La vittoria del MAS non è stata una rivincita di Morales, si vedrà in che misura lo sarà del Socialismo. Di sicuro sarà stata una rivincita della democrazia
Fulmine a ciel sereno in Bolivia che, domenica 18 Ottobre, ha aperto i seggi per le elezioni politiche per rinnovare gli organi legislativo ed esecutivo e, quindi, decidere il nuovo ticket presidente-vicepresidente: sebbene non ci siano ancora risultati definitivi ufficiali, la Presidente ad interim, Jeaninez Añez, ieri, e il Tribunale Supremo Elettorale (TSE), oggi (dopo lo scrutinio superiore al 50% dei voti), hanno riconosciuto la vittoria del Movimiento al Socialismo (MAS), rappresentato dall’erede di Evo Morales, Luis Arce assieme al candidato Vicepresidente David Choquenhuanca, che avrebbe ottenuto oltre il 53 per cento, contro il circa 30 per cento ottenuto dal secondo candidato, l’ex Presidente centrista e agguerrito oppositore di Morales, Carlos Mesa sostenuto da Comunità cittadina (CC, Comunidad Ciudadana). Al terzo posto si sarebbe attestato il candidato di destra, imprenditore vicino all’estrema destra evangelica, Luis Fernando Camacho, con il 14 per cento, leader di Crediamo (Creemos) e tra i più attivi nella repressione dei sostenitori di Morales dopo la sua cacciata.
«Ancora non abbiamo il risultato ufficiale, ma dai dati che ci sono il signor Arce e il signor Choquehuancha hanno vinto l’elezione. I miei complimenti ai vincitori e chiedo loro di governare pensando alla Bolivia e alla democrazia», aveva scritto la Presidente Añez su Twitter. Del resto, il Tribunale Supremo Elettorale, poche ore prima del voto, aveva bloccato la diffusione dei risultati del conteggio provvisorio, sospeso in quanto «poco affidabile» il sistema ufficiale delle proiezioni ‘Diprem’: “I risultati delle prove effettuate in queste settimane non ci permettono avere la sicurezza di una diffusione completa dei dati che dia sicurezza al Paese, e per questo, per serietà tecnica e motivati dalla responsabilità nei confronti del paese, il TSE ha deciso di ritirare il Direpre dalla giornata di votazione” erano state le parole del Presidente del Tribunale Romero in una conferenza stampa a commento della decisione, giudicata dalle missioni ufficiali di osservatori internazionali come “adeguata e ragionevole”, che è stata dettata dalla volontà di “non voler generare incertezza in un clima di forte polarizzazione politica, di suscettibilità, e di sfiducia nel sistema di risultati provvisori il cui fine è informativo”. Per questo motivo, “il risultato del processo elettorale del 2020 si baserà esclusivamente su un computo che sarà trasparente, sicuro e verificabile” e per la proclamazione del risultato, occorrerà attendere “con calma e fiducia” alcuni giorni, necessari allo svolgimento del conteggio manuale.
Molteplici erano state le reazioni alla decisione del TSE: se nessun comunicato ufficiale era stato emesso dal MAS il cui candidato Arce aveva criticato apertamente il sistema denunciando la sua “mancanza di trasparenza”, Evo Morales, sui social aveva invece affermato che “questa decisione presa all’ultimo momento fa emergere dubbi sulle sue intenzioni”. Favorevole si era espresso il leader del partito Comunidad Ciudadana, Carlos Mesa: “Capiamo le ragioni per le quali è stata presa questa decisione, privilegiando l’affidabilità e la sicurezza dei risultati”.
Salvador Romero, il Presidente del Tse, ha però già reso noto che l’affluenza alle urne è stata altissima, ben 87%. Sarebbero, inoltre, più di 160 gli osservatori internazionali che hanno fatto richiesta di partecipare al monitoraggio degli scrutini e verificarne la trasparenza. Pur non essendo concluso lo spoglio, il sondaggio post-votazione della Fundación Jubileo si era svolto su un campione di 4.711 seggi elettorali, con un margine di errore del 1,48 per cento e un livello di fiducia del 95 per cento. Questo non include il voto estero, non decisivo, che in Italia ha registrato 397 voti validi a Roma, Milano e Bergamo, dei quali secondo fonti non ufficiali, 223 sono stati favorevoli al candidato di centro destra Carlos Mesa e 77 al MAS. Pur mancando questi dati, risultati simili sono stati presentati anche dagli exit poll della società ‘Ciesmori’, entrambi rilanciati dai canali televisivi Unitel e Bolivision
Nel piccolo Paese andino, che conta 7 milioni e 333mila aventi diritto di voto su 12 milioni di abitanti, il voto avviene in base a nove circoscrizioni dipartimentali, con sistema proporzionale o a maggioranza semplice, a seconda del seggio. L’Assemblea Legislativa Plurinazionale è bicamerale: la Camera dei Deputati composta da 130 membri e il Senatoda 36. Dal 2005, la legge elettorale prevede l’inclusione di una quota del 30% di rappresentanti donne in tutti gli organi. Per entrambi i rami del Parlamento, il mandato è quinquennale.
Per la presidenza e vicepresidenza, la circoscrizione è unica e nazionale. Il sistema elettorale prevede che la vittoria venga assegnata al candidato che raggiunge, al primo turno, il 50 per cento più uno dei voti oppure a quello che, anche se è arrivato al 40 per cento o più delle preferenze, presenti uno scarto pari o superiore al 10 per cento sul secondo candidato. Qualora queste due condizioni non si verificassero, sarebbe necessario un ballottaggio. Tuttavia, se le proiezioni venissero confermate dallo spoglio, non sarebbe questo il caso: Luis Arce si sarebbe aggiudicato la vittoria al primo turno e il MAS, anche se non con le alte percentuali ottenute nella passata legislatura, avrebbe la maggioranza, ma non i due terzi, in entrambi i rami del Parlamento, sia al Senato che alla Camera.
Traducendo le percentuali in seggi, secondo l’istituto ‘Ciesmori’, il MAS otterrebbe al Senato 19 dei 36 seggi, contro i precedenti 25 (si tratta di una maggioranza assoluta, ma non più dei due terzi dell’aula), mentre ‘Comunità cittadina’ ne conquisterebbe 13 e ‘Crediamo’ 4. Le ultime due forze non erano rappresentate nella passata composizione del Senato. Leggermente differenti i dati forniti da ‘Jubileo’ dai quali verrebbero confermati 19 seggi al MAS, 11 a CC e 4 a Creemos, lasciando sospesi due seggi tra le principali forze politiche. Anche alla Camera si prevede una affermazione dei socialisti, ma non sarebbe ancora possibile definirne numericamente l’entità per un diverso sistema elettorale.
Nonostante tre rinvii causa COVID-19 e una campagna elettorale tesa, le operazioni di voto, con le forze armate e di polizia schierate nelle strade – come ha detto la Presidente Añez -“per il popolo, non per un partito politico”, a garanzia dello svolgimento di elezioni “libere, trasparenti e senza pressioni”, si sono svolte, come riconosciuto da Arce, nella serenità generale. Non era così scontato visti i ripetuti episodi di violenza degli ultimi mesi, soprattutto tra fazioni del Mas e seguaci del leader ultra conservatore Luis Camacho. In un messaggio rivolto alle autorità e gli attori politici della Bolivia, anche l’alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, aveva invitato ad “evitare che tensioni e disordini possano incidere sul regolare svolgimento delle elezioni presidenziali di domenica”. “Saluto la determinazione del popolo boliviano nel partecipare alle elezioni”, ha detto l’alto commissario, sottolineando che “tutti dovrebbero poter esercitare il diritto al voto in pace, senza intimidazioni né violenze”. Desta preoccupazione, secondo il rappresentante Onu, il linguaggio “incendiario” adottato negli ultimi giorni di campagna elettorale così come il crescente numero di minacce e aggressioni fisiche registrate con l’approssimarsi della scadenza elettorale. “Nessuno vuole che si ripetano gli eventi dell’anno scorso, che dettero origine a numerose violazioni dei diritti umani, tra cui si contano almeno 30 morti e oltre 800 feriti – e che, in ultima istanza, tutti perdono”, aveva precisato.
Il secondo arrivato Mesa ha definito “inconfutabile” la vittoria dell’avversario, confermando la sua volontà di “guidare l’opposizione dai banchi del Parlamento“. Tramite Twitter, invece, il vincitore Arce si è rivolto direttamente ai boliviani dicendosi “molto grato per il sostegno e la fiducia del popolo boliviano” e affermando che «abbiamo recuperato la democrazia in una giornata pacifica e tranquilla» e «riacquisteremo stabilità e pace sociale. Uniti, con dignità e sovranità. Governeremo per tutti i boliviani, costruiremo un governo di unità nazionale, uniremo al Paese». Paese che, sulla base degli exit poll e della frattura sinistra-destra, appare fortemente polarizzato anche territorialmente nel suo voto: da una parte, la zona andina da sempre a favore del MAS, dall’altra, la regione delle pianure e la giungla, più ricca e vicina al CC. Questa ‘spaccatura’ è suffragata dalla vittoria del MAS nella città sede del governo, La Paz (65 per cento contro 31 per cento del CC), e nella tradizionale roccaforte socialista di Cochabamba (63 per cento contro 34 per cento).
Ma chi è Arce, il nuovo Presidente della Bolivia? Soprannominato ‘Lucho’, Luis Alberto Arce Catacora, 57 anni, è stato ministro dell’Economia e delle Finanze (2006-2019) durante la Presidenza Morales ed è considerato il suo delfino. Laureato in Economia all’Universidad Mayor de San Andrés di La Paz, con un master ottenuto nell’Università di Warwick in Regno Unito e una carriera quasi ventennale (dal 1987 al 2006) all’interno della Banca centrale della Bolivia, il neo-Presidente, avendo guidato per due volte (dal gennaio del 2006 al giugno del 2017 e dal gennaio a novembre del 2019) il dicastero chiave delle finanze, è da molti percepito come il deus ex machina delle riforme che hanno favorito il boom economico – senza eguali in America Latina – del Paese, che ha visto un’impennata del PIL del 5% annuo (da nove miliardi e mezzo di dollari annui, ai quaranta miliardi e ottocento milioni), una forte riduzione del tasso di povertà (dal 38 all’8% della popolazione), oltre alla completa uscita dall’analfabetismo, certificata oltre dieci anni fa dall’UNESCO. Se quindi Arce ha vinto è perché sono state vincenti le politiche economiche socialiste portate avanti per 13 anni da Morales e dal MAS, come il ‘proceso de cambio’ che aveva nella nazionalizzazione delle risorse naturali di cui la Bolivia è ricca e la loro esportazione, nella riforma della Costituzione e nelle politiche sociali i suoi punti cardine.
“Riprenderà il processo di cambiamento”, ha assicurato Arce, rimarcando che “queste elezioni stanno creando una certezza nella popolazione boliviana, che ci sarà un rilancio delle attività economiche” che beneficeranno “la micro, piccola, media e grande impresa, e anche il settore pubblico e tutte le famiglie boliviane che hanno vissuto per undici mesi nell’incertezza”.
Senza dubbio, il programma elettorale presentato dal ticket è sicuramente ispirato a questi principi che influenzeranno anche la loro “Agenda del Bicentenario” – nel 2025, alla fine del mandato, ricorreranno i 200 anni dalla fondazione della Bolivia – che mette in fila i 13 pilastri imprescindibili per lo sviluppo, tra i quali maggiore riduzione della povertà, l’universalizzazione dei servizi come salute ed educazione e la diversificazione dell’economia, ancora dipendente dalle materie prime. Su questo solco, il progetto socialista prevedrebbe il completamento del piano per l’industrializzazione dell’estrazione, senza privatizzazione, del litio, l’esplorazione dei campi gassiferi e la difesa dei diritti dei popoli indigeni.
Inoltre, il profilo di ‘Lucho’ è a molti parso favoriti agli occhi della classe media, che costituisce il 54% dell’elettorato, mentre quello del suo vice, David Choquehuanca, ministro degli Esteri di Morales, emblema dell’ala più dura del partito e di origine aymara, è parsa capace di attirare i voti degli indigeni e dei campesinos. Insieme, il ticket dava l’impressione di poter riuscire ad unire il partito, e più in generale il Paese.
Occorre sottolineare che la scelta di Arce da parte del gruppo dirigente del MAS e del Pacto de Unidad, che comprende tutte quelle associazioni che difendono i diritti degli agrari e degli indigeni, riunitisi ad inizio anno a Buenos Aires, aveva anche una motivazione tecnica: una sentenza del Tribunal Constitucional Plurinacional che impediva a Evo Morales di ripresentarsi, tanto da candidato Presidente quanto da candidato senatore anche perché la legge elettorale prevede che è eleggibile chiunque risieda nel Paese per almeno i due anni precedenti alle elezioni. Essendo in esilio da quando ha deciso di rinunciare alla presidenza per le pressioni delle Forze Armate, Morales aveva quindi la strada sbarrata.
Da questo punto di vista, occorre ricordare che il processo elettorale si è svolto un anno dopo il fallito voto del 20 Ottobre 2019, nel quale il presidente Evo Morales si candidava per un quarto mandato consecutivo (un referendum costituzionale del febbraio 2016 aveva forzato la Costituzione conferendo a Morales i poteri per chiedere un quarto mandato) ed era risultato, a sorpresa, dopo ore di black out degli scrutini, vincitore del primo turno con il 47%, ma, stando al dettato costituzionale, con un margine insufficiente ad evitare il ballottaggio. A fronte delle denunce di frode, il governo chiese l’intervento dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA): Morales annullò le elezioni e dispose il rinnovo delle autorità elettorali dopo aver ricevuto un report elaborato dai funzionari OSA che confermava le frodi nello svolgimento delle votazioni. Peraltro, la superficialità di questi tecnici – che non considerò la pausa nello spoglio (già all’80%) come figlia della necessità dell’arrivo delle urne dalle zone rurali più lontane – è stato recentemente denunciato anche da alcuni membri del Congresso americano, tra cui Jesús Gracía e Jan Schakowsky che hanno proposto la revisione dei finanziamenti USA all’OAS (il 60% del totale).
L’annullamento delle elezioni deciso da Morales non bastò, però, a fermare le proteste che fecero 36 morti. Non passarono molti giorni prima che il Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, il generale Williams Kaliman, iniziasse a fare pressioni sull’allora Presidente perché lasciasse l’incarico. A quel punto, il leader socialista si trasferì prima in Messico, primo paese ad offrire assistenza, e poi in Argentina. A questo riguardo Morales ha ricordato, nelle ultime ore, che “l’11 novembre dell’anno scorso l’allora Presidente eletto dell’Argentina, Alberto Fernandez, mi ha salvato la vita. Voglio ringraziarlo insieme al Presidente del Messico, Lopez Obrador, al Presidente del Venezuela Maduro e al Presidente di Cuba, Diaz”.
A far divampare gli scontri nel Paese insieme alla fine della Presidenza di Morales, furono in realtà le lotte di potere all’interno del MAS e dei sindacati vicini al movimento: la borghesia socialista aveva conquistato un certo benessere, aveva iniziato ad accumulare profitti e, invece che difendere i diritti dei più disagiati, sfruttava gli scioperi di questi ultimi per i propri interessi. Una faida che sembra ottenere conferma anche dalle accuse rivolte negli ultimi tempi contro Luis Arce; il neo-Presidente, insieme a moglie e figli, avrebbe avuto movimenti sospetti nei suoi conti correnti quando era ministro dell’economia che farebbero pensare a casi di corruzione.
Il governo ad interim di Jeanine Anez, che entrò in carica il 12 Novembre, doveva inizialmente traghettare il paese a nuove elezioni in pochi mesi. La sua permanenza al potere è stata poi dilatata con lo scoppio della pandemia – che ha causato finora 139.000 contagi e 8350 decessi – mentre, a livello istituzionale, prese forma un vero e proprio scontro tra il potere esecutivo e il legislativo, quest’ultimo ancora nelle mani del MAS. Una situazione di veti incrociati che ha portato alla paralisi istituzionale, ovviata, nella maggior parte dei casi, con la decretazione governativa.
Al contempo, come vedremo a breve, il governo provvisorio Añez ha dato il via ad una ripresa delle politiche liberiste oltre che ad una campagna anti-indigena in cui l’elemento religioso veniva sbandierato ingannevolmente: quella supremazia indigena che Morales aveva rimesso al centro veniva abolita nonostante in Bolivia solo il 15% della popolazione sia di Bianchi mentre le etnie costituiscano il 55% della popolazione – di cui 30% Quechua e 25% Aymara. Non vanno infine dimenticati i Mestizos, provenienti dalle unioni fra europei e indigeni, che costituiscono il 30% della popolazione nazionale. Anche attraverso le lenti ‘etniche’ si può e, forse, si deve leggere quanto accaduto negli ultimi dodici mesi nel piccolo Paese sudamericano e anche alle elezioni.
Non sono pochi gli osservatori che hanno visto nel trionfo di Arce quindi una vera e propria ‘revancha’ del programma di MAS, ma non di Morales. Ieri, durante una conferenza stampa convocata a Buenos Aires, dove si trova come rifugiato da dicembre del 2019, l’ex Presidente della Bolivia ha commentato la tornata elettorale evidenziando che “non avevamo dubbi, chi ha partecipato alla campagna elettorale sapeva che avremmo vinto con oltre il 50 per cento” e che “questo risultato dimostra che nel 2019 non c’è stata nessuna frode, ma un golpe”. Sulla figura del vincitore Luis Arce, El Indio ha affermato che “non ci siamo sbagliati nella scelta, è uno dei migliori economisti dell’America Latina, una persona onesta e con qualità umane”. “Con l’esperienza di Arce rimetteremo in piedi la Bolivia”, ha reso noto il leader cocalero, preannunciando che il suo ritorno in patria dall’Argentina “non è in discussione (…) è questione di tempo” e che “il mio più grande desiderio è tornare alla regione dove sono nato come dirigente sindacale, il Tropico di Cochabamba”, quindi “come agricoltore” senza assumere “nessun incarico di governo” nel futuro esecutivo di Arce.
Proprio l’assenza di Morales e di suoi fedelissimi sarà una delle principali novità post-elettorali. In questa direzione andava l’assenza di riferimenti all’ex Presidente nei comizi della campagna elettorale del MAS. Ma lo aveva ribadito anche lo stesso candidato socialista alla vicepresidenza, David Choquehuanca: “Il nostro popolo ci sta chiedendo questo, ci dev’essere un rinnovamento, daremo una possibilità ai giovani. Le organizzazioni sociali, gli stessi contadini e gli operai ci chiedono che gli ex ministri non devono tornare perché c’era prepotenza”. “Siamo il MAS 2.0” aveva rimarcato Arce in un’intervista prima delle elezioni. Quindi sì alle politiche socialiste, ma no a Morales è quello che, a detta di molti esperti, si leggerebbe tra le righe dell’intervento del neo-Presidente così come di quello del Vicepresidente MAS che ha parlato di una “seconda tappa del processo di cambiamento del paese” durante la quale bisognerà “governare ascoltando il popolo, non ci dev’essere prepotenza delle autorità”.
Su questo più o meno evidente distacco tra l’attuale gruppo dirigente del MAS e Morales, avrebbero inciso anche le accuse mosse durante l’arco dell’ultimo anno di governo provvisorio contro l’ex Presidente: una concernente una relazione con una diciannovenne iniziata quando lei era minorenne, per la quale il leader cocalero è stato denunciato per traffico di persone, stupro e abuso sessuale; un’altra di “sedizione e terrorismo”, che ha spinto la magistratura ad emanare un mandato di cattura, in quanto responsabile di aver ordinato di tagliare le vie di accesso a La Paz ed El Alto durante le proteste post-elezioni non permettendo i rifornimenti di benzina; un’altra riguarderebbe le proteste dei sindacati vicini a El Indio scoppiate dall’ultimo rinvio del voto che avrebbero bloccato, in piena pandemia, il trasporto di ossigeno agli ospedali, causando il decesso di diversi pazienti come la sorella di Morales stesso, Esther.
La vittoria al primo turno di Arce sembra essere stata favorita anche dalla frammentazione dell’opposizione, rappresentata da Carlos Mesa e Luis Fernando Camacho. Pur condividendo la critica a Morales, ne esprimono due sfumature diverse: moderata quella del primo che non intende cancellare ‘ex abrupto’ quanto è stato fatto dal leader socialista; radicale quella del secondo, sostenitore di una riforma totale del Paese, a partire dal modello federalista. In particolare il 67enne Mesa è stato, tra il 2003 e il 2005, il penultimo Presidente non socialista prima dell’inizio dell’era Morales. Durante il suo governo, l’esponente della CC aveva criticato la repressione di Sánchez de Lozada, che causò 70 morti durante la Guerra del Gas, ma non riuscì a conservare il proprio ruolo. Sostenitore di un ruolo più forte delle istituzioni, Mesa professa una limitazione dell’intervento statale nell’economia e non disdegna il diritto alla salute universale e gratuito anche se con un’apertura ai privati, pilastri della politica socialista. Il che non gli è bastato per vincere, tradito dall’opposizione più radicale che da sempre rappresenta gli interessi delle provincie legate all’export minerario tanto da paventare addirittura la secessione.
Opposizione radicale è Luis Fernando Camacho, avvocato, imprenditore ed ex Presidente della regione più abbiente della Bolivia, il Comité Civico de Santa Cruz. Ricordato come colui che entrò nel Palacio Quemado inginocchiandosi ad una Bibbia, Camacho, alla guida dei Comitati civici, è stato colui che ha fomentato le proteste contro Morales decretando la caduta del suo governo. A combattere quella battaglia e oggi suo candidato Vicepresidente, Marco Pumari, il quale, però, a dicembre, era stato infangato da un audio in cui chiedeva a Camacho in cambio del suo appoggio 250.000 dollari e il controllo della dogana di Potosí, dove è nato. Il loro programma prevedeva, tra le altre cose, il diritto di voto per i sedicenni, la nomina dei membri dei tribunali da parte del Congresso, l’eliminazione della rielezione oltre i due mandati, servizi educativi e sanitari decentrati.
A nulla sembra essere servita la rinuncia alle presidenziali per non disperdere il voto utile degli anti – Morales, fatta dalla Presidente ad interim Áñez, e dall’ex Presidente Jorge «Tuto» Quiroga. Dopo un primo rifiuto, Áñez, già avvocatessa ed ex presentatrice televisiva, si era candidata con una lista propria, ‘Juntos Avancemos’, frutto di una coalizione tra il suo movimento Demócrata Social e due raggruppamenti che avevano sostenuto fino a poco tempo prima Carlos Mesa, nello stupore degli alleati dell’opposizione. Un’idea che, dopo essere stata contestata da Luis Fernando Camacho che condivide con Áñez l’appartenenza alle elites di Santa Cruz e, per questo, convinto del suo sostegno, sarebbe tramontata quando un sondaggio di un mese fa la dava al quarto posto e quindi un pericolo per la performance unitaria dell’opposizione.
La carriera politica di Áñez prese avvio nel 2006, quando venne eletta all’Assemblea Nazionale Costituente con la coalizione PODEMOS, che sosteneva l’ex Presidente Tuto Quiroga. Dal 2010 fino allo scorso anno, si è affermata come la campionessa dell’opposizione al governo Morales. In seguito alle proteste dell’Ottobre 2019 e alle dimissioni di Morales, Áñez venne nominata Presidente in quanto vicepresidente del Senato, dopo le dimissioni dei Presidenti di Senato e Camera e giurò senza quorum in Parlamento.
Il suo governo ad interim iniziò con le critiche per gestione degli scontri di quei giorni che provocarono morti e feriti, in particolare per la ‘mano pesante’ dei militari a cui il nuovo esecutivo aveva cancellato ogni responsabilità penale. Fu per questo che Áñez propose alle famiglie delle vittime un indennizzo di 7.000 dollari e il MAS, che deteneva la maggioranza in parlamento, rispose con una ‘legge di garanzia’ che avrebbe imposto al governo il riconoscimento di risarcimenti anche ai feriti e di salvacondotti per i componenti del governo Morales.
Più recentemente, bande di motociclisti di destra sono scesi in strada nelle città di Cochabamba e Sucre per difendersi dal ritorno del MAS. Di contro, le proteste contro il colpo di stato a El Alto, città a maggioranza indigena, e Sacaba, roccaforte del sindacato dei coltivatori di coca e del MAS, sono state respinte con brutale violenza dalle forze dell’ordine.
Come prima ricordato, l’amministrazione Áñez ha anche provato in tutti i modi a fiaccare il MAS. Ha iniziato un’indagine a tappeto sul patrimonio di molti uomini politici vicini a Morales. Un esempio è quello della sindaca di Vinto, Patricia Arce, accusata di aver riunito un gruppo di persone nella sua abitazione durante il regime di quarantena. Nel sabotaggio dei socialisti, c’è poi finito lo stesso Morales, a cui è stata bloccata, con un cavillo, anche dopo ricorso, la candidatura a senatore per Cochabamba in quanto non residente nel Paese nei due anni precedenti alle elezioni, ma anche il MAS e Arce, rei, secondo le accuse, di aver trasgredito il divieto di diffondere i sondaggi incaricati dai partiti, lo stesso capo di imputazione che impedì ad Áñez di partecipare alle elezioni regionali e municipali del 2015.
Tuttavia, molto del crollo nei sondaggi di Anez è da ricercare anche nell’accusa di aver sfruttato l’emergenza sanitaria del Coronavirus per estendere il suo mandato transitorio per guadagnare consensi. Come accaduto in altri Paesi del mondo, l’appuntamento elettorale era stato rinviato tre volte (dal 3 maggio si è passati al 17, poi al 6 settembre e infine al 18 Ottobre) a causa della pandemia di COVID-19 che in Bolivia portato finora 139.000 contagi (tra cui la Presidente Áñez, 6 ministri e 7 viceministri) e 8350 decessi. Nel corso della campagna elettorale, il triplice rinvio aveva scatenato aspre polemiche con il MAS e la Comunidad Ciudadana, sostenitori di un ritorno al voto il prima possibile per non perdere la loro buona posizione nei sondaggi. Mesa in particolare ha sottolineato la necessità di un governo forte per l’impossibilità di Áñez di gestire il Paese di fronte a una maggioranza parlamentare MASista. Al contrario, Camacho avrebbe preferito recarsi alle urne il prossimo anno per dare più tempo al suo progetto politico di continuare ad aumentare i consensi.
Il numero di contagi, sebbene in numero contenuto, ha subito messo in difficoltà gli ospedali costringendo il governo ad espropriare alcune cliniche e cimiteri privati. La pandemia ha fatto calare la crescita economica del 6%, ha aumentato il tasso di povertà del 7% e ha portato la disoccupazione al 12%. Dati allarmanti che finiscono per gravare sugli strati sociali più umili, indigeni in primis, che hanno protestato in favore della fine del lockdown.
Alle difficoltà sanitarie e socio-economiche, si è aggiunto uno scandalo di corruzione riguardante l’acquisto a prezzo più che maggiorato di 170 respiratori dalla Spagna: ventilatori, poi rivelatisi inadatti alle esigenze COVID, che valevano 7.194 dollari l’uno, sono stati pagati dal governo oltre 28.000 dollari. Uno scandalo che ha messo in manette il Ministro della Salute, Marcelo Navajas. Accuse simili hanno riguardato anche pagamenti illegali in alcuni Ministeri, compravendita di gas lacrimogeno, nomine istituzionali, come il nepotismo in quella della sorella del ministro dell’Interno a console della Bolivia a Miami.
Attestati di stima sono arrivati al vincitore dal presidente venezuelano Nicolás Maduro, che ha elogiato “la sconfitta con i voti di un colpo di Stato contro Morales“, al segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) Luis Almagro. Più di un esperto è convinto che la vittoria di Arce dovrebbe sollecitare il rientro della Bolivia nell’Alianza Bolivariana de los Pueblos de Nuestra América (ALBA), dalla quale l’aveva ritirata la Presidente ad interim Anez, oltre al riavvicinamento a Venezuela e Cuba. Niente a che vedere con l’allineamento diplomatico con gli Stati Uniti, proposto da Mesa e Camacho.
La Bolivia ha un innegabile interesse geopolitico per la regione: alle sue notevoli riserve sia di gas che di litio il cui sfruttamento è oggi in mano dello Stato non hanno potuto accedere, negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti, che la retorica anticapitalista di Morales ha escluso, ma che parrebbe non essere riconfermata da Arce. Il posto degli USA lo ha preso, però, la Cina che controlla, in condivisione del governo di La Paz, il litio a Salar de Uyuni. Pechino, inoltre, insieme a Berlino, fornisce alla Bolivia tutta la tecnologia necessaria all’estrazione.
È così che si avvia a conclusione la crisi istituzionale che da oltre un anno imperversa in Bolivia. Non è stata una rivincita di Morales, vedremo in che misura lo sarà del MAS, che si ritrova alle prese con una situazione sanitaria, economica e sociale senza precedenti. Di sicuro, con buona pace dei ‘golpisti’, sarà stata una rivincita della democrazia.