L’ incontro tra i due leader a Washington e le questioni sul tavolo
Donald Trump e la first lady Melaniahanno atteso sul portico sud della Casa Bianca Emmanuel Macronaccompagnato dalla premier dame Brigitte per la prima visita di stato ufficiale della nuova presidenza statunitense. Tra Melania e Brigitte baci affettuosi e strette di mano così come tra i due leader. A dare il benvenuto al Presidente francese, ben 500 membri di tutte le forze armate e 21 colpi di cannone sparati a salve, prima dell’ esecuzione dei due inni nazionali. «Abbiamo una relazione davvero speciale … Lui e’ perfetto. E’ un piacere essere con te e sei un amico speciale» ha rimarcato Trump nello Studio Ovale.
E’ questa, dunque, l’ accoglienza riservata da Donald Trump ad Emmanuel Macron e alla sua consorte, partiti da una Francia in preda agli scioperi dei ferrovieri della SNFC e dell’ Air France, e giunti ieri a Washington dove rimarranno fino a domani quando il capo di Stato francese parlerà al Congresso Usa riunito, e ai quali è stata riservata la residenza degli ospiti d’onore del presidente americano, la Blair House, davanti alla Casa Bianca.
«Nulla mai ci dividerà dagli Stati Uniti» – aveva detto il capo dell’ Eliseo prima dell’affettuoso saluto a place de la Concorde al termine della visita dei Trump nel luglio dello scorso anno – «100 anni fa trovammo degli alleati sicuri, amici venuti in nostro soccorso» e Trump aveva ricambiato con un tweet: «Le relazioni con la Francia sono più forti che mai, ieri sera splendida serata con il presidente e la signora Macron, cena sulla Tour Eiffel».
Già ieri sera, quasi a contraccambiare la cena offertagli da Macron alla Torre Eiffel il 13 luglio 2017, alla vigila della partecipazione alla parata militare del giorno successivo sugli Champs-Elysées, il Presidente americano ha avuto modo di discorrere con l’ omologo francese nel corso di una cena privata a Mount Vernon, la storica casa del primo presidente Usa, George Washington: a tavola, è stato reso noto dallo staff dello Casa Bianca, le due coppie presidenziali hanno potuto gustare degli agnolotti di ricotta al limone, sogliola di Dover con asparagi e, come dessert, souffle’ di cioccolato e gelato all’amarena.
Sulla stessa scia di quella soft diplomacyadottata, ad esempio, con la Cina di Xi Jinping, al quale il Presidente francese si aveva fatto dono, in occasione dell’ incontro a Pechino, da un cavallo purosangue di otto anni chiamato Vesuvio della Guardia Repubblicana, in riferimento alla traslitterazione in caratteri cinesi di Macron, Makelong, significante “il cavallo doma il dragone”, anche al Comandante in Capo, monsieur le president ha fatto un regalo: una quercia sessile cresciuta nei pressi della cosiddetta ‘fontana del Diavolo’, fatta arrivare dal sito della Battaglia di Bosco Belleau (nella regione dello Champagne, a circa 100 chilometri a nord-est di Parigi) dove, nel 1918, durante la Prima guerra mondiale le truppe americane, il Corpo dei Marines, persero circa 10mila uomini per respingere un’offensiva tedesca.
Il rapporto tra i due Presidenti è stato, fin dall’ inizio, franco. Le «periodiche turbolenze», storicamente, nelle relazioni tra Parigi e Washington – afferma, nella sua ricerca, Jeff Lightfoot, senior fellow dell’ Atlantic Council da noi interpellato – «sono la norma più che l’ eccezione». Tra i casi più eclatanti, il ritiro del presidente francese de Gaulle del 1966 dal comando integrato della NATO oppure l’opposizione di de Gaulle alla guerra del Vietnam così come il riconoscimento, da parte della Francia, della Cina comunista, la guerra in Iraq del 2003, fino alla Libia del 2011 e alla Siria nel 2013, non dimenticando i disaccordi durante la guerra dei Sei Giorni del 1967.
Dopo la fine della crisi transatlantica sorta in corrispondenza della guerra in Iraq, come ricorda Jeff Lightfoot, diversi sono stati i fattori che hanno permesso questo progressivo avvicinamento: tra questi, la riconsiderazione americana degli alleati come partner per affrontare le sfide globali a partire dal secondo mandato di Bush e dall’ amministrazione di Barack Obama, l’ emersione o il rafforzamento di alcune potenze sullo scacchiere internazionale (Cina, Russia, Iran) e, altrettanto importante, la presa di coscienza da parte di Parigi della dannosità tanto dell’ unilateralismo quanto della passività di Washington. E se la guerra contro Saddam Hussein era stata l’ emblema del disastroso unilateralismo americano, l’ indecisione di Obama nel far rispettare la ‘linea rossa’ da parte del regime siriano di Bashar al-Assad ha esemplificato l’ altrettanto pericolosità dell’ inazione. A questo, sarebbe da aggiungersi, la Brexit: infatti, ci precisa l’ analista, “credo che Brexit abbia ridotto l’influenza di Londra a Washington. Prima, Londra era vista come la migliore rappresentante degli interessi di Washington nell’UE; senza quell’appartenenza all’UE, Londra ha meno influenza nell’approccio di Washington all’Europa. Ma, naturalmente, le relazioni militari, di intelligence, nucleari e cibernetiche tra Stati Uniti e Regno Unito rimangono molto forti”.
Il tutto si è accompagnato ad una riflessione che la Francia, o meglio la sua classe dirigente, ha fatto su di sé: un vero e proprio dibattito che ha visto contrapposti i cosiddetti ‘atlantisti’, sostenitori dell’ importanza francese nell’ ambito dell’ Occidente quale comunità con cui condivide gli stessi valori democratici e liberali, ai ‘realisti’ che guardano con nostalgia alla Francia dell’ era gollista e alla sua posizione indipendente e disallineata a livello internazionale, mantenendo come faro della propria strategia l’ interesse nazionale. Ma se è vero che le posizioni, espresse nel corso degli anni, non sono mai state così nette, bensì caratterizzate da sfumature, è altrettanto vero che non sono mancate le posizioni divergenti, come sopra ricordato. Soprattutto gli ultimi Presidenti (Sarkozy e Hollande), spiega Lightfoot nella sua analisi per l’ Atlantic Council, forse perché nati dopo la Seconda Guerra Mondiale e poco influenzati dall’ esempio di De Gaulle, si sono espressi sulla cooperazione transatlantica senza pregiudizi ideologici, ma anzi riaffermando la necessità della presenza della Francia nel Patto Atlantico.
I progressi fatti negli ultimi anni nelle relazioni transatlantiche tra i due Paesi, però – ammonisce nella sua ricerca Lightfoot – «non possono considerarsi permanenti o irreversibili». Ed è per questo che il canale tra le due sponde dell’ oceano torna di nuovo al centro dell’ attenzione in occasione del summit tra Trump e Macron che, eletti a distanza di pochi mesi l’ uno dall’ altro, rimangono due leader molto diversi. Ad accomunarli, oltre all’ essere entrambi outsider, la capacità di comunicare e di utilizzare i vari strumenti mediatici in modo accorto. A distanziarli, però, lo sguardo sul mondo, nei suoi diversi aspetti: il bilateralismo contro il multilateralismo; il protezionismo contro l’ apertura.
La strategia messa in campo dall’ inquilino dell’ Eliseo, nel relazionarsi con il Presidente americano, avvantaggiandosi anche del fatto di non aver avuto rapporti con il predecessore di Trump, Barack Obama, a detta di Lightfoot, «è stata pragmatica e proattiva»: «pragmatica, optando per preservare il collegamento transatlantico e investire nella sua relazione con Trump nella speranza di influenzare la sua agenda; proattiva reinvestendo nell’influenza francese nel progetto europeo, favorendo i legami con le maggiori potenze negli affari mondiali». Alla base, però, prosegue l’ esperto, c’è la consapevolezza di Macron che la solida relazione transatlantica è fondamentale per gli interessi, di sicurezza e non solo, della Francia: «Macron in definitiva ha più da guadagnare che da perdere da Trump, così come Trump ha meno da perdere rispetto agli altri alleati».
E sfruttare la ‘chimica personale’, facendo leva su interessi comuni come la lotta al terrorismo tanto nell’ area mediorientale quanto nel Sahel, secondo Lightfoot, è «allo stesso tempo un segno di audacia di Macron e una una maturazione della diplomazia francese nel valutare obiettivamente gli interessi rispetto a visioni nostalgiche di grandezza». D’ altro canto, Macron può contare, tolta l’ Inghilterra, anche sulla rigidità tra la nuova amministrazione Usa e la Germania che, proprio per la sua forza economica, è stata bersaglio di grandi critiche da parte del Comandante in capo. E’ dunque Macron colui che, al momento, considerati gli ultimi sviluppi del panorama europeo, può rilanciare i rapporti tra il vecchio continente e Trump
«E’ il momento di essere forti e uniti» e poi «insieme ai nostri amici britannici, gli Stati Uniti e la Francia hanno recentemente assunto delle azioni decisive in risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime siriano. Voglio ringraziare personalmente il presidente Macron, le forze armate francesi e il popolo francese per la loro forte collaborazione», ha detto Trump.
A due settimane fa, infatti, risale il bombardamento congiunto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia contro alcuni laboratori siriani utilizzati dal regime di Bashar al-Assad per fabbricare quelle armi chimiche che erano state utilizzate a Douma, un sobborgo nella Ghouta orientale, causando la morte di quasi 100 persone, donne e bambini compresi. «Abbiamo la prova che la settimana scorsa sono state utilizzate armi chimiche in Siria da parte del regime» aveva tuonato il presidente francese. Se gli Stati Uniti hanno lanciato 66 missili Tomahawk (di cui 30 dalla USS Monterey, 23 dalla USS Higgins, 7 dall’ USS Laboon e 6 dall’ USS John Warner) e 19 missili cruise JASSM ER (da 2 bombardieri B-1B), anche la Francia aveva fatto sentire la sua presenza: 5 caccia Rafale e 4 caccia Mirage hanno lanciato 9 missili SCALP/Storm Shadow, a cui erano seguiti 3 missili lanciati da fregate.
L’ operazione in sé ha dimostrato che “senza dubbio” – ci spiega Lightfoot – “la Francia è diventata un partner militare e di difesa molto vicino agli Stati Uniti grazie alle sue forti capacità militari, alla forte volontà politica e alle forze armate altamente capaci. Il presidente della Francia è anche molto forte e in grado di intraprendere un’azione militare rapida – come abbiamo visto la settimana scorsa – senza ricorrere immediatamente al parlamento”.
E’ anche, vero, però, che, qualche giorno dopo, il Presidente Macron, nel corso di un’ intervista in diretta a BFM TV e Mediapart, aveva sostenuto che «l‘operazione è riuscita sul piano militare, i missili hanno raggiunto gli obiettivi, è stata distrutta la loro capacità di produrre armi chimiche» e che «la decisione di intervenire è stata presa domenica scorsa, 48 ore dopo le prime identificazioni dell’uso di armi chimiche nella Ghuta orientale», precisando che «siamo intervenuti in modo legittimo nel quadro multilaterale». Nel corso dell’ intervista, però, il Presidente Macron aveva sottolineato che «dieci giorni fa il presidente Trump ha detto che gli Stati Uniti intendevano disimpegnarsi dalla Siria. Noi l’abbiamo convinto che era necessario rimanere a lungo. L’abbiamo anche convinto che bisognava limitare gli attacchi con armi chimiche, mentre c’era un’escalation tramite una serie di tweet che non vi saranno sfuggiti…».
A questa affermazione, era subito arrivata la replica da parte di Washington, attraverso la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders: «la missione Usa in Siria non è cambiata e il presidente è stato chiaro che vuole un ritorno a casa delle truppe Usa il più presto possibile …. (gli alleati degli Stati Uniti) si assumano una maggiore responsabilità sia militare che finanziaria, per mettere in sicurezza la regione».
Ma Macron non demorde: «Anche dopo la fine della guerra con l’ISIS, gli Stati Uniti, la Francia ed i nostri alleati, tutti i Paesi nella regione, persino la Russia e la Turchia, avranno un ruolo importante nella creazione di una nuova Siria, ma per determinarne il futuro, che ovviamente spetta al popolo siriano» ha dichiarato in un’intervista al canale televisivo statunitense Fox News, facendo osservare che il ritiro totale delle forze internazionali rafforzerà il regime siriano e l’ Iran che «prepareranno una nuova guerra, fomenteranno nuovi terroristi».
«Il presidente francese Emmanuel Macron ha già chiesto agli Stati Uniti di non ritirare le truppe dalla Siria, anche quando l’ultimo terrorista verrà annientato; il leader francese ha dichiarato che è necessario restare in Siria in modo praticamente costante e costruire una Siria nuova. E’ una posizione quasi coloniale» ha replicato il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov a Pechino parlando con i giornalisti, annunciando che «noi cercheremo di chiarire con i nostri partner francesi che cosa esattamente intendevano dire poiché a noi è stato detto, a tutti i livelli, che la coalizione americana opera in Siria esclusivamente per eliminare la minaccia del terrorismo, che proviene dall’Isis e da altre sigle bollate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu come terroristiche. La questione è molto seria, ci lavoreremo».
La Russia rimane un punto su cui la Francia di Macron non arretra, al fianco degli Stati Uniti di Donald Trump, accusato di aver conquistato la presidenza con l’ aiuto del Cremlino. Recentemente, a fronte dell’ avvelenamento dell’ ex spia Skripal, gli Stati Uniti hanno espulso oltre 60 diplomatici e la Francia ha deciso di espellerne quattro. La solidarietà a Londra è stato il filo rosso di queste espulsioni. E, nella stessa intervista a Fox News, alla vigilia del viaggio negli USA, Macron ha constatato che è necessario «non mostrarsi mai deboli con Putin. E’ forte e intelligente, ma non essere ingenuo, e’ ossessionato dalle interferenze nelle nostre democrazie. Credo che non dovremmo mai essere deboli con il presidente Putin: quando sei debole, lo usa. E va bene, e’ un gioco, ha fatto molte false notizie, ha una propaganda molto forte, e interviene ovunque … per fragilizzare le nostre democrazie perché pensa che sia un bene per il suo paese. Penso che sia un uomo molto forte, un presidente forte, che vuole una grande Russia. E’ estremamente duro con le minoranze e i suoi oppositori, con un’idea di democrazia che non e’ mia. Lo rispetto, lo conosco, sono lucido, voglio lavorare con lui, sapendo tutto di questo». Dichiarazione importante, ma che, nonostante tutto, continua a mettere al centro il dialogo.
«Ma come Macron ha cercato di stringere uno stretto legame con Trump, ha anche segnato le sue differenze con il nuovo Presidente degli Stati Uniti con fiducia e chiarezza, anche se ha rifiutato di fare queste differenze il base della sua strategia verso gli Stati Uniti» si legge nell’ analisi di Lightfoot. Differenze che si sono manifestate su diversi campi: tra questi, l’ accordo sul clima di Parigi, da cui Trump ha minacciato più volte di uscire, ma a cui Macron tiene molto per «rendere il nostro pianeta di nuovo grande».
E sfruttare la ‘chimica personale’, facendo leva su interessi comuni come la lotta al terrorismo tanto nell’ area mediorientale quanto nel Sahel, secondo Lightfoot, è «allo stesso tempo un segno di audacia di Macron e una una maturazione della diplomazia francese nel valutare obiettivamente gli interessi rispetto a visioni nostalgiche di grandezza». D’ altro canto, Macron può contare, tolta l’ Inghilterra, anche sulla rigidità tra la nuova amministrazione Usa e la Germania che, proprio per la sua forza economica, è stata bersaglio di grandi critiche da parte del Comandante in capo. E’ dunque Macron colui che, al momento, considerati gli ultimi sviluppi del panorama europeo, può rilanciare i rapporti tra il vecchio continente e Trump
«E’ il momento di essere forti e uniti» e poi «insieme ai nostri amici britannici, gli Stati Uniti e la Francia hanno recentemente assunto delle azioni decisive in risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime siriano. Voglio ringraziare personalmente il presidente Macron, le forze armate francesi e il popolo francese per la loro forte collaborazione», ha detto Trump.
A due settimane fa, infatti, risale il bombardamento congiunto di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia contro alcuni laboratori siriani utilizzati dal regime di Bashar al-Assad per fabbricare quelle armi chimiche che erano state utilizzate a Douma, un sobborgo nella Ghouta orientale, causando la morte di quasi 100 persone, donne e bambini compresi. «Abbiamo la prova che la settimana scorsa sono state utilizzate armi chimiche in Siria da parte del regime» aveva tuonato il presidente francese. Se gli Stati Uniti hanno lanciato 66 missili Tomahawk (di cui 30 dalla USS Monterey, 23 dalla USS Higgins, 7 dall’ USS Laboon e 6 dall’ USS John Warner) e 19 missili cruise JASSM ER (da 2 bombardieri B-1B), anche la Francia aveva fatto sentire la sua presenza: 5 caccia Rafale e 4 caccia Mirage hanno lanciato 9 missili SCALP/Storm Shadow, a cui erano seguiti 3 missili lanciati da fregate.
L’ operazione in sé ha dimostrato che “senza dubbio” – ci spiega Lightfoot – “la Francia è diventata un partner militare e di difesa molto vicino agli Stati Uniti grazie alle sue forti capacità militari, alla forte volontà politica e alle forze armate altamente capaci. Il presidente della Francia è anche molto forte e in grado di intraprendere un’azione militare rapida – come abbiamo visto la settimana scorsa – senza ricorrere immediatamente al parlamento”.
E’ anche, vero, però, che, qualche giorno dopo, il Presidente Macron, nel corso di un’ intervista in diretta a BFM TV e Mediapart, aveva sostenuto che «l‘operazione è riuscita sul piano militare, i missili hanno raggiunto gli obiettivi, è stata distrutta la loro capacità di produrre armi chimiche» e che «la decisione di intervenire è stata presa domenica scorsa, 48 ore dopo le prime identificazioni dell’uso di armi chimiche nella Ghuta orientale», precisando che «siamo intervenuti in modo legittimo nel quadro multilaterale». Nel corso dell’ intervista, però, il Presidente Macron aveva sottolineato che «dieci giorni fa il presidente Trump ha detto che gli Stati Uniti intendevano disimpegnarsi dalla Siria. Noi l’abbiamo convinto che era necessario rimanere a lungo. L’abbiamo anche convinto che bisognava limitare gli attacchi con armi chimiche, mentre c’era un’escalation tramite una serie di tweet che non vi saranno sfuggiti…».
A questa affermazione, era subito arrivata la replica da parte di Washington, attraverso la portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders: «la missione Usa in Siria non è cambiata e il presidente è stato chiaro che vuole un ritorno a casa delle truppe Usa il più presto possibile …. (gli alleati degli Stati Uniti) si assumano una maggiore responsabilità sia militare che finanziaria, per mettere in sicurezza la regione».
Ma Macron non demorde: «Anche dopo la fine della guerra con l’ISIS, gli Stati Uniti, la Francia ed i nostri alleati, tutti i Paesi nella regione, persino la Russia e la Turchia, avranno un ruolo importante nella creazione di una nuova Siria, ma per determinarne il futuro, che ovviamente spetta al popolo siriano» ha dichiarato in un’intervista al canale televisivo statunitense Fox News, facendo osservare che il ritiro totale delle forze internazionali rafforzerà il regime siriano e l’ Iran che «prepareranno una nuova guerra, fomenteranno nuovi terroristi».
«Il presidente francese Emmanuel Macron ha già chiesto agli Stati Uniti di non ritirare le truppe dalla Siria, anche quando l’ultimo terrorista verrà annientato; il leader francese ha dichiarato che è necessario restare in Siria in modo praticamente costante e costruire una Siria nuova. E’ una posizione quasi coloniale» ha replicato il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov a Pechino parlando con i giornalisti, annunciando che «noi cercheremo di chiarire con i nostri partner francesi che cosa esattamente intendevano dire poiché a noi è stato detto, a tutti i livelli, che la coalizione americana opera in Siria esclusivamente per eliminare la minaccia del terrorismo, che proviene dall’Isis e da altre sigle bollate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu come terroristiche. La questione è molto seria, ci lavoreremo».
La Russia rimane un punto su cui la Francia di Macron non arretra, al fianco degli Stati Uniti di Donald Trump, accusato di aver conquistato la presidenza con l’ aiuto del Cremlino. Recentemente, a fronte dell’ avvelenamento dell’ ex spia Skripal, gli Stati Uniti hanno espulso oltre 60 diplomatici e la Francia ha deciso di espellerne quattro. La solidarietà a Londra è stato il filo rosso di queste espulsioni. E, nella stessa intervista a Fox News, alla vigilia del viaggio negli USA, Macron ha constatato che è necessario «non mostrarsi mai deboli con Putin. E’ forte e intelligente, ma non essere ingenuo, e’ ossessionato dalle interferenze nelle nostre democrazie. Credo che non dovremmo mai essere deboli con il presidente Putin: quando sei debole, lo usa. E va bene, e’ un gioco, ha fatto molte false notizie, ha una propaganda molto forte, e interviene ovunque … per fragilizzare le nostre democrazie perché pensa che sia un bene per il suo paese. Penso che sia un uomo molto forte, un presidente forte, che vuole una grande Russia. E’ estremamente duro con le minoranze e i suoi oppositori, con un’idea di democrazia che non e’ mia. Lo rispetto, lo conosco, sono lucido, voglio lavorare con lui, sapendo tutto di questo». Dichiarazione importante, ma che, nonostante tutto, continua a mettere al centro il dialogo.
«Ma come Macron ha cercato di stringere uno stretto legame con Trump, ha anche segnato le sue differenze con il nuovo Presidente degli Stati Uniti con fiducia e chiarezza, anche se ha rifiutato di fare queste differenze il base della sua strategia verso gli Stati Uniti» si legge nell’ analisi di Lightfoot. Differenze che si sono manifestate su diversi campi: tra questi, l’ accordo sul clima di Parigi, da cui Trump ha minacciato più volte di uscire, ma a cui Macron tiene molto per «rendere il nostro pianeta di nuovo grande».