L’accordo di Sochi sul futuro dei curdi potrebbe essere l’occasione per il Pkk (ma anche per la Turchia) per un ripensamento dei termini della loro conflittualità, una valutazione sul perché e sul come ‘liquidare’ questo loro devastante conflitto

 

Dopo sette ore di colloquio diretto tra Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin, a Sochi, ieri, laTurchia e Russia hanno trovato l’accordo per la gestione della safe zone nel Nord-Est della Siria, hanno, insomma,tracciato il futuro del Nord-Est della Siria, con il benestare di Bashar al-Assad,interpellato telefonicamente nel corso delle sette ore, accordo poi formalizzato in 10 punti. Un accordo che ha due grandi vincitori, Turchia e Russia, un soddisfatto, Siria, e due perdenti, il popolo curdo e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).In sintesi l’accordo prevede: uscita di scena di Ypg(Unità di Protezione Popolare) -ala siriana del Pkk,e che la Turchia considera ‘terroristi’ legati strutturalmente al Pkk; controllo da parte della Turchia  di un territorio di 120 km di estensione e 30 di profondità, compreso tra le città di Tel Abyad (a ovest) e Ras Al Ayn (a est) sottratto a Ypg con l’offensiva lanciata il 9 ottobre; controllo da parte di Damasco del Nord del Paese, con il supporto di Mosca, che funge da garante per Ankara rispetto alle mosse del Presidente al-Assad; impegno della Russia a garantire la prosecuzione dell’accordo di Adana, del 1998, con cui la Siria si impegnava a impedire attacchi dei curdi del Pkk alla Turchia provenienti dal proprio territorio, con possibilità da parte delle Forze Armate turche di compiere brevi sconfinamenti in Siria per azioni di repressione contro il Ypg.Previsti, altresì, pattugliamenti congiunti Russia-Turchia per una profondità di 10 km, a est e ovest del territorio tra Tel Abyad e Ras Al Ayn sotto il controllo dell’Esercito di Ankara, lungo tutto il confine turco, con esclusione della città di Qamishli. Un’azione congiunta per la quale sarà costituito un meccanismo di coordinamento permanente per le operazioni di pattugliamento congiunte e la lotta al terrorismo da parte di Russia e Turchia. Inoltre, i due Paesi si impegnano a prendere tutte le misure necessarie per facilitare il ritorno volontarioe il ricollocamentodei profughi siriani nelle aree liberate da Ypg.
Nelle stesse ore in cui si strutturava l’accordo, le Forze democratiche siriane (Fds)hanno comunicato di aver portato a termine il ritiro di tutti i 1.300 combattenti delle milizie curde Ypg dall’area destinata a diventare una safe zone, estesa a Est del fiume Eufrate per 440 km lungo il confine con la Turchia, come previsto dall’accordo del 17 ottobretra Stati Uniti e Turchia.  Un ‘accordo storico’ è stato definito da Putin e da Erdogan. Di certo un ottimo accordo per la Turchia, che ottiene di fatto tutto quanto voleva, un ottimo accordo per la Russia, che con l’uscita di scena degli USA dall’area diventa la potenza di riferimento nella regione con tutto quel che ne consegue in termini geopolitici sullo scenario internazionale, non un cattivo accordo, anzi, per  al-Assad, che in questa maniera ottiene una doppia garanzia, ovvero sull’integrità territoriale della Siria e sul supporto russo che proseguirà. Ovviamente un pessimo accordo, oltre all’umiliazione, per i curdi, la certificazione dell’abbandono da parte della comunità internazionale della loro causa dopo essere stati ‘sfruttati’ nella battaglia contro i terroristi dello Stato Islamico. Ma un pessimo accordo anche per il Pkk che ora è ancora più debole di quanto già da tempo non dimostrasse di essere. Infatti, oltre ai curdi, l’altro grande perdente di questo accordo è proprio il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che non solo Ankara, anche Bruxelles e Washington, considerano essere non ‘partito’ bensì ‘organizzazione terroristica’.Dunque, l’accordo di Sochi potrebbe essere l’occasione per il Pkk (ma anche per la Turchia) per un ripensamento dei termini della loro conflittualità. Ripensamento, o meglio ancora, valutazione di come ‘liquidare’questo loro devastante conflitto. E’ quanto propone Crisis Group in un lungo report, pubblicato proprio ieri, nel contesto del quale viene fatta una puntigliosa radiografia di questo conflitto permanente a bassa intensità e alto numero di vittime.Daluglio 2015, il conflitto tra le forze di sicurezza turche e il Partito dei lavoratori del Kurdistan ha causato 4.686  vittime in Turchia e nell’Iraq settentrionale. Un conflitto le cui dinamiche stanno cambiando e che proprio in forza di questo cambiamento emerge forte, almeno secondo gli analisti di Crisis Group, la necessità, per tutte due le parti in azione, di valutarne la definizione. Un dato di fondo è quello relativo ai morti: dei 4.686 morti, più della metà sono militanti del PKK (2.758) -di questi, il 22,4% sono donne-, circa un quarto (1.215) è composto da membri delle forze di sicurezza dello Stato turco, 490 sono civili. Numeri che nell’analisi di Crisis Group risulteranno molto importanti.
Il cambiamento delle dinamiche del conflitto è sintetizzabile in alcuni elementi sul terreno. In primo luogo, i combattimenti si sono spostati fuori dalle città.
Negli ultimi due anni, né il PKK né la sua affiliata Kurdistan Freedom Hawks (TAK) hanno effettuato attacchi nelle aree metropolitane. Le vittime -una media di 40 al mese nel 2019- si sono concentrate nelle aree rurali della maggioranza curda della Turchia nel sud-est.
Il secondo elemento di primaria importanza è che nell’ultimo anno, il tasso di mortalità tra i militanti del PKK, e in particolare nel nord dell’Iraq, è aumentato. Le operazioni intensificate di Ankara  hanno ucciso un numero maggiore di soggetti del PKK, rispetto a uno qualsiasi dei precedenti tre anni. Altresì le analisi mostrano che la percentuale di vittime nel PKK è decisamente sproporzionata rispetto alle vittime registrate tra le forze di sicurezza turche -basti il dato relativo all’ultimo anno: da luglio 2018 a luglio 2019, sono stati uccisi 3,36 militanti del PKK per ciascun membro delle forze di sicurezza dello Stato- altresì, le vittime del PKK sono soprattutto militanti di lungo corso e provata esperienza.
Tre ragioni probabilmente spiegano il più alto tasso di mortalità del PKK nell’ultimo anno. In primo luogo, il PKK sta attraversando un periodo particolarmente difficile per proteggere e assicurare rifornimenti ai principali sostenitori dei villaggi del sud-est, che di solito sono intimiditi dai coprifuoco e dai cordoni di sicurezza delle forze turche. In secondo luogo, droni e altre nuove tecnologie militari hanno aiutato Ankara a stanare i militanti dalle roccaforti montane. In terzo luogo, la pressione degli Stati Uniti sul PKK per frenare gli attacchi in Turchia ha fatto sì che il movimento rimanesse più che altro in una posizione difensiva. Dunque, le tattiche di Ankara negli ultimi tre anni -quali il coprifuoco nelle aree rurali, attacchi con droni, schierare soldati in numero elevato, uccidere militanti esperti e soffocare il reclutamento- sembrano averridotto significativamente lo spazio di manovra del PKK nelle zone rurali sud-est. E però, uccidere più militanti del PKK, tuttavia, spiegano gli analisti, non si traduce in una vittoria per Ankara, poiché il PKK attinge combattenti dall’esterno della Turchia, e capitalizza il risentimento anti-statale represso tra i curdi. L’altro elemento sul quale si è concentrata la ricerca è quello rappresentato dal voto.I dati sugli incidenti mortali, insieme ai dati delle recenti elezioni turche, rivelano un legame tra i modelli di voto e i livelli di violenza.  L’analisi dei numeri delle vittime e quella dei dati elettorali, dal 2014 in avanti, secondo gli analisti di Crisis Group, rivelano unnesso tra i il come la popolazione si è espressa nel voto e i livelli di violenza.
L’analisi, infatti, mostra che negli ultimi quattro anni, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo(AKP) e il suo alleato, il Partito del Movimento Nazionalista(MHP), per lo più hanno consolidato il sostegno elettorale nel sud delle aree di conflitto, nei distretti orientali, mentre il Partito Democratico dei Popoli (HDP), partito di riferimento dei curdi,ha ampiamente sostenuto le tradizionali roccaforti urbane del movimento curdo nonostante un immenso giro di vite. Uno dei casi studiati è quello delle ultime elezioni locali del 31 marzo e dal 23 giugno a Istanbul, il sostegno curdo al AK al potere sta diminuendo, specialmente tra gli abitanti delle città nella Turchia occidentale.
Ad Ankara, dunque, potrebbe sembrare che le politiche rigide stiano pagando, sul campo di battaglia e nelle urne, ma non è esattamente così, perché quelle politiche continuano alimentare la rabbia di un segmento di curdi turchi.
Sondaggi ritenuti affidabili mostrano che il supporto a AKP e MHP è sceso al di sotto della soglia critica del 50%, soprattutto perché il partito al potere ha perso quasi la metà dei suoi sostenitori curdi. Secondo un sondaggio nazionale condotto a giugno dal Center for American Progress e dal centro di ricerca strategica e sociale Metropoll, solo circa il 24% dei curdi auto-identificati ha dichiarato di sostenere il Partito AKP, mentre questa cifra era di oltre 45%  prima del 2015. Non è dato sapere se la leadership politica di Ankara sarà in grado di compensare il perduto sostegno dei curdi conservatori ottenendo più voti dai nazionalisti turchi.
In un momento in cui la Turchia sta affrontando una grave recessione economica e sanzioni da parte dei suoi alleati occidentali, la leadership di Ankara -e mentre si avvicina il centenario della fondazione della Repubblica di Turchia- potrebbe prendere in considerazione di valutare percorsi alternativi nel contenimento del rischio rappresentato dal PKK.  Ciò in considerazione del fatto che il PKK ora è notevolmente indebolito, e l’alternativa al conflitto potrebbe essere interessante per il movimento.Cercare di spianare la strada alla risoluzione di un conflitto che, per oltre 35 anni, ha messo a dura prova i civili, ha prosciugato le risorse della Turchia e continua a frenare il suo potenziale strategico, sia per i vertici turchi sia per quelli del PKK potrebbe essere ragionevole.