sta completando un progetto – non così chiaro all’inizio, ma che pragmaticamente si è formato nel tempo – che inizia con l’alleanza con il ‘nemico del nemico’, il Qatar. Appare chiaro come la Turchia abbia saputo approfittare delle varie crisi politiche che si sono determinate con la fine di un certo ordine internazionale, per inserirsi in alcuni processi che poi hanno determinato progressivamente una maggiore tendenza ad essere presenti, qualche volta con una funzione supplente, qualche volta con una posizione delegata da qualcun altro che sia gli Stati Uniti o l’Unione Europea. La Turchia ha ormai voce in capitolo in tanti scacchieri: non è detto che questo rientrasse in un disegno predefinito, almeno all’inizio, però le condizioni che man mano si sono prefigurate, hanno consentito ad Ankara di essere presente nei momenti cruciali di alcune crisi internazionali, con un ruolo che gli altri hanno dovuto riconoscere ed è chiaro che questo ha rafforzato alcune linee politiche.
In che modo il ritorno dei talebani al potere in Afghanistan e il tentativo turco di dialogare con Kabul inciderà nelle relazioni tra Turchia e Russia e tra Turchia e Cina?
Questo è un rapporto estramamente funzionale per ambedue e quindi finché da comodo ad entrambi, si rafforzerà. Russia e Turchia non sono mai andate molto d’accordo, ma se prendiamo la politica di Putin rispetto all’Afghanistan è stata estremamente prudente. Lo dovrà essere per forza perché questi Paesi vicini – la Cina, la Russia, la Turchia, il Pakistan, l’India, l’Iran – è chiaro che adesso hanno tutto l’interesse ad andare d’accordo, chiamiamolo ‘matrimonio d’interesse’, come sono in fondo tutte le alleanze.
La rivalità tra talebani e ISIS non è una buona notizia per Erdogan e per la sicurezza turca, o no?
Si sapeva fin dall’inizio che l’ISIS non aveva nulla a che fare con i talebani. Anche questo è stato un errore della politica estera americana. Personalmente, non credo che un messaggio estremista come quello dell’ISIS possa avere spazio in Turchia. Il richiamo agli aspetti religiosi, che è stato un punto di forza della propaganda di Erdogan, è sempre avvenuto con modalità moderate.
A livello di opinioni pubblica turca, come verrebbe percepito un impegno in Afghanistan, considerata anche l’eventualità di una nuova ondata di profughi?
Erdogan è riuscito a rinverdire un forte senso nazionale e, da questo punto di vista, credo che qualsiasi governante profondamente democratico o estremamente autoritario vince, trova sempre consenso nell’opinione pubblica interna. Il discorso potrebbe cambiare se Erdogan subisse una sconfitta in una di queste iniziative internazionali: tutto questo funziona fino a che hai successo.
In conclusione, dall’atteggiamento pragmatico in Afghanistan crede possano derivare più rischi o più benefici per la Turchia di Erdogan?
Per la Turchia, credo più benefici e finché il trend sarà positivo ci saranno solo benefici. Ecco anche perché Erdogan non si è rammaricato di non occuparsi della sicurezza dell’aeroporto così da evitare rischi per il proprio prestigio.