“E’ sicuramente necessario mantenere aspettative molto limitate, ma è positiva la maggiore flessibilità abbracciata dall’amministrazione statunitense”
Hanoi, in Vietnam, è blindata: centinaia di uomini delle forze dell’ordine sono schierate. Tra poche ore, diventerà lo sfondo del secondo summit, ad otto mesi di distanza dal primo a Singapore, tra il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, atterrato in serata, e il leader della Corea del Nord, Kim Jong Un, giunto questa mattina, dopo più di due giorni di viaggio in treno.
Il primo atto del negoziato tra i vertici massimi dei due Paesi, a Singapore, si era concluso con una storica stretta di mano ed una dichiarazione di quattro punti estremamente vaga nei suoi contenuti, nonostante la grande soddisfazione per l’esito dell’incontro espressa da Donald Trump. Nel corso di questi otto mesi, i negoziati hanno vissuto uno stallo sebbene, tra scambi epistolari ed incontri, la tensione si sia rarefatta e la moratoria sui test sia stata rispettata da Pyongyang. Ecco che il secondo atto pare essere ancora più cruciale: obiettivo fondamentale dovrebbe essere il chiarimento del significato attribuito al termine ‘denuclearizzazione‘ dalle due parti, anche se è possibile che non si arrivi a definirne modalità e tempistiche. Kim Jong Un «ha promesso di denuclearizzare e speriamo che compirà una grande passo in questa direzione la settimana che viene» ha dichiarato pochi giorni fa, in una intervista alla Cnn, il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che, insieme al rappresentante speciale Steve Biegun, è mostrato, soprattutto nelle ultime settimane, sempre più convinto della necessità di un approccio più flessibile.
In ballo, stando a quanto sostenuto un portavoce del Presidente sudcoreano, ci potrebbe essere anche l’accordo tra Stati Uniti e Corea del Nord su una dichiarazione che metta fine alla guerra nella penisola coreana (1950-1953). Sul tavolo, tra gli altri temi, c’è anche la questione delle sanzioni che gravano sul regime di Pyongyang, il cui alleggerimento è auspicato dal regime nordcoreano, ma verrebbe concesso dall’amministrazione statunitense solo a fronte di passi concreti della controparte. A questo proposito, Trump ha scritto ieri su Twitter: «Il presidente Kim sa bene, forse meglio di chiunque altro, che senza armi nucleari il suo Paese potrebbe velocemente diventare una delle grandi potenze economiche nel mondo. Per la sua posizione, per la sua gente (e grazie a lui) la Corea del Nord ha un maggior potenziale per una rapida crescita rispetto ad altri Paesi!».
Numerose sono, dunque, le perplessità circa l’eventualità che si arrivi a risultati più concreti rispetto al vertice precedente anche perché i dossier sono molti e, finora, nessuna delle parti ha lasciato trasparire come vuole usare le sue carte. E’ innegabile, però, che procedere sulla via del dialogo costituisce l’unico modo per condurre una trattativa. Su quali temi è possibile un maggiore accordo tra le parti? Cosa aspettarsi dal summit di Hanoi? E’ possibile essere ottimisti? Ha risposto a queste domande Francesca Frassineti, esperta dell’ Università di Bologna oltre che dell’ Osservatorio asiatico dell’ ISPI.
Cosa è successo in questi mesi nel dialogo tra Stati Uniti e Corea del Nord, a partire dall’incontro di Singapore del giugno 2018 tra Donald Trump e Kim Jong Un?
Per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti, al termine del summit di Singapore, le parti avevano sottoscritto questa dichiarazione congiunta riassumibile in quattro punti. Una dichiarazione di intenti dal carattere sicuramente ambizioso, ma dal contenuto e dai termini estremamente vaghi; le parti si erano impegnate nella costruzione di un regime di pace nella penisola, nella normalizzazione dei rapporti bilaterali e la Corea del Nord aveva espresso la volontà di lavorare anche alla denuclearizzazione della penisola coreana. Quando parlo di contenuti molto vaghi, intendo dire che non si era giunti a nessuna roadmap, calendario o scadenzamento in base al quale tradurre concretamente questi ambiziosi obiettivi. Ed infatti, per quanto il livello di tensione e di conflittualità sia evidentemente diminuito, i negoziati dopo Singapore hanno fatto scarsi passi in avanti. Abbiamo assistito, in altre parole, a uno stallo che è il prodotto dell’incapacità delle due parti di trovare un’interpretazione condivisa del termine ‘denuclearizzazione’.
La scelta del luogo dell’incontro, Hanoi, in Vietnam, ha anche una valenza simbolica?
Se proprio vogliamo trovare una simbologia, il Vietnam è stato presentato da molti osservatori come un potenziale modello di sviluppo socio-economico a cui il regime nordcoreano potrebbe ispirarsi qualora scelga la strada riformista, un’opzione che per il momento pare ancora lontana. Ma direi che la rilevanza simbolica, in questo caso, è decisamente secondaria.
Il Presidente americano Trump ha più volte sottolineato l’empatia che si è creata con Kim Jong Un. Questa diplomazia ai massimi livelli è d’aiuto o d’intralcio nelle trattative?
Sicuramente anche nel caso del dossier nordcoreano, le modalità scelte dal Presidente Trump si discostano dall’approccio dei suoi predecessori alla Casa Bianca perché in questo caso vediamo un processo diplomatico inverso: prima avviene l’incontro tra i due leader e poi si procede con gli incontri tra funzionari delle due parti. Trump ci ha abituati a sparigliare le carte e a una diplomazia non consueta per l’amministrazione statunitense. Certamente con la decisione di sedersi al tavolo con Kim Jong Un, Trump ha riconosciuto al leader nordcoreano lo status di legittimo interlocutore e ha fatto uscire la Corea del Nord dall’isolamento diplomatico quindi, per quanto inconsueto, Trump ha ottenuto alcuni risultati in termini di instaurazione di un dialogo diretto e di fiducia reciproca. La forte empatia tra i due leader ha sicuramente innescato un processo, ma siamo ancora alla fase embrionale. Tutto questo chiaramente non può bastare e non mette l’operato presidenziale al riparo dalle critiche e dai timori riguardanti soprattutto il rischio che Trump svenda l’alleanza con la Corea del Sud e il Giappone, impegnandosi troppo senza aver ricevuto in cambio un corrispettivo concreto da parte nordcoreana.
L’obiettivo di questo secondo summit, come Lei accennava, è il chiarimento da parte di Stati Uniti e Corea del Nord di quale significato essi attribuiscono alla parola ‘denuclearizzazione’. Cosa intendono Trump e Kim Jong Un con questo termine?
Il primo summit è stato un’opportunità per fotografare la storica stretta di mano tra i due leader ed è servito ad innescare un processo. Ma ora è necessario tradurre in passi concreti, in un processo incrementale, quella dichiarazione di intenti firmata nel giugno scorso. Ciò che finora ha impedito, nei fatti, di dare attuazione a quell’intento è l’opposto significato che le parti attribuiscono al concetto di denuclearizzazione. Per Washington, ‘denuclearizzazione’ è la rinuncia unilaterale da parte del regime nordcoreano al programma nucleare e missilistico, ovvero dei programmi di distruzione di massa mentre Pyongyang pretende che ciò sia accompagnato dal venir meno di quella minaccia che il regime ha sempre percepito, ovvero dell’ombrello nucleare statunitense a difesa degli alleati regionali, Corea del Sud e Giappone. Per questo motivo nelle dichiarazioni congiunte sottoscritte al termine sia dei summit con il presidente sudcoreano Moon Jae-in sia del primo vertice con Trump, è stata utilizzata l’espressione “denuclearizzazione della penisola coreana” che funge da compromesso.
Kim Jong-Un ha già ottenuto un risultato: tratta con gli Stati Uniti, con lo status di potenza nucleare de facto. In questo senso, però, gli Stati Uniti possono ancora pretendere una denuclearizzazione ‘completa e verificabile’ oppure, dovendo scendere a compromessi, saranno costretti ad alleggerire tale richiesta, optando per una denuclearizzazione più graduale, più soft?
Nelle settimane che hanno preceduto il summit di Hanoi abbiamo visto un’evoluzione dell’approccio seguito dall’amministrazione Trump che fin dal suo insediamento aveva posto come condizione sine qua non per la ripresa dei negoziati la “completa, verificabile e irreversibile” denuclearizzazione nordcoreana. Ora assistiamo ad un’evoluzione caratterizzata da un ridimensionamento delle aspettative nel breve periodo. In altre parole, l’obiettivo finale rimane la rinuncia al nucleare da parte del regime nordcoreano, ma nel breve periodo l’amministrazione statunitense è consapevole di dover seguire un approccio flessibile e graduale.
Il nucleare rimane ancora fondamentale per la tenuta del regime nordcoreano?
Sì ed è una consapevolezza che emerge anche all’interno dell’amministrazione trumpiana, ovvero di doversi accontentare di qualcosa di meno sostanziale nel breve periodo, dovendo essere costretti ad accettare un processo più graduale. Ed è per questo che Trump, nell’incontro con la stampa domenica scorsa, ha in qualche modo ridimensionato le aspettative circa questo summit. Lo stesso Mike Pompeo ha affermato che questo summit dovrà esser seguito da altri, ma allo stesso tempo ha confermato che il fulcro del regime sanzionatorio non verrà rimosso. Per quanto alcune concessioni possono essere fatte, il regime delle sanzioni internazionali non verrà sollevato fino a che gli Stati Uniti non avranno la garanzia che la minaccia nucleare nordcoreana non sarà diminuita. Fino a questo momento, i nordcoreani ritengono di aver fatto molte più concessioni rispetto a quelle ottenute dalla controparte statunitense: Pyongyang continua ad osservare la moratoria sui test nucleari e missilistici che in realtà ritiene non più necessari per l’avanzamento del suo programma nucleare e missilistico; alla fine del 2018 aveva chiuso alcuni tunnel nel sito di Punggye-ri e aveva iniziato a smantellare un altro sito per il collaudo dei missili a lungo raggio. Tutte misure reversibili in assenza di ispezioni da parte di osservatori internazionali. Ciò che ha ottenuto in cambio da Washington è stata la sospensione delle esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud. Quindi, la Corea del Nord ritiene di aver concesso molto di più rispetto a quanto ricevuto. A questo proposito, Kim Jong Un avrebbe più volte ripetuto al Presidente sudcoreano la volontà di chiudere il sito nucleare di Yongbyon solo in presenza di “concessioni rilevanti” da parte statunitense e questo è il principale punto interrogativo in questo summit. Per Pyongyang la palla ora è nel campo statunitense: tocca agli Stati Uniti offrire qualcosa di rilevante in cambio.
Per quanto riguarda lo smantellamento dei siti di produzione e test nucleari, la Corea del Nord si percepisce in regola. E’ veramente così secondo gli Stati Uniti?
La Corea del Nord non ha mai sottoscritto alcun esplicito impegno circa una sua rinuncia al nucleare. Pyongyang ha annunciato in modo unilaterale di non proseguire coi test nucleari e missilistici perché, avendo raggiunto il completamento programma, questi non sono più necessari e in questo senso continua ad osservare ciò che aveva annunciato lo scorso anno. Il programma di produzione di componenti missilistiche e nucleari non è mai stato interrotto, come mostrano le immagini satellitari e il regime, in linea di principio, non aveva alcuna ragione per farlo non essendosi impegnata in tal senso (ciò comunque continua a rappresentare una violazione delle sanzioni internazionali).
Anche sul materiale fissile e sui missili già prodotti a Singapore non era stato raggiunto alcun accordo. Pensa che su questo dossier ci possa essere, ad Hanoi, un chiarimento?
L’accordo di Singapore non ha riguardato né il programma missilistico né la minaccia convenzionale a cui sono sottoposti Corea del Sud e Giappone. Sicuramente una delle questioni che potrebbero essere discusse è quella di porre un tetto alle dimensioni dell’arsenale nordcoreano, di ottenere un congelamento del programma nucleare. Un altro elemento che potrebbe essere in discussione è l’eventuale accesso da parte degli ispettori internazionali come quelli dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica.
Sulle modalità e sulle scadenze della denuclearizzazione, quindi, non ci sarà un’evoluzione. E’ corretto?
E’ improbabile che la Corea del Nord possa essere disposta a offrire un elenco esaustivo delle strutture del suo programma nucleare e missilistico, cosa che invece gli stati Uniti avevano preteso nei mesi scorsi. Il successo di questo summit si misurerà proprio nella capacità delle parti di concordare quei passi concreti necessari per mantenere in vita i negoziati, innescando un processo che inizialmente non può che essere incrementale e flessibile.
Sull’annosa questione della fine della guerra di Corea, conclusasi solo con un armistizio, firmato non solo da Corea del Nord e Stati Uniti, potrebbe esserci una svolta ad Hanoi?
Ulteriori aspettative circa una dichiarazione della fine dello stato di guerra tra Corea del Nord e Stati Uniti sono state alimentate dalle dichiarazioni del portavoce della presidenza sudcoreana. Proprio ieri, infatti, la Casa Blu (la residenza presidenziale sudcoreana) ha lasciato aperta la possibilità che dal summit di Hanoi possa uscire una dichiarazione di fine guerra. Ovviamente questo non equivale ad un trattato di pace che richiederebbe la partecipazione di tutte le parti che hanno partecipato a quel conflitto, e quindi anche di Cina e Corea del Sud. Si tratterebbe di una dichiarazione dalla portata politica e non giuridicamente vincolante, però, molto importante perché, come ha sottolineato la Corea del Sud, un impegno di questo tipo Seoul e Pyongyang l’hanno già nei fatti preso: dopo la dichiarazione congiunta firmata al termine del vertice di Pyongyang tra Kim Jong Un e Moon Jae In, le due Coree hanno sottoscritto un ulteriore accordo di collaborazione militare che è stato descritto sia da Seoul sia da Pyongyang come un ‘accordo di non aggressione’.
L’ombrello nucleare statunitense e il sistema antimissilistico THAAD dislocati in Corea del Sud possono essere davvero giocati in sede di trattativa dagli Stati Uniti, considerati i possibili allarmi che si verrebbero a creare negli alleati?
L’amministrazione ha rassicurato circa il fatto che la questione delle truppe statunitensi presenti in Corea del Sud non sarà sollevata dagli Stati Uniti come concessione nei confronti del regime nordcoreano, anche se l’alleanza tra Washington e Seoul ha subito notevole stress nei giorni che hanno preceduto questo summit: infatti, solo all’inizio di febbraio, gli alleati sono riusciti a trovare un accordo in merito al contributo finanziario sudcoreano per lo stazionamento delle 28.500 truppe statunitensi nel Paese. Un accordo che doveva essere rinnovato nel dicembre del 2018, ma che è stato oggetto di negoziati prolungatisi per oltre un mese. Il risultato è stato quello di un accordo che, a differenza delle precedenti versioni, sarà rinnovato ogni anno e non più ogni cinque. Inevitabilmente ciò implica che l’alleanza continuerà ad essere sottoposta a notevoli frizioni. Questo potrebbe anche lasciar presagire che nel momento in cui Trump dovrà rinegoziare i termini relativi al contributo finanziario da parte giapponese, al termine di quest’anno, seguirà lo stesso copione, preferendo cioè un accordo annuale piuttosto che quinquennale. Non credo che l’ombrello nucleare statunitense, il THAAD o la permanenza delle truppe saranno punti sui quali Washington sarà disposta a trattare. Per quanto in più occasioni le affermazioni di Trump riguardo alla necessità che gli alleati aumentino il contributo finanziario all’alleanza con Washington abbiano gettato in allarme Seoul e Tokyo, la Casa Bianca, e in particolare Pompeo, ha ribadito che questi temi riguardano l’alleanza tra Stati Uniti e Corea del Sud.
Le stesse esercitazioni congiunte, peraltro, sono state sospese, ma non eliminate del tutto.
Questa notizia era stata annunciata dal Presidente Trump durante la conferenza stampa ai margini dell’incontro di Singapore, cogliendo di sorpresa l’alleato sudcoreano che non era stato previamente consultato, generando inevitabili frizioni. Le esercitazioni sono state sospese e questo è stato visto sicuramente con favore da Pyongyang in quanto, storicamente, è un elemento che ha sempre creato dell’animosità da parte della Corea del Nord perché, per quanto Stati Uniti e Corea del Sud le considerino un diritto nell’ambito della loro alleanza per difendersi dalla minaccia nordcoreana, il regime le ha sempre viste come il preludio ad una sua decapitazione.
Pensa che possa essere sul tavolo delle trattative, come sostiene qualche analista, una richiesta da parte americana di riduzione dell’esercito nordcoreano?
Escludo sia oggetto di trattative.
Trump è pronto a mettere sul piatto un ulteriore alleggerimento del regime sanzionatorio?
L’alleggerimento delle sanzioni è ciò che Kim Jong Un vuole. Le ultime dichiarazioni di Pompeo hanno creato uno spiraglio di possibilità circa non tanto la cancellazione del fulcro delle sanzioni quanto piuttosto l’introduzione di qualche moratoria soprattutto per far ripartire alcuni programmi di cooperazione economica, soprattutto tra le due Coree e tra gli attori della regione. Un rilassamento delle sanzioni sarebbe necessario soprattutto per far ripartire, ad esempio, il complesso industriale di Keasong e sicuramente quelli che spingono maggiormente per un alleggerimento delle sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono i sudcoreani. Anche sul piano umanitario si trarrebbe un notevole vantaggio, perché per quanto le attività delle ONG e internazionali restino escluse dalla portata delle sanzioni, inevitabilmente questi provvedimenti hanno complicato la componente logistica nell’invio e distribuzione degli aiuti nel Paese.
La prospettiva di una progressiva apertura di relazioni economiche tra Stati Uniti e Corea del Nord, come ipotizzato da alcuni analisti, può essere giocata da Trump in sede di trattativa?
Per il momento, la escluderei. Mi concentrerei più sulle opportunità economiche in Corea del Nord per i vicini regionali. Non è un segreto che Cina e Russia abbiano sempre guardato con favore alle potenzialità dell’integrazione nordcoreana nel contesto regionale e quindi delle opportunità di investimento infrastrutturale ed energetico. Le stesse imprese sudcoreane vedono positivamente l’eventualità di investire in Corea del Nord qualora fossero sollevate le sanzioni che al momento rendono impossibili tali progetti.
Cosa si aspetta la Cina da questo vertice?
E’ indiscutibile che Pechino abbia sostenuto l’avvicinamento tra le parti. Pechino aveva inferto notevoli danni all’economia nordcoreana decidendo, a fine 2017 , di attuare con maggiore convinzione le sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, per poi procedere al successivo allentamento di questa pressione come mostrano le immagini satellitari del trasbordo di petrolio tra navi nell’area economica esclusiva cinese e i dati sull’interscambio sino-nordcoreano, per quanto indiretti e mai completamente affidabili.
Le aspettative, dunque, di Pechino sono alte anche considerando il fatto che si gioca una partita indiretta con gli Stati Uniti, con i quali le tensioni sono aumentate negli ultimi tempi.
Assolutamente sì. Per quanto i rapporti tra Cina e Stati Uniti stiano vivendo una fase molto negativa, Xi Jinping si è molto adoperato per uscire da quella fase che in cui venti di guerra erano soffiati sulla penisola coreana, facendo innalzare nella regione i livelli di tensione e instabilità, elemento quest’ultimo da sempre inviso dalla leadership cinese. La Cina ha forte interesse che si affinchè la Corea del Nord esca dall’isolamento diplomatico.
E, si potrebbe dire, per non aumentare la presenza statunitense nella regione. Anche la Russia, nutre grandi aspettative per questo incontro ad Hanoi?
La Russia è sempre stata interessata alla questione nordcoreana dal punto di vista degli interessi economici e delle opportunità di investimento nel Paese quindi sostiene il rilassamento delle sanzioni internazionali e l’integrazione della Corea del Nord nel contesto regionale.
E gli alleati, soprattutto Corea del Sud e Giappone?
Se il negoziato tra Corea del Nord e Stati Uniti va a rilento e ha finora conosciuto una fase di stallo, il riavvicinamento tra le due Coree ha compiuto passi notevolissimi dal punto di vista della riduzione delle tensioni, con dichiarazioni di fiducia reciproca. Moon Jae In ha investito moltissimo nel rilancio dei rapporti con il Nord ed ha necessità che questo percorso proceda, ma affinché questo possa accadere ha bisogno del sostegno della Casa Bianca. Sul fronte interno, la popolarità del presidente sudcoreano sta risentendo dei pessimi indici dell’economia nazionale, soprattutto dei livelli di disoccupazione che non si apprestano a calare. A fronte di ciò, Moon ha quindi necessità di ottenere dei risultati concreti quantomeno dalla gestione dei rapporti con Pyongyang. Nel caso del Giappone il rapporto con la Corea del Nord è tradizionalmente segnato dalla questione dei rapiti giapponesi; la posizione ufficiale di Tokyo è quella di pretendere come condizione per la ripresa dei negoziati con Pyongyang di ricevere notizie sui cittadini giapponesi che si trovano sul territorio nordcoreano. Al momento per il primo ministro si può parlare di un vero e proprio ‘dilemma’ del primo ministro Abe’. Il premier era stato il maggior sostenitore della strategia di massima pressione trumpiana e aveva sfruttato le provocazioni militari nordcoreane per rafforzare il fronte interno a sostegno della riforma dell’articolo 9 della Costituzione giapponese. Ora deve fare i conti con un processo embrionale di distensione tra Washington e Stati Uniti.
Sulla linea da seguire nella trattativa esistono diverse sfumature in seno all’amministrazione Trump?
Sicuramente, le diverse sfumature ci sono in particolare se confrontiamo la fazione più intransigente rappresentata da Bolton con l’approccio di Pompeo e del rappresentante speciale per la Corea del Nord, Stephen Biegun, apparentemente più inclini a portare avanti un approccio negoziale flessibile con Pyongyang.
La Corea del Nord intrattiene relazioni diplomatiche con l’Iran. L’anno scorso Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall’Accordo sul Nucleare iraniano e Teheran ha denunciato l’inaffidabilità di Trump. Quanto conta questo ‘fattore Iran’ nella trattativa tra il Presidente statunitense e il leader nordcoreano?
Quando gli Stati Uniti si sono ritirati dall’ ‘Iran Deal’ hanno lanciato inevitabilmente un messaggio a regimi come quello nordcoreano. Non sono certamente credenziali che possono far accrescere la fiducia del regime di Pyongyang circa un eventuale impegno statunitense circa l’attuazione di un futuro accordo bilaterale. Sicuramente non è un elemento che gioca a favore della costruzione della fiducia reciproca.
E’ottimista circa l’esito di questo summit?
E’ sicuramente necessario, come nel caso di Singapore, mantenere aspettative molto limitate, ma vedo con favore la maggiore flessibilità abbracciata dall’amministrazione statunitense e quindi la presa di coscienza della necessità di coltivare questo rapporto, considerando il summit di Hanoi come un incontro a cui inevitabilmente ne seguiranno altri. E’ difficile prevedere cosa le parti saranno effettivamente disposte a mettere sul tavolo in questa occasione. Sappiamo quali sono le priorità statunitensi – strappare al regime l’impegno a porre, almeno per il momento, un tetto al programma nucleare nordcoreano. Eventualmente, potrebbe anche essere discussa una dichiarazione di fine guerra tra le due parti, ma quello che gli statunitensi non sono disposti a concedere è il ritiro delle truppe dalla Corea del Sud ed un allentamento eccessivo delle sanzioni senza un impegno concreto da parte nordcoreana.
Esclude che questo vertice possa concludersi senza qualcosa di concreto?
Non penso ci possa essere un accordo onnicomprensivo, ma sarà necessario un consenso in merito ai primi step che possono dare inizio a questo processo incrementale.
Questo procedere gradualmente è ben visto dai cittadini statunitensi e dal popolo nordcoreano?
Trump si deve preoccupare di portare a casa qualcosa e sicuramente non perderà occasione di sovrastimare anche quei piccoli risultati raggiunti ad Hanoi. Un ulteriore elemento che potrebbe far ben sperare nella prosecuzione di questo percorso, accrescendo fiducia reciproca, potrebbe essere l’apertura di uffici di collegamento nelle due capitali per permettere la continuazione dei negoziati tra i funzionari dei due Paesi. Per quanto riguarda le informazioni che verranno veicolate all’interno della Corea del Nord, gli organi di stampa ufficiali hanno già reso noto che Kim Jong Un ha lasciato la Corea del Nord per recarsi a Hanoi e a prescindere dalla portata effettiva dei risultati eventualmente raggiunti nei colloqui con Trump, l’incontro verrà inevitabilmente presentato ai cittadini nordcoreani come un successo su tutti i fronti del loro leader.