Il Presidente americano si appresta a nominare il nono giudice della Corte Suprema, dopo il decesso di Ruth Bader Ginsburg: in ballo le elezioni e il futuro della più importante democrazia del mondo
«Penso che le elezioni finiranno alla Corte Suprema: è importante che ci siano nove giudici. C’è abbastanza tempo prima del voto per la conferma del giudice», ha dichiarato nelle ultime ore il Presidente degli Stati Uniti Donald Trumpoggi in visita, nonostante le proteste con cui è stato accolto, per omaggiare le spoglie della giudice liberal Ruth Bader Ginsburg, una ‘leggenda’ secondo il tycoon, deceduta a 87 anni, venerdì scorso, le cui spoglie, da ormai tre giorni sul catafalco costruito nel 1865 per il Presidente Abraham Lincoln, sono state meta di pellegrinaggi, e domani saranno trasferite domani al Congresso, la prima donna ad avere questo onore.
Tra le poche allieve di Harvard e Columbia Law School, Ruth Ginsburg, rifiutata da tutti gli studi legali cui si era proposta, dovette scegliere la strada dell’insegnamento alla Rutgers University, dove inaugurò il corso Women and the Law. La lotta contro la disparità di genere divenne una costante della sua vita. Nel 1972, fondò il Women’s Rights Project all’interno dell’American Civil Liberties Union. Sei su trecento casi legali sostenuti da questo movimento arrivarono alla Corte suprema e ben cinque furono vinti da Ginsburg, fortemente convinta che l’uguaglianza di genere fosse costituzionalmente tutelata dal XIV Emendamento e il Title VI del Civil Rights Act del 1964.
Nominata nel 1980 da Jimmy Carter alla District of Columbia Court of Appeals, vi rimase fino al 1993 quando Bill Clinton la nominò giudice della Corte suprema, la seconda giudice donna della Corte. Dopo il ritiro nel 2006 della collega Sandra O’Connor, in una Corte sempre più marcatamente conservatrice, fu solo grazie alla tenacia di Ruth Ginsburg e alla sua posizione su Ledbetter vs Goodyear che poi il Congresso approvò il Lily Ledbetter Fair Play Act, contro le discriminazioni di genere sul piano della remunerazione.
«La mia ultima e fervente volontà è di non essere rimpiazzata fino a quando non ci sarà un nuovo Presidente alla Casa Bianca», sembra avesse detto in fin di vita questa eroina dell’America liberal il cui timore era la compromissione dell’equilibrio istituzionale americano da parte dell’attuale inquilino dello Studio Ovale il quale, invece, ha subito colto la palla al balzo: «La nomina del nuovo giudice della Corte suprema avverrà probabilmente venerdì o sabato. Il Senato ha un sacco di tempo a disposizione per arrivare al voto prima del prossimo 3 Novembre».
«Presenterò un candidato la prossima settimana. Sarà una donna con grande talento e molto brillante. Penso che dovrebbe essere una donna perché in realtà mi piacciono le donne molto più degli uomini», aveva reso noto nelle stesse ore il Presidente dando qualche indizio sul profilo della persona sulla quale potrebbe ricadere la sua scelta, da fare con precisione chirurgica, tenendo conto delle mappe elettorali, prima del primo dibattito in tv, previsto per il 29 Settembre, con il suo rivale in corsa per la Casa Bianca, Joe Biden, peraltro piuttosto silenzioso, secondo alcuni osservatori, in questa materia, rispetto ai democratici al Congresso: a questo proposito, la Senatrice della California Dianne Feinstein, leader dei democratici nella Commissione Giustizia, ha denunciato a gran voce l’ipocrisia e il doppiopesismo repubblicani: quando, nell’inverno del 2016, morì improvvisamente il giudice conservatore Antonin Scalia, i repubblicani, forti della loro maggioranza al Senato, impedirono la nomina del giudice scelto da Barack Obama, un moderato, Merrick Garland, nonostante mancassero 200 giorni alle elezioni. Due pesi, due misure.
Sono subito iniziate le speculazioni in merito, stando a quanto affermato dal Presidente, ai «cinque i nomi papabili»: in pole Amy Coney Barrett, ricevuta ad inizio settimana alla Casa Bianca, di 48 anni, cattolica integralista, madre di sette figli, originaria dell’Indiana come il vicepresidente Mike Pence, è giudice del circuito della corte d’appello di Chicago, ex collaboratrice del defunto giudice conservatore della Corte Suprema Antonin Scalia, ed è da molti conosciuta per le sue posizioni pro-lite e anti-abortiste; tra le favorite, è circolato anche il nome di Barbara Lagoa, 52 anni, nata a Miami da immigrati cubani, prima donna ispanica nominata nella Corte suprema della Florida, nel gennaio 2019 e che potrebbe dare un aiuto decisivo a Trump in un duello elettorale che i sondaggi prevedono nello Stato in bilico, spostando, magari, alcuni voti ‘latinos’. Di lei, Trump ha sostenuto che «è eccellente, è ispanica, ed è una donna fantastica da quello che so. Non la conosco. Ma è della Florida e noi amiamo la Florida». Ci sarebbe poi Allison Jones Rushing, già nella squadra dei giudici Clarence Thomas e di Neil Gorsuch, uno dei due già nominati per il ruolo all’alta corte da Trump.
Il Presidente si è detto ‘molto fortunato’ a poter nominare tre giudici della Corte suprema, «alcuni Presidenti non ne hanno potuti scegliere nessuno». Potrebbe diventare il primo dopo Ronald Reagan a nominarne tre in un solo mandato. Inoltre, come osserva più di un analista politico, questa nomina gli offrirebbe l’occasione di rilanciare una campagna elettorale in difficoltà, nonostante i reiterati annunci di un vaccino contro il COVID-19 entro la fine di ottobre, a fronte di oltre 200mila vittime.
In un’intervista alla ‘Fox News’, il Presidente ha messo in dubbio le ultime volontà del giudice Ginsburg: prima di morire, RBG ha scritto alla nipote che il suo «più fervente desiderio è di non essere rimpiazzata prima che si insedi un nuovo Presidente». «Non so se lo ha detto o se lo hanno scritto Adam Schiff o Nancy Pelosi», ha detto Trump, citando il presidente della Commissione Intelligence e la speaker della Camera (e poi anche il leader dei democratici al Senato Chuck Schumer). «Sarei più incline per la seconda ipotesi … questa cosa è venuta fuori dal vento, sembra così meravigliosa … Forse lo ha detto, forse non l’ha detto».
Riguardo all’ipotesi di una nuova procedura di impeachment qualora forzasse i tempi della nomina prima del 3 Novembre, Trump ha poi risposto: «Ho sentito che mi metteranno sotto impeachment per avere fatto quello che devo fare in base alla Costituzione… Se faranno una cosa del genere, i miei numeri andranno su e noi vinceremo tutte le elezioni …, riconquisteremo la Camera, che penso vinceremo in ogni caso».
La sottolineatura di Trump, nel colloquio con ‘Fox News’, che il Senato avrà «tutto il tempo» di confermare il nuovo giudice prima del voto ha causato più di un mal di pancia, non solo tra i suoi oppositori, soprattutto tra chi ha cuore la stabilità della più importante democrazia del mondo.
In ballo, infatti, ci sarebbero, per prima cosa, le imminenti elezioni il cui esito, secondo il Presidente, è probabile finirà sul tavolo della Suprema. Come noto, il Presidente americano, già alcune settimane fa, ha espresso dubbi circa la correttezza delle elezioni, a fronte di un possibile massiccio ricorso al voto per corrispondenza, onde evitare il contagio COVID-19, che favorirebbe Joe Biden, arrivando ad esortare gli elettori a votare due volte.
In un contesto simile, ove la partita si gioca all’ultimo voto, il testa a testa potrebbe essere così serrato fino al completo (lungo) spoglio delle schede elettorali per corrispondenza in diversi Stati chiave (come la Florida, il Wisconsin, Pennsylvania, Michigan) e non è detto che si conosca il vincitore la mattina del 4 Novembre. Qualora uno dei candidati si rifiutasse di accettare il risultato, questo potrebbe portare a diverse cause legali per interrompere il conteggio, per proseguirlo o forzare un riconteggio.
Va ricordato che, con solo poche eccezioni, sono i singoli Stati a gestire il processo elettorale: in virtù dell’articolo 1, sezione 4 della Costituzione, è infatti la legge statale a disciplinarne quasi ogni aspetto. Di conseguenza, le possibili contestazioni elettorali, dove la retorica potrebbe prendere il sopravvento sulla realtà, dovranno iniziare e, in molti casi finiranno, nei tribunali statali, che applicheranno le leggi dei singoli Stati nei quali si trovano, anche se è probabile che, vista la laboriosità e complessità, tali contestazioni verranno archiviate da entrambe le parti, specie negli Stati meno in bilico.
Certo è che un candidato deve innanzitutto identificare con esattezza quale violazione della legge statale è stata commessa nel corso del procedimento elettorale. Ogni Stato poi dispone di un meccanismo per risolvere le controversie. È difficile che una decisione del tribunale supremo di uno Stato su come applicare una legge statale venga impugnata dinanzi a un tribunale federale, ma, come si è visto nel caso Bush-Gore del 2000, ci sono momenti in cui un tribunale federale può essere chiamato a giudicare un caso relativo alle elezioni: il requisito attiene ad una presunta violazione dei diritti costituzionali federali, come quelli previsti dal 14° emendamento alla pari protezione o al giusto processo legale o quelli sanciti dal Voting Rights Act del 1965, che si basa sul 15° emendamento.
Il caso Bush-Gore scoppiò a seguito di numerose cause legali innescate dal voto in Florida. Dopo che entrambe le campagne intentarono azioni legali in vari tribunali statali, la Corte Suprema della Florida decise di prolungare il conteggio manuale dei voti fino al 26 novembre 2000, otto giorni dopo il termine statutario per la certificazione dei risultati delle elezioni al Congresso. A quel punto, Bush contestò ale decisione presso la Corte Suprema degli Stati Uniti. In un voto conclusosi 5 a 4, la Corte Suprema stabilì che il riconteggio ordinato ordinato dalla Corte Suprema della Florida violava la clausola di pari protezione a causa dell’incapacità dei tribunali della Florida di stabilire uno standard uniforme per distinguere i voti legali da quelli illegali comune a tutte le contee. La Corte quindi concluse che questa era una violazione dei diritti del 14° emendamento al giusto processo e alla pari tutela della legge.
Non è escluso che la storia possa ripetersi anche quest’anno, e non solo in Florida. Lo stallo politico, però, sarebbe dietro l’angolo. Nelle elezioni del 2000, la decisione della Corte Suprema fu risolutiva anche perché entrambe le parti e il popolo scelsero di accettare l’autorità neutrale della Corte che prese la decisione. Non è detto che accada di nuovo, vista la grande polarizzazione nella società americana. Senza contare la stessa natura politicizzata delle scelte dei giudici della Corti Supreme data la loro appartenenza ad uno schieramento.
La Corte Suprema federale potrebbe dunque essere l’ago della bilancia, e Trump preferirebbe non correre rischi, blindando la maggioranza conservatrice al suo interno 6 a 3. “Il giudice Ginsburg è stata un gigante, una paladina della giustizia”, ha detto Kamala Harris, candidata democratica alla vice-presidenza, che ha reso omaggio alla Ginsburg recandosi alla Corte Suprema. “La posta in gioco nel voto non potrebbe essere maggiore – ha precisato la Harris -. Milioni d’americani contano su di noi per vincere e proteggere la Corte Suprema per la loro salute, le loro famiglie e i loro diritti”.
Essendo la nomina alla Corte Suprema a vita ed essendo l’età media delle candidate piuttosto giovane, una maggioranza conservatrice così schiacciante potrebbe vincolare l’agenda non solo della prossima Amministrazione e del prossimo Congresso, ma dei prossimi decenni, un regalo agli elettori repubblicani e soprattutto evangelici.
Le conquiste della rivoluzione dei diritti civili a partire dagli anni ’50 e ’60 potrebbero tornare in bilico. Questo, innanzitutto, perché la Corte prende in esame solo i casi che i giudici scelgono di esaminare e quattro è il numero minimo di giudici richiesto per affrontare un caso. I giudici liberal avrebbero comunque bisogno del voto di un conservatore per portare una questione sul tavolo della Corte. Essendo più certa del risultato, la maggioranza conservatrice della Corte probabilmente si occuperebbe di una gamma più ampia di casi controversi come molti regolamenti sull’aborto, o sulle armi che sono stati contestati come una violazione del Secondo Emendamento e i conflitti in corso tra i diritti degli omosessuali e i diritti religiosi che la corte ha finora eluso.
Inevitabilmente l’espansione della sfera dei diritti che la Corte ha garantito nell’ultimo mezzo secolo si arresterebbe: se alcuni diritti come la libertà di religione, parola o la difesa personale sono considerati intoccabili per i conservatori, lo stesso non si può dire per l’aborto, l’assistenza sanitaria, la religione, i diritti LGBT (di cui il giudice Kennedy fu grande sostenitore), la privacy o la pena di morte (intesa come violazione dell’Ottavo Emendamento). Anche sulla cittadinanza per diritto di nascita, che molti credono sia protetta dal 14° emendamento, probabilmente non sarà formalmente riconosciuta dalla Corte per figli di residenti non autorizzati. Per non parlare della lotta contro le limitazioni al diritto di voto, decise da alcuni regolamenti statali: a tal riguardo, un successo conquistato nel 2018, con una decisione 5-4, fu consentito all’Ohio di eliminare le liste di voto degli elettori poco frequenti.
Da questo punto di vista, ad ottenere maggiore protezione saranno i diritti già tutelati dalla Carta dei diritti e, in ogni caso, i diritti individuali saranno probabilmente penalizzati rispetto agli sforzi del governo per proteggere la sicurezza nazionale. Una Corte a maggioranza conservatrice finirebbe, a detta di molti esperti di diritto costituzionale, per spostare il potere di decidere quali libertà tutelare dai tribunali alle istituzioni statali e locali.
Occorre evidenziare che la nomina di tre o più giudici non è storicamente insolita per un Presidente. Ben 10 dei 20 Presidenti eletti dall’inizio del XX secolo prima di Trump hanno avuto l’opportunità di nominare più di due giudici. Tra questi, Franklin D. Roosevelt che ne ha nominati nove, Dwight Eisenhower cinque e Richard Nixon quattro.
Però, come si può intuire da quanto detto finora, più giudici può nominare un Presidente, maggiore è l’opportunità di plasmare la direzione futura della più alta Corte della nazione. Fino agli anni ‘50 tendenzialmente conservatore, superata la metà del secolo, la Corte avrebbe dato molta attenzione ai diritti e alle libertà.
Dagli anni ‘80 in poi, la Corte si era consolidata come un tribunale di tendenza conservatrice con almeno un giudice centrista che poteva essere persuaso a unirsi ai liberali. È anche vero che se anche Trump riuscisse a nominare il successore di Ruth Ginsburg, è improbabile che la Corte abbia una deriva improvvisa a destra, per evitare la quale Biden si era già candidato nel 2016. È più probabile un cambiamento lento e incrementale che erode i margini o le basi delle principali sentenze liberali.
Trump riuscirà nel suo intento? L’articolo II, sezione 2 prevede che il Presidente “nominerà, e con e con il consiglio e il consenso del Senato, nominerà … i giudici della Corte Suprema”. Per legge, fintanto che è alla Casa Bianca, il presidente Trump può nominare chi vuole per sostituire il giudice Ginsburg attraverso un processo in tre fasi: nomina da parte del Presidente, conferma da parte del Senato e nomina ufficiale da parte del Presidente.
La conferma da parte del Senato inizia nella Commissione Giustizia che nel 2016 si rifiutò di prendere in considerazione la nomina del giudice Garland da parte dell’allora Presidente Obama. “Quando hai i voti, puoi fare quello che vuoi” ha ribadito con sicumera il tycoon in questi giorni, forte del fatto che il Presidente della commissione giustizia del Senato, Lindsey Graham, si è spinto a dire che i repubblicani hanno i numeri per decidere e non si faranno intimidire.
Ad oggi, la Commissione risulta composta da 22 membri di cui 12 repubblicani e 10 democratici (tra cui la candidata alla Vicepresidenza Kamala Harris) e, per prima cosa, è chiamata ad analizzare il curriculum del candidato. Tale compito può richiedere dai 30 ai 45 giorni, ma è facile immaginare che vada molto più velocemente.
Successivamente, la commissione tiene un’audizione pubblica, in cui il candidato viene ascoltato circa le sue opinioni e le sue posizioni giuridiche. Infine, la commissione riferisce la sua raccomandazione all’intero Senato come favorevole, negativo o nessuna raccomandazione.
I 10 membri democratici della a commissione hanno già inviato una lettera al Presidente, il senatore repubblicano Lindsey Graham, invitandolo a “dichiarare in modo inequivocabile e pubblico che non prenderà in considerazione nessun candidato per occupare il seggio del giudice Ginsburg fino a dopo l’inaugurazione del prossimo presidente. . ” Ma ciò sembra altamente improbabile, nonostante nel 2018 lo stesso Graham affermasse “[se]si verifica un posto vacante nell’ultimo anno del primo mandato, puoi dire che Lindsey Graham ha detto lasciamo che il prossimo presidente, chiunque sia , fai quella nomination. “
Una volta concluse le audizioni pubbliche, i Democratici potrebbero ritardare di qualche giorno il voto in Commissione, ma niente di più in quanto l’ultima battaglia è in Aula. Qui, i Senatori dell’Asinello dovrebbero, in sede di sessione esecutiva, prolungare il dibattito il più possibile, ma la conclusione dello stesso necessita di una maggioranza semplice, oggi nelle mani repubblicane.
Le possibilità che, nonostante l’opposizione dei democratici, il Senato possa decidere di non ostacolare la scelta del Presidente prima delle elezioni sono aumentate dopo che il senatore dello Utah Mitt Romney, un repubblicano, già candidato alla Casa Bianca nel 2012 contro Barack Obama, per niente allineato a Trump (è stato, per esempio, l’unico repubblicano a votare in favore dell’impeachment), aveva chiarito: “La Costituzione dà al presidente il potere di designare, e al Senato l’autorità di consentire, le nomine alla Corte suprema. Di conseguenza intendo seguire la Costituzione. Se la proposta di nomina arriva in aula al Senato, la voterò basandomi sulle sue competenze”.
Per bloccare la nomina, dovrebbero essere almeno quattro i senatori repubblicani a votare contro: stando al dettato costituzionale, per eleggere un giudice della Corte Suprema servono 51 voti e i senatori repubblicani sono 53 (contro i 45 dei democratici e due indipendenti in caucus con i democratici). Le senatrici repubblicane Lisa Murkoski e Susan Collins(quest’ultima con il seggio da riconfermare a Novembre), rispettivamente dell’Alaska e del Maine, hanno già dichiarato la loro defezione a un voto prima delle elezioni. Ci sarebbe poi l’incognita dell’Arizona dove, a Novembre, si terrà un’elezione suppletiva per la quale il democratico Mark Kelly pare favorito sulla repubblicana Martha McSally. Uno scenario che assottiglierebbe la maggioranza repubblicana in Senato e che, di conseguenza, spinge Trump ad accelerare i tempi. Tuttavia, l’asso nella manica non gli mancherebbe: infatti, anche se alla fine fossero tre i voti mancanti, la maggioranza necessaria non verrebbe comunque meno visto che il Vicepresidente americano Mike Pence, che di diritto è il Presidente del Senato, ha già più volte risolto gli stalli, fungendo da cosiddetto ‘tie breaker’, venendo meno ad una lunga tradizione che portava i vicepresidenti a rinunciare a questa prerogativa. Quel che colpisce è che il Senato non ha mai riempito un posto vacante della Corte Suprema così a ridosso alle elezioni presidenziali. Il momento più vicino in passato risale a quando il giudice capo Charles Evans Hughes si è dimesso dalla Corte per candidarsi alla presidenza. E questo era 150 giorni prima delle elezioni.
Anche nella peggiore delle ipotesi per cui anche un quarto senatore repubblicano si astenesse e la nomina dovesse saltare, Trump, come ha già lasciato intendere, potrebbe fare della mancata nomina del nuovo giudice un cavallo di battaglia per la campagna elettorale, presentandosi come il ‘Salvatore della Patria’ in lotta per la Corte suprema e per l’avvenire dell’America. E questo potrebbe spingere anche i più critici di Trump tra i conservatori a votare per il tycoon pur di non permettere al Paese di prendere un’altra piega.
In caso di sconfitta alle elezioni, Trump ha oggi reso noto che si rifiuta di impegnarsi in una transizione pacifica dei poteri e che “dovremo vedere cosa succede”. “Il Presidente accetterà il risultato di elezioni imparziali e libere”, ha provato a correggere il tiro la portavoce della Casa Bianca Kayleigh McEnany, sebbene il tycoon non sia nuovo a dichiarazioni di questo tipo se si considera che già nel 2016 aveva rifiutato di impegnarsi a onorare i risultati delle elezioni se il suo avversario democratico, Hillary Clinton, avesse vinto. Il suo attuale sfidante democratico, Joe Biden, interrogato sul commento di Trump, dopo l’atterraggio a Wilmington, nel Delaware ha risposto: “In che Paese ci troviamo? Scherzo, guardate, lui dice le cose più irrazionali. Non so cosa dire, ma non mi sorprende”.
È, però, l’esternazione del dissidente repubblicano Mitt Romney a mettere in evidenza la preoccupazione che serpeggia anche tra quei repubblicani più refrattari al Presidente in carica: “La transizione pacifica del potere è fondamentale per la democrazia, senza, è la Bielorussia. Qualsiasi allusione al fatto che il presidente potrebbe non rispettare questa garanzia costituzionale è impensabile e inimmaginabile”. E, sulla scorta di questa considerazione, non è detto che Romney non possa cambiare opinione circa il voto da dare in caso di nomina.
“Chi ha i voti decide” è ciò che ripete convintamente Trump e con lui molti populisti in diverse parti del mondo. Come se i voti togliessero i limiti, abbattessero, al pari di una marea, le mura difensive, le procedure formali, i meccanismi di pesi e contrappesi, che le democrazie si sono costruite nei decenni quali garanzie, argini contro le derive e le perversioni cui possono andare incontro. È così che muoiono le democrazie. L’insofferenza verso questi ‘anticorpi’ preoccupa, soprattutto se ad esprimerla è il rappresentante di quella che è stata considerata e si è considerata il faro della democrazia contro gli autoritarismi, un’eccezione di esempio per tutto il pianeta. Per Trump, che dice di voler combattere la malvagità del brutale regime cinese (pur ‘invidiando’ Xi Jinping che può governare senza limiti di tempo), ha quindi ragione Vladimir Putin, da lui tanto stimato, secondo il quale la democrazia liberale, basata sulla divisione dei poteri e sull’alternanza, il modello sul quale l’Occidente, e l’America in primis, hanno fondato se stessi, è destinata a soccombere? Se così fosse, parafrasando una frase del drammaturgo rumeno Eugene Ionesco, ‘Dio è morto, Marx è morto … e la democrazia americana non si sente tanto bene’.