Molti Armed Non-State Actors in Mali e in Iraq potrebbero tenere in scacco i governi legittimi e pervenendo a controllare aree anche vaste, in cui stabiliscono un’entità politico-sociale ‘nuova’
Il gravissimo fallimento statunitense in Afghanistan ha riportato alla ribalta, a pochi anni dai successi dell’ISIS, il fenomeno degli ‘Armed Non-State Actors‘. Si tratta di gruppi estremisti che, in diversi teatri operativi, tengono in scacco i governi legittimi (e spesso i loro protettori stranieri), formando una o più sacche di resistenza e, in qualche caso, pervenendo a controllare aree anche vaste, in cui stabiliscono un’entità politico-sociale ‘nuova‘ che, sebbene non internazionalmente riconosciuta, può rivestire una certa legittimità di fatto, sostituendosi a governi deboli e screditati.
Di tale fattispecie i Talebani -che pure avevano già avuto in passato un loro Stato- costituiscono oggi un importante esempio; secondo alcuni osservatori politici il loro successo, non certo imprevedibile ma inatteso in questi tempi e in queste proporzioni, potrebbe ora causare una sorta di ‘effetto domino‘ su altre realtà. Anche se, come dimostrano i gravissimi attentati di questi giorni a Kabul, il nuovo Emirato Islamico potrebbe presto essere messo in difficoltà da altri ancor più agguerriti ‘attori’: il citato effetto domino potrebbe in altre parole proporsi prima di tutto proprio in Afghanistan, ove l’ingloriosa fuga occidentale ha certamente ringalluzzito anche l’ISIS-K e altri movimenti armati.
Allargando il discorso a diverse ma non meno difficili aree geografiche, la fine dell’illusione dell’Occidente esportatore di democrazia potrebbe spingere all’azione prima di tutto i molti‘Armed Non State Actors‘ presenti nel Sahel -come sembrano indicare gli attacchi jihadisti avvenuti il 18 e 20 agosto rispettivamente in Burkina Faso e in Mali– e in un teatro perennemente a rischio come quello irakeno.
E’ proprio in Mali che la situazione sembra più calda. Qui il ‘dominus‘ non è ovviamente la superpotenza americana, ma l’ex potenza coloniale francese, che vi detiene interessi geopolitici ed economici ben più diretti. Parigi, dopo aver avviato nel 2013-14 la cosiddetta ‘Operazione Barkhane‘ per la pacificazione delle regioni del Nord Mali ormai vicine a cadere sotto il tallone islamista, ne sta adesso promuovendo la sostituzione con la multinazionale ‘Task Force Takuba‘, sempre a guida francese ma composta da 13 Paesi europei fra cui, in prima fila, l’Italia. La TFT dovrà soprattutto fornire consulenza e assistenza alle forze armate maliane in funzione antiterrorismo, anche se il suo stesso nome (‘sciabola’ in dialetto tuareg) lascia pensare che i 200 militari italiani che vi parteciperanno con 8 elicotteri potrebbero essere coinvolti in azioni di combattimento: a tale proposito, vi sarà ovviamente bisogno dell’enunciazione di regole d’ingaggio chiare ed univoche.
In effetti l’Operazione Barkhane, pur ottenendo un indubbio successo militare, non ha facilitato in Mali la riconciliazione nazionale, avendo spesso tollerato le brutali azioni antiterrorismo condotte dalle forze armate locali in spregio ai diritti umani e/o contro determinati gruppi etnici (soprattutto i Tuareg). Conseguenza di tutto ciò è stata la crescita, anziché la sperata diminuzione, del sostegno popolare ai gruppi jihadisti, fra cui spiccanoJama’at Nusrat al-Islam, di matrice qaedista, e Islamic State in the Greater Sahara, derivazione dell’ISIS.
L’ambigua natura dell’intervento francese nell’area, dichiaratamente antiterroristico ma dovuto anche e soprattutto alla preoccupazione di Parigi per i danni che una vittoria dei ribelli avrebbe potuto arrecare ai suoi interessi economici nell’ex colonia (ricchissima di gas, fosfati, uranio, oro, terre rare),non ha certamente aiutato la completa riuscita della missione. In Mali, infatti, come in altri Paesi dell’area, la condotta francese ha portato Parigi ad alienarsi la simpatia della maggior parte della popolazione che, da tempo, ne chiede a gran voce il ritiro.
E’ in questa situazione che, fra il 2019 e il 2020, è stata concepita la citata Task Force Takuba, in cui l’Operazione Barkhane, secondo quanto dichiarato da Emmanuel Macron nello scorso giugno, è destinata a integrarsi. Ufficialmente, una ‘chiamata alle armi‘ per l’Europa in nome di interessi superiori; di fatto, per Parigi, una semi-ritirata, con la speranza di poter comunque continuare a lucrare i predetti vantaggi economici, abbattendo invece le spese, fin qui ingentissime, e la ‘cattiva stampa‘ derivata dalle sue azioni. Vedremo come andrà a finire: i due colpi di Stato succedutisi a Bamako nell’ultimo anno prefigurano le difficoltà della nuova avventura maliana, anche se la situazione generale non sembra ancora avvicinarsi a quella dell’Afghanistan, nel senso di una possibile vittoria degli insorti.
Quanto all’Italia, la sua partecipazione a Takuba riflette il maggior interesse mostrato negli ultimi anni da Roma per l’area del ‘Mediterraneo Allargato’, comprendente anche il Sahel e l’Africa nord-orientale. Nuove Ambasciate sono state recentemente aperte nell’area e, come noto, l’ex Vice Ministro degli Esteri Emanuela Del Re è stata da poco nominata Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per il Sahel. Tuttavia, a ben guardare, non sarà per noi affatto facile inserirci nel ‘grande gioco’ locale, da sempre monopolio francese e ora, semmai, suscettibile all’influenza di Pechino. In realtà, il nostro più rilevante interesse nell’area resta senza dubbio quello migratorio: in questo senso, contribuire alla stabilizzazione dell’enorme crogiolo saheliano sarebbe certamente un obiettivo importantissimo. Se ci riusciremo, e a quale costo, è tutto da vedere.
Il riferimento all’Italia e alle sue missioni ci porta a esaminare rapidamente anche un altro teatro, ove siamo -a differenza che in Mali- presenti da molti anni: quello irakeno, che vedrà il nostro Paese assumere il prossimo anno il comando della missione NATO.
Anche l’Iraq presenta attualmente una molteplicità di ‘Armed Non-State Actors‘, fra cui spicca l’ISIS che, pur non potendo più vantare il controllo di alcuna porzione di territorio, non è stato affatto sradicato e ha anzi condotto negli ultimi mesi vari attacchi contro personale americano. Nonostante ciò, e nonostante la presenza delle agguerritissime milizie filo-iraniane, la dura repressione delle proteste di piazza del 2019, gli assassini politici e la corruzione endemica, l’opera del Primo Ministro Mustafa Al-Kadhimi, ex capo dell’intelligence al potere dal maggio 2020, sembra aver sortito qualche effetto positivo. Al-Kadhimi ha dettagliatamente concordato, da ultimo con Biden nel luglio scorso, le modalità del ritiro statunitense, peraltro formalmente richiesto dal Parlamento irakeno già nel gennaio 2020 e che dovrebbe aver luogo entro quest’anno, e allo stesso tempo si è assicurato un maggior impegno della NATO nel Paese, a livello soprattutto di addestramento e supporto ma anche ai fini del completo ripristino della sovranità dello Stato.
Il Primo Ministro, pur condizionato dall’aggressiva presenza sciita filo Teheran, ha messo in cantiere alcune importanti riforme e, se riuscirà a portare in maniera accettabile il Paese alle elezioni politiche(già previste per il giugno scorso e poi rinviate al prossimo 10 ottobre), sarà forse in grado di aprire nuove prospettive per il martoriato Paese medio-orientale. Per far ciò, oltre a non dimenticare la componente curda, molto importante in Iraq e già colpevolmente abbandonata dall’Occidente in Siria, dovrà ovviamente tenere stretti rapporti prima di tutto con l’Italia, che nel Paese ha importanti interessi petroliferi e, come detto, sarà presto alla guida della missione NATO. Vanno dunque intesi in questo senso i colloqui tenutisi a Roma in luglio fra Al-Kadhimi e il nostro Presidente del Consiglio, Mario Draghi.
Inutile dire che la nostra prossima leadership militare -sulla cui opportunità ci sarebbe certamente da discutere- ci esporrà, non forse quanto gli Stati Uniti ma certo in maniera consistente, ai mille pericoli di un Paese molto difficile. Ma, per restare all’altra area oggetto di questo pezzo, in una situazione forse meno ingestibile di quella del Mali e nella quale l’Italia ha comunque maggiori interessi geo-economici. In entrambi i teatri, certo, ci troveremo in prima fila, a fronte del ridimensionamento di chi ha fatto finora da guida, rendendosi responsabile di gravissimi errori di cui potremmo essere chiamati a rispondere. Se il gioco varrà la candela, lo vedremo presto.