Non può e non deve lasciare indifferenti l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dal Trattato ‘Open Skies’, uno di quegli accordi che mirano “non soltanto ad una riduzione degli armamenti, ma anche a creare un’atmosfera di fiducia reciproca che sta venendo meno. E questo è un ingrediente che, purtroppo, potrebbe scatenare una nuova corsa al riarmo”. L’intervista al Generale Vincenzo Camporini (IAI)
Annunciata quattro giorni fa, la decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dal Trattato‘Open Skies’ (‘Cieli Aperti’) costituisce un altro duro colpo inferto alla sicurezza europea e globale, minando la sempre più fragile architettura di controllo e regolazione degli armamenti.
Presentato per la prima volta dal Presidente Dwight D. Eisenhower nell’estate del 1955 e respinto da Nikita S. Krusciov, poi rinegoziato dal Presidente George H.W. Bush insieme al suo Segretario di Stato, James Baker, il Trattato, firmato nel 1992 ed entrato in vigore nel 2002, oggi comprendente 34 Paesi, è figlio della fine della Guerra Fredda e del disgelo tra Washington e Mosca, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica.
La ratio è molto semplice: aumentare la fiducia reciproca, riducendo le possibilità di equivoci o cattive interpretazioni delle mosse dell’altro che potrebbero condurre ad una guerra. Come? Puntando sulla trasparenza dell’attività di intelligence: il Trattato consente infatti ai firmatari di effettuare con breve preavviso (72 ore) dei voli di ricognizione reciproci, impiegando velivoli non armati, ma dotati di sofisticati sensori e particolari apparecchiature di rilevazioni elettronica (specificati dal Trattato) per raccogliere informazioni ed osservare le attività militari della controparte. Gli Stati Uniti, per queste missioni, usano due vecchi velivoli Boeing OC-135B, che vengono pilotati dal 45 ° squadrone di ricognizione fuori dalla base aerea di Offutt, Nebraska mentre la Russia aerei Tupolev Tu-154M. Per regolare controversie e violazioni, è prevista dal Trattato la Open Skies Consultive Commission (OSCC).
«Ho buone relazioni con Mosca, ma non rispetta il Trattato», ha dichiarato il Presidente americano, Donald Trump, motivando la sua scelta. «Non possiamo rimanere vincolati da un Trattato che i russi violano impunemente», gli ha fatto eco Marshall Billingslea, rappresentante di Trump per il controllo sugli armamenti. Altrettanto dura è stata la presa di posizione del Segretario di Stato, Mike Pompeo: «Mosca sembra utilizzare le immagini di ‘Open Skies’ a sostegno di una nuova dottrina russa aggressiva volta a colpire le infrastrutture critiche negli Stati Uniti e in Europa con munizioni convenzionali guidate con precisione. Piuttosto che usare il Trattato ‘Open Skies’ come meccanismo per migliorare la fiducia attraverso la trasparenza militare, la Russia ha, quindi, armato il trattato trasformandolo in uno strumento di intimidazione e minaccia».
Parlando all’emittente ‘Rossiya 1’, il Viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov, ha rispedito al mittente le accuse di Pompeo che «provocano grande divertimento negli uffici e nei quartieri generali di Mosca».
Alla Russia, Washington rimprovera l’utilizzo dei sorvoli per catalogare strutture nevralgiche, non solo militari, sul territorio americano, che potrebbero essere prese di mira in caso di attacco, anche cibernetico. Circostanza che, secondo William R. Evanina, Direttore del Centro nazionale di controspionaggio e sicurezza, pone «un rischio inaccettabile per la nostra sicurezza nazionale». Stando alle denunce di Washington nel corso degli anni, Mosca avrebbe bloccato più volte i legittimi voli su alcune città o regioni controverse: nel 2014, il Cremlino impose un limite di 500 chilometri per i voli sull’enclave di Kaliningrad; nel 2010, impedì il sorvolo di Abkhazia e Ossezia del Sud; nel 2019, la Russia ha impedito un sorvolo americano e canadese della sua esercitazione Tsentr. Nel 2017, gli Stati Uniti, dopo aver denunciato l’ennesima violazione, hanno deciso, per rappresaglia, di impedire il sorvolo di Hawaii e Alaska. A niente è invece valsa l’autorizzazione accordata da Mosca a Febbraio di quest’anno alla missione americana, lettone e lituana per sorvolare Kaliningrad.
Ciò detto, l’amministrazione Trump ne fa anche una questione di utilità e costi: perché spendere 250 milioni di dollari per queste missioni, consentendo alla Russia di condurre indagini sulle attività in territorio americano, per ottenere dati che, con risoluzioni anche migliori, potrebbero essere ricavati, risparmiando, dai satelliti?
Di sicuro, la decisione americana non ha fatto piacere agli alleati europei. Al termine di una riunione di due ore del Consiglio Atlantico, il forum degli ambasciatori dei Paesi membri dell’Alleanza nel quartier generale di Bruxelles, 10 Paesi europei – Italia, Francia, Germania, Belgio, Finlandia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Repubblica Ceca, Spagna e Svezia – hanno diffuso un comunicato nel quale si chiarisce: «Ci rincresce che il governo USA abbia annunciato la sua intenzione di ritirarsi da ‘Open Skies’, anche se condividiamo le sue preoccupazioni circa l’attuazione da parte della Russia delle sue clausole». Tuttavia, è la posizione degli europei, «è un elemento cruciale e continueremo a dare attuazione al Trattato, che fornisce un chiaro valore aggiunto alla nostra architettura di controllo degli armamenti convenzionali e alla nostra sicurezza cooperativa. Ribadiamo che questo Trattato rimane in funzione ed è utile».
Una frattura in seno alla NATO come testimonia la reazione del Segretario generale, Jens Stoltenberg, dal tono più cauto: «L’attuazione selettiva da parte della Russia dei suoi obblighi ha minato il contributo di questo importante Trattato alla sicurezza e alla stabilità nella regione euro-atlantica». Stoltenberg ha anche ribadito che gli Stati Uniti entro sei mesi potrebbero «riconsiderare il loro ritiro qualora la Russia tornasse alla piena osservanza del Trattato».
Il Pentagono ha rilasciato una dichiarazione nella serata di Giovedì, spiegando che «gli Stati Uniti sono in stretta comunicazione con gli alleati e il partner in merito alla nostra revisione del Trattato e esploreremo le opzioni per fornire ulteriori prodotti di immagini agli alleati per mitigare eventuali lacune che potrebbero derivare da questo ritiro». Questo è, per l’appunto, ciò che temono alcuni Paesi europei più piccoli come l’Estonia il cui Ministro della Difesa, Juri Luik, all’emittente ’Err’, commentando l’annuncio dato nei giorni scorsi da Donald Trump, ha evidenziato: «Gli statunitensi hanno altri mezzi per raccogliere informazioni: i satelliti, in primo luogo. Ma per i Paesi più piccoli, compresa l’Estonia, questo trattato ha un grande valore». «Credo» – ha aggiunto – «che i diplomatici abbiano ora un ruolo molto importante nel tentativo di salvare questo trattato. Se gli Stati Uniti si ritirano, dovremo decidere tutti cosa fare dopo».
Ad intervenire anche l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Joseph Borrell, il quale non ha nascosto il rammarico per la decisione degli Stati Uniti di abbandonare il Trattato sui cieli aperti, «un elemento chiave della nostra architettura per il controllo degli armamenti». Ciò nonostante, «il Trattato assicura trasparenza e prevedibilità» ed è «un contributo importante alla sicurezza europea e globale. Tutti gli Stati parte devono continuare a riconoscerlo e ad assicurare la piena attuazione del Trattato. Ritirarsi dal Trattato non è una soluzione per rispondere alla difficoltà nell’attuazione e nel rispetto da un’altra parte».
Il ritiro da ‘Open Skies’ segue quello deciso da Trump nel 2017 dal nucleare iraniano (JCPOA) e dall’Intermediate Nuclear Forces Treaty (INF) del 1987, che bandiva i missili con gittata da 500 a 5.500 chilometri. Poco ottimismo regna sul futuro del New START, il trattato che limita a 1.550 le testate nucleari schierate da Stati Uniti e Russia, e che scade nel Febbraio 2021, tre mesi dopo le imminenti elezioni presidenziali americane.
Il ritiro da ‘Open Skies’, insieme a quello del nucleare iraniano e all’INF, potrebbe diventare un punto di discussione nella campagna elettorale. Lunedì scorso, Antony J. Blinken, il consigliere di politica estera di Joe Biden, il candidato democratico alla presidenza, ha affermato che «sarei molto a favore di rimanere impegnato in Open Skies». Di tutt’altro parere il Senatore repubblicano Ted Cruz del Texas, un sostenitore di vecchia data del ritiro, ha dichiarato in una dichiarazione: «Era molto tempo che gli Stati Uniti si ritirassero da questo trattato e smettessero di consentire alla Russia di usare i nostri cieli per spiare il popolo americano».
Il rappresentante Dem di New York, Eliot L. Engel, Presidente della commissione Affari esteri della Camera, ha dichiarato illegale la mossa di Trump, rilevando che il National Defense Authorization Act del 2019 richiede che il presidente dia al Congresso un preavviso di 120 giorni prima di iniziare il processo di ritiro . E Trump ha firmato quell’atto. «C’è qualcosa di particolarmente pericoloso in un presidente, un segretario di stato e un segretario alla difesa che infrangono consapevolmente la legge in modo da mettere a repentaglio la nostra sicurezza e la sicurezza nazionale», ha affermato Engel in una nota.
Trump si sarebbe detto convinto che c’è «la possibilità di fare un nuovo accordo o di fare qualcosa per salvare quello in vigore. Penso che ciò che accadrà è che ce la faremo e torneremo a fare un nuovo accordo». Ma perché la Russia ne dovrebbe negoziare un altro quando quello in vigore continua ad essere funzionante? Molte perplessità lascia anche l’obiettivo di un eventuale coinvolgimento della Cina, che comunque non fa parte di ‘Open Skies’, in negoziati per la limitazione degli armamenti. Raggiungere questo scopo vale far ripiombare l’Europa e il mondo nell’incertezza e nel terrore?
Sulla base di queste considerazioni, interrogarsi sulla sicurezza europea e globale è necessario e, nel farlo, è impossibile non rendersi conto di quanto il ritiro dal Trattato ‘Open Skies’ rappresenti un’altra ipoteca sul futuro pacifico del Pianeta. Impegnarsi per salvare questo Trattato dovrebbe essere, perciò, prioritario, come auspicano, in un appello, una ventina di diplomatici ed alti ufficiali militari europei, tra i quali Vincenzo Camporini, Vicepresidente dello IAI (Istituto Affari Internazionali), già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, poi della Difesa, e, fino a Novembre 2011, consulente del Ministro degli Affari esteri, Franco Frattini. Ed è proprio al Generale Camporini che abbiamo rivolto alcune domande per comprendere l’importanza di ‘Open Skies’ e, quindi, le inquietudini generate dall’annunciato ritiro americano.
Generale Camporini, Lei, insieme ad alcuni alti ufficiali militari e diplomatici europei, ha sottoscritto un appello rivolto non solo agli Stati Uniti, ma anche a tutti gli altri Paesi firmatari, per salvare il Trattato ‘Open Skies’ (‘Cieli Aperti’), dal quale l’Amministrazione Trump ha annunciato pochi giorni fa il ritiro. Da quali timori nasce questo appello e perché è così importante fare di tutto per mantenere in vita il Trattato ‘Open Skies’?
La spinta a questo appello nasce dalla constatazione che è in atto da tempo un’operazione per smantellare tutta quell’architettura dei trattati per il controllo degli armamenti che sono figli degli Accordi di Helsinki. Da questo punto di vista, credo che ci sia di che preoccuparsi in quanto sono accordi che miravano non soltanto ad una riduzione degli armamenti, ma anche a creare un’atmosfera di fiducia reciproca che sta venendo meno. E questo è un ingrediente che, purtroppo, potrebbe scatenare una nuova corsa al riarmo che tutti quanti cerchiamo di esorcizzare. Dopo il Trattato ABM e l’INF, adesso ‘Open Skies’, non rimane altro che il problema enorme del New START.
Cosa prevede questo Trattato?
Essenzialmente il Trattato prevede per i Paesi firmatari la possibilità di ‘visite reciproche’ utilizzando velivoli appositamente equipaggiati nei territori altrui, secondo un programma annuale molto chiaro e definito: ci sono delle quote di cui ogni singolo Paese dispone utilizzando le quali vengono pianificate delle missioni di ricognizione. Per compierle, sono impiegati dei velivoli dotati di particolari sensori, anche questi specificati dettagliatamente dal Trattato; ogni velivolo utilizzato viene ispezionato dal Paese ospitante affinché sia in linea con quanto previsto dal Trattato. Vengono quindi compiuti questi voli con sensori multispettrali (ottici, infrarossi, ecc.) e in questo modo viene incrementato il livello di fiducia reciproca perché ‘non ci nascondiamo più’ e quindi viene favorita un’apertura politica che, a questo punto, verrà a mancare.
Quali mezzi vengono impiegati per effettuare i sorvoli?
Sono macchine generalmente da trasporto adeguatamente modificate: da parte occidentale, è stata grandemente utilizzata la C-130 così come, da parte russa, sono state molto impiegate le Antonov o Tupulev. Ma la cosa fondamentale è che tutto quanto è scritto e verificato, non c’è nulla di arbitrario o inventato. Quindi, diciamo che se viene meno questa possibilità, teoricamente vietiamo tutto, praticamente possiamo consentire tutto.
Gli Stati Uniti hanno motivato il loro ritiro denunciando reiterate violazioni da parte della Russia. In particolare, Washington accusa Mosca di aver utilizzato i voli per catalogare strutture nevralgiche, non solo militari, ma anche civili, che potrebbero essere prese di mira in caso di attacchi (anche di natura cibernetica). Quanto c’è di vero in questa accusa?
Se sono stati fatti i controlli previsti dal Trattato sia sui sensori sia a bordo di questi aeroplani, questo rischio non c’è. Se questi controlli non sono stati fatti, è un problema del Paese ospitante, non di quello che invia. Da questo punto di vista, è una motivazione che mi lascia molto perplesso anche perché, se vogliamo, l’utilità reale di questi voli è stata un pochino appannata dalla disponibilità odierna di sensori satellitari.
Secondo l’Amministrazione americana, il Trattato ‘Open Skies’ sarebbe obsoleto in quanto, ad oggi, è possibile avere dati anche migliori, senza spendere i circa 250 milioni di dollari che è il costo di queste missioni. “Dove i satelliti non possono attraversare le nuvole, gli aerei volano al di sotto”, ricordate nell’appello ai Paesi contraenti. Le immagini satellitari, oggi disponibili anche in via commerciale, possono sostituire quelle di un aereo con sensori o sono, quanto meno, complementari?
La tecnologia rispetto a quando, negli anni ‘90, abbiamo cominciato a negoziare il Trattato, è cambiata radicalmente. All’epoca c’erano solamente sensori ottici, adesso sono multispettrali in grado di avvistare qualsiasi banda di frequenza. Da questo punto di vista le argomentazioni di Washington non sono completamente sballate. Oggi neanche le nubi costituiscono un problema. Ma quello che è importante è lo spirito e le intenzioni con cui questi trattati sono stati sottoscritti. Se vengono messi in discussione, il rischio è prima politico che tecnico.
La Russia – denunciano, inoltre, gli Stati Uniti – blocca regolarmente i legittimi sorvoli americani su Kaliningrad, Georgia, Cecenia, Abkhazia, Ossezia del Sud e, addirittura, Mosca. Ci sono conferme effettive di queste violazioni?
Non saprei, non ho dati attendibili per dire se sono accuse fondate oppure no. Se fossero vero, è chiaro che la Russia violando lo spirito del Trattato e quindi dovrebbe essere richiamata.
Un’altra violazione denunciata da Washington è la circostanza per cui i velivoli russi, dirigendosi verso un Paese da sorvolare (ad esempio, la Germania), registrerebbe le attività anche su un Paese terzo (ad esempio, la Polonia). È un rischio che c’è, non ben considerato dal Trattato?
Questo è un rischio che c’è. Non sappiamo che cosa si fa a bordo di questi aeroplani nel volo di trasferimento per raggiungere il Paese da sorvolare. Questo è un punto debole che, però, mi lascia molto perplesso nel senso che il fine ultimo del Trattato è la trasparenza e quindi evitare, per esempio, che qualsiasi spostamento militare possa avvenire di nascosto.
Esiste un sistema di sanzioni per chi viola il Trattato?
In caso di contestazioni, sono previste delle riunioni plenarie in modo tale che ciascuno dica le sue ragioni.
Ci sono sperequazioni tra le quote di sorvoli di Stati Uniti e Russia?
Non credo, ma comunque è tutto verificabile consultando il Trattato.
Eppure, da questo Trattato, gli Stati Uniti ricavano dei vantaggi: nel vostro appello, ricordate che “Washington trae profitto da questo ‘strumento di impegno militare’ in quanto contribuisce ad una maggiore trasparenza e stabilità della regione euro-atlantica”.
Il Trattato contribuisce ad aumentare la fiducia e, quindi, ad abbassare le tensioni. Tensioni che hanno un prezzo, anche economico, e che, se possono essere evitate con qualsiasi mezzo, consentono una maggiore economicità delle azioni.
A questo riguardo, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’UE, Joseph Borrell, ha espresso il suo rammarico per la decisione degli Stati Uniti di abbandonare il Trattato ‘Open Skies’, “un elemento chiave della nostra architettura per il controllo degli armamenti”, che “assicura trasparenza e prevedibilità” ed è “un contributo importante alla sicurezza europea e globale”. Nel vostro appello, rimarcate che “mentre i vantaggi in termini di intelligence e rafforzamento della fiducia sono limitati per gli USA, sono molto reali per gli alleati europei”. Perché è così vitale per i Paesi europei salvaguardare questo Trattato?
I Paesi europei sono nella stessa situazione della Guerra Fredda. La polemica del burden sharing non la inventa Donald Trump che, invece, cambia i toni. I Paesi europei spendono meno, ma in prodotti americani; inoltre, l’Europa dà un contributo straordinario all’Alleanza. Allora se partiamo da questo presupposto, e cioè che noi siamo in prima linea, allora siamo quelli che più beneficiano dell’attenuazione delle tensioni e, quindi, di quel livello di confidenza che viene aumentato dai trattati.
Anche perché, come sottolineate nell’appello, “il ritiro degli Stati Uniti impedirebbe agli Stati Uniti di sorvolare la Russia, ma lascerebbe la Russia ancora in grado di sorvolare le attività e le installazioni militari americane in Europa”.
Assolutamente sì, ogni Paese è libero di andarsene, ma il fatto che se ne vada un Paese non fa decadere il Trattato per tutti gli altri firmatari. Per gli altri Paesi che rimangono, il Trattato rimane in vigore con tutti gli aspetti di carattere politico e pratico.
Qualora il ritiro americano divenisse effettivo, gli alleati europei dovrebbero comunque condividere con gli Stati Uniti i dati forniti dai sorvoli?
Credo che anche questo sia previsto dal Trattato: la condivisione dovrebbe essere limitata ai Paesi ancora membri.
“Tutti noi concordiamo che tutti gli Stati parte del Trattato sui ‘cieli Aperti’ adempiono ai loro impegni e ai loro obblighi”, ha dichiarato il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, al termine della riunione dell’Alleanza atlantica a livello di ambasciatori convocata lo scorso Venerdì, precisando che “tutti i Paesi alleati della NATO si trovano nel pieno rispetto di tutte le previsioni del Trattato” ed auspicando che la Russia torni al più presto al rispetto del Trattato stesso. Quello che appare evidente è, però, un ulteriore colpo, dopo il ritiro dall’INF, alla sicurezza europea ed un’altra frattura in seno alla NATO?
Assolutamente sì, ed è un ulteriore fattore che ci preoccupa molto. È chiaro che le azioni di alcuni governi possono mettere a rischio o, comunque, indebolire l’Alleanza. Ecco perché siamo tutti curiosi di vedere cosa accadrà alle prossime elezioni.
Qualche alleato europeo, soprattutto tra i Paesi dell’Est molto corteggiati da Trump, potrebbe seguire Washington sulla strada del ritiro?
Non si può escludere nulla, ma certamente non gli converrebbe, anche perché sono tutti Paesi per i quali i rapporti con gli Stati Uniti sono importanti, ma che hanno rapporti economici e di difesa strettissimi con gli altri Paesi europei. Sarebbe un passo verso l’emarginazione.
Si può escludere un ritiro della Russia?
Credo che la Russia non abbia nessun interesse ad uscire da questo Trattato. Anzi, se volessimo essere maliziosi, i russi potrebbero cercare di approfittare di questa situazione per incrinare ulteriormente il legame transatlantico.
L’uscita da questo Trattato è un ‘regalo’ a Putin?
Non credo che questa valutazione sia stata fatta. Diciamo che, dal punto di vista di un nazionalista americano, ‘impedisco alla Russia di venire a guardare cose che, secondo me, non dovrebbe guardare’. In quest’ottica nazionalistica, la Russia dovrebbe essere danneggiata.
Cosa ci guadagnano, allora, dal punto di vista strategico, gli Stati Uniti dall’uscita di questo Trattato? Coinvolgere la Cina in una limitazione degli armamenti, cosa che non dispiacerebbe neppure alla Russia, è un obiettivo che giustifica una mossa simile, posto che bisognerebbe accertare l’effettiva disponibilità Pechino a farsi coinvolgere?
Personalmente non ci vedo nessun guadagno per gli Stati Uniti. Ci vedo solo una volontà di trinceramento dalla quale gli Stati Uniti non trarranno alcun vantaggio. La questione ‘Open Skies’ ovviamente non coinvolge la Cina, che potrebbe essere coinvolta in tutti quei Trattati che regolano gli armamenti nucleari o di altra natura. L’azione americana su ‘Open Skies’ fa parte di un trend in cui certamente la Cina rappresenta un fattore, ma non in questo settore specifico.
Certo è che non ci guadagnano dal punto di vista dell’affidabilità in altre trattative sugli armamenti come quelle con la Corea del Nord o, magari, in un futuro, con l’Iran?
Certamente no.
La competizione spaziale e l’impulso che il Presidente Trump sta dando a questo settore strategico hanno giocato un ruolo nella decisione di ritirarsi dall’’Open Skies’?
Non saprei dirlo.
Nell’appello, auspicate che il Trattato venga salvato. Ma è possibile per i Paesi europei salvarlo, una volta ritirati gli Stati Uniti?
Certo, se un Paese decide di ritirarsi, il Trattato continua a valere per gli altri.
In quest’ottica, un’Europa più consapevole e più autonoma diventa sempre più cruciale. L’ennesimo colpo di Trump alla sicurezza del Vecchio Continente contribuirà ad accelerare la presa di coscienza della necessità di una difesa comune europea?
Temo che le preoccupazioni relative al come uscire da questa pandemia, sia dal punto di vista medico sia da quello economico, saranno prevalenti. Non ci sarà molta attenzione alla difesa europea, per la quale serve attenzione politica e risorse, oggi poste altrove.
Trump avrebbe affermato che c’è “la possibilità di fare un nuovo accordo o di fare qualcosa per salvare quello in vigore. Penso che ciò che accadrà è che ce la faremo e torneremo a fare un nuovo accordo”. La Russia potrebbe dare la sua disponibilità a discutere un nuovo accordo? E quali potrebbero essere le nuove condizioni?
L’accordo funziona, ha un valore politico prima ancora che tecnico. Perché denunciarlo per farne un altro uguale? Non ne vedo la logica né vedo la possibilità che si possa dire ‘rinunciamo a questo per farne uno migliore’.
In un’eventuale rinegoziazione, i satelliti dovrebbero rientrarvi?
Sarebbe un’inclusione con delle difficoltà di verifica tali per cui non c’è la fattibilità tecnica.
Dopo il ritiro dal Trattato INF, l’uscita da ‘Open Skies’ non fa ben sperare circa il rinnovo del New START, in scadenza a Febbraio 2021, tre mesi dopo le elezioni presidenziali americane?
Noi auspichiamo che rimanga in vigore e venga rinnovato ulteriormente. Adesso c’è questa ipotesi di rinnovo di sei mesi per agganciare anche la Cina. Personalmente penso che questa idea di coinvolgere la Cina sia un’idea teoricamente corretta, ma politicamente improbabile. Dal punto di vista tecnico, il Trattato New START riduce, per i due contraenti, il numero delle testate nucleari a 1550 ciascuno, il numero dei vettori, prevede determinate attività di controllo, ecc. Secondo le stime di intelligence più accreditate, Pechino dispone di circa 300 testate. Il tentativo di coinvolgere la Cina, al di là di riconoscere la valenza del deterrente nucleare cinese che è un dato di fatto, per dire ‘noi ci teniamo le nostre 1550 testate e tu le tue 300’ fallirebbe. Ecco perché credo che non sia politicamente fattibile. Se viene utilizzato come pretesto per uscire dal Trattato, allora diventa più accreditata l’ipotesi che si voglia procedere ad un riarmo nucleare e, d’altronde, alcune previsioni della Strategia Nucleare americana pubblicata l’anno scorso, possono far pensare anche questo.
Come viene ricordato nell’appello, “secondo l’articolo XV.3 del trattato, se gli Stati Uniti si ritirano, il Canada e l’Ungheria devono convocare una conferenza degli Stati Parte non meno di 30 giorni e non più di 60 giorni dopo aver ricevuto una notifica di ritiro”. Cosa, dunque, aspettarsi nei prossimi sei mesi, il tempo stabilito per rendere effettivo il ritiro di un Paese? L’accordo potrebbe essere salvato?
La riunione verrà convocata, si prenderà atto. Le decisioni politiche sono ormai già state prese. Credo che tutto si svilupperà secondo una procedura prevista, ma non credo che le carte in tavola cambieranno.
Si riduce la fiducia reciproca tra le due maggiori potenze nucleari, gli Stati Uniti, secondo alcune indiscrezioni, sarebbero pronti a riprendere i test nucleari, interrotti nel 1992: è, quindi, forte più che mai il rischio che le lancette dell’’orologio dell’Apocalisse’ ricomincino la loro corsa?