“L’obiettivo è togliere le risorse vitali al governo Maduro e creare un maggiore incentivo ai militari ad abbandonarlo”. L’intervista ad Antonella Mori (ISPI)

 

 

E’ ormai trascorsa quasi una settimana da quando Juan Guaidò, leader dell’opposizione e Presidente dell’Asseblea Nazionale, si è autonominato Presidente del Venezuela, ai sensi dell’articolo 233 della Costituzione secondo il quale il presidente dell’An diviene capo dello stato in via transitoria in vista delle nuove elezioni generali. Nelle ultime ore, il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, ha respinto l’ultimatum lanciato dai paesi europei al suo governo, escludendo la possibilità delle sue dimissioni o di elezioni presidenziali anticipate. Ha invece rilanciato, in un’intervista a Sputnik, proponendo nuove elezioni politiche anticipate che «che sarebbe un modo di garantire che ci sia un dibattito politico e una soluzione con il voto popolare». In altre parole, secondo Maduro, le elezioni dovrebbero riguardare solamente l’unico organo che, dal dicembre 2015, è in mano all’opposizione che può vantare 109 seggi contro i 55 della coalizione chavista e che nel gennaio del 2016, il Tribunale Supremo di Giustizia ha dichiarato ‘in ribellione’, non riconoscendo alcun valore alle sue decisioni.

Intanto, la Corte suprema del Venezuela, il Tribunal supremo de justicia (Tsj), ha vietato a Juan Guaidò, a seguito della richiesta del procuratore generale Tarek William Saab, di abbandonare il Paese. Ciononostante, Maduro si dice pronto a dialogare con l’opposizione e apre alla possibile mediazione di Paesi terzi nella crisi venezuelana: «Sono pronto a sedermi al tavolo dei negoziati con l’opposizione per parlare per il bene del Venezuela, per il desiderio di pace e per il futuro», ha dichiarato Maduro in un’intervista all’agenzia russa Ria Novosti. Infatti – ha precisato il Presidente – «ci sono diversi governi e organizzazioni nel mondo che hanno dimostrato la loro sincera preoccupazione per cosa avviene in Venezuela e hanno esortato al dialogo», Il presidente venezuelano si è dunque detto favorevole a un intervento di altri Stati in tal senso e ha menzionato in particolare «i governi di Messico,Uruguay, Bolivia, Russia, Vaticano e alcuni governi europei» ed ha reso noto di aver iniziato ad inviare «loro delle lettere ufficiali perché possano sostenere il dialogo in Venezuela dove vogliono, quando vogliono e in qualsiasi forma vogliano» e la Russia, tra i pochi, insieme alla Cina, ad aver sempre confermato il sostegno al regime – si è detta subito favorevole ad una possibilità di dialogo. Maduro ha poi accusato il Presidente americano Donald Trump che avrebbe ordinato «al governo colombiano e alle mafie della oligarchia colombiana di uccidermi … Se un giorno mi dovesse succedere qualcosa, i responsabili sarebbero Donald Trump e il presidente della Colombia, Ivan Duque». Il riferimento velato era alla foto, divenuta virale, del blocco giallo per appunti che Bolton, durante la conferenza stampa per annunciare le sanzioni, teneva in mano e su cui vi era scarabocchiato l’appunto: «Afghanistan, plaudire ai negoziati, 5mila truppe in Colombia». Ed anche se il Pentagono ha negato, la Casa Bianca ha ribadito che «tutte le opzioni sono sul tavolo». «Nel frattempo» – ha aggiunto – «continuerò a proteggermi: per fortuna abbiamo buoni sistemi di protezione, con ottimi consiglieri internazionali». A questo proposito, non ha voluto rispondere a una domanda sulla presenza, come segnalato da alcuni media, di contractor russi nel suo personale di sicurezza. Contractor che si andrebbero ad aggiungere, tra l’altro, ai due Tu-160 russi – bombardieri strategici supersonici in grado di trasportatore missili da crociera o nucleari – giunti a Maquetia, poco fuori Caracas.

Del resto, gli Stati Uniti sono stati i primi, seguiti poi da molti altri, a riconoscere il leader dell’opposizione come Presidente, suscitando il risentimento di Maduro che ne ha espulso i diplomatici, e lo stesso Guaidò ha oggi riferito di aver parlato al telefono con il presidente Donald Trump, e di averlo ringraziato: «Ringrazio per la chiamata il Presidente Trump, che ha ribadito il pieno sostegno al nostro lavoro democratico, l’impegno per gli aiuti umanitari e il riconoscimento da parte della sua amministrazione alla nostra presidenza», ha twittato il leader dell’An. Non più tardi di due giorni fa, come si diceva, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton, insieme al segretario al Tesoro Steve Mnuchin, ha annunciato sanzioni contro la società petrolifera statale venezuelana PDVSA, con il blocco di sette miliardi di asset negli Stati Uniti, compresa la filiale CITGO, e hanno comunicato la disposizione del veto a cittadini ed entità del paesi di avere rapporti con le imprese. Una misura presto denunciata dal presidente Maduro come «unilaterale, illegale, criminale e immorale» per «rubare la CITGO ai venezuelani», rispetto alla quale avrebbe dato ordine ai dirigenti del Pdvsa e Citgo di «avviare le azioni politiche, legali, dinanzi ai tribunali degli Usa e del mondo per difendere i nostri interessi». Ma il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha già chiesto alla Federal Reserve di riconoscere Guaido come agente principale per l’accesso alle attività finanziarie venezuelane nelle banche degli Stati Uniti.

Il petrolio è dunque divenuto centrale nella crisi politica venezuelana ed è divenuta la leva sulla quale gli Stati Uniti hanno deciso di puntare per far cedere Maduro, ancora supportato, oltre che dal Tribunale supremo di giustizia, dall’Assemblea nazionale costituente (Anc), dalla Forza armata nazionale bolivariana (Fanb) e dai Colectivos, i gruppi paramilitari squadristi. «Continueremo» – ha assicurato Mnuchin – «ad usare tutti gli strumenti diplomatici ed economici a nostra disposizione per appoggiare Juan Guaidò», E proprio l’autoproclamato Presidente, poche ore dopo, ha reso noto di aver «dato il via al processo di nomina delle giunte direttive di PDVSA e CITGO per permettere di iniziare il recupero della nostra industria che attraversa un momento oscuro». Un’azione, ha evidenziato il leader, presa per garantire «che CITGO continui ad essere dei venezuelani» e che si affianca al «trasferimento dei conti della Repubblica al controllo dello stato venezuelano e delle sue autorità legittime (il Parlamento), per evitare che si porti avanti il saccheggio». E’ necessario – ha rimarcato – «impedire che nella sua fase di uscita, e non contento di aver rubato tutto quello che hanno rubato dal Venezuela, l’usurpatore e la sua banda non decidano di raschiare il fondo del barile».

Ma qual’è la situazione del settore petrolifero, fonte vitale (tanto da porlo a garanzia di una criptomoneta inventata da Maduro, il petro) del Venezuela, peraltro membro dell’OPEC? La mancanza cronica di investimenti e la difficoltà di manutenzione delle strutture (in particolare delle raffinerie di Cardon, El Palito e Puerto La Cruz) hanno portato le esportazioni petrolifere a crollare alla fine del 2018 ai minimi storici da quasi trent’anni: se nel 2012 il Paese produceva 2,9 milioni di barili al giorno (mbg) di petrolio e ne esportava 2,1, nel 2018 la produzione non ha superato gli 1,3 mbg mentre le esportazioni si sono ridotte agli 1,2 milioni. Inoltre, la capacità di raffinazione è oggi stimata in poco meno di 350,000 barili al giorno. Gli introiti dalla vendita sono quindi progressivamente diminuiti, complice il forte calo del prezzo del greggio avvenuto nel 2014. Eppure il Paese vanterebbe un’enorme quantitativo di riserve petrolifere: secondo alcune stime, si tratterebbe di circa 300 miliardi di barili, buona parte delle quali si trovano, per esempio, lungo il corso del fiume Orinoco e, nel Mare dei Caraibi, nel grande lago di Maracaibo, in quello che è il Bolivar Coastal Field. A detta di alcuni analisti, per ritirare su la produzione, sarebbero necessari oltre 20 miliardi di dollari di investimenti e, in ogni caso, il petrolio, nelle condizioni attuali, come nel caso dell’Iraq nel 2003, non potrebbe in alcun modo fungere da ristoro ad un’impresa militare oppure da unico sostegno ad un’eventuale ricostruzione.

La compagnia petrolifera statale venezuelana è la PDVSA, fondata nel 1975. La sua nazionalizzazione risale praticamente alla sua nascita, ben prima della salita al potere del socialista Hugo Chavez nel 1999. Nonostante le immani riserve petrolifere, il declino, a cui hanno contribuito la corruzione e le lacune dei manager militari impegnati nella soppressione dei sindacati dei lavoratori del settore e nei traffici illeciti, è stato lento, ma inesorabile e tutti i guadagni dalla vendita di greggio sono stati ben presto sperperati in spese assistenziali e clientelari oltre che nel mantenimento dei privilegi delle alte gerarchie. Il tutto a discapito dell’innovazione e dell’efficienza. Tra il 2005 e 2007 il governo impose la rinegoziazione dei contratti con le società estere, modificò le condizioni fiscali e nazionalizzò diversi progetti, disincentivando gli investimenti esteri. Per gli espropri subiti nel 2007, la ConocoPhillips ha vinto un arbitrato internazionale e, tra il 2017 e il 2018, ha iniziato, nell’intento di recuperare ben 2 miliardi di dollari, a sequestrare beni della PDVSA, come siti di stoccaggio e di raffinazione del greggio nelle ex Antille olandesi, ed ha preso il controllo del terminal di Bopec, sull’isola di Bonaire. Anche la società mineraria canadese Crystallex ha vinto lo scorso anno una causa legale contro il Venezuela per la nazionalizzazione di una miniera d’oro, ma ancora non è stata risarcita. Dopo il licenziamento di quasi 20.000 dipendenti nel 2003 disposto da Chavez in contrasto con il management, i dipendenti hanno toccato quota 150.000. La compagnia ha quindi accumulato debiti per oltre 40 miliardi di dollari, di cui quasi 25 miliardi in obbligazioni, delle quali ben 8 miliardi di arretrati nei pagamenti tra capitale e interessi. Soprattutto nell’ ultimo anno, la PDVSA ha iniziato ad intaccare il debito con l’aiuto della Russia e, soprattutto, della Cina che avrebbe già pagato a Caracas 60 miliardi di dollari di aiuti.

Negli Stati Uniti la PDVSA controlla la filiale CITGO.  Fondata nel 1910 per opera di Henry L. Doherty, quando si chiamava Cities Service Co., solo negli anni ’80 venne rilevata per il 50 per cento dalla PDVSA che, qualche anno dopo, ne avrebbe acquisito il 50 per cento rimanente. Le raffinerie di Citgo producono circa il 4 per cento dei prodotti petroliferi raffinati statunitensi. Al momento, essendo un asset estero della PDVSA, vista la situazione di default selettivo, potrebbe essere aggredito dai creditori, anche se va ricordato che il 49,9% è detenuto dalla compagnia petrolifera russa Rosneft.

Il presidente della PDVSA, Manuel Quevedo, per il momento, nonostante siano iniziate le prime proteste anche tra i lavoratori del settore, ha ribadito il sostegno al regime, sotto l’ «attacco degli Stati Uniti». In molti ipotizzano che il Venezuela smetterà di spedire petrolio agli Stati Uniti, compreso quello di CITGO, per evitare il trasferimento di fondi al governo provvisorio guidato da Guaido. In tal caso, potrebbe essere già partito un sostanziale embargo. Ciò detto, all’inizio della scorsa settimana, la PDVSA ha già messo per la vendita sul mercato quattro milioni di barili di petrolio greggio e proprio il contrabbando potrebbe, nell’ottica di Maduro, essere una soluzione temporanea in grado di far fronte al calo delle esportazioni ufficiali.

Quale potrebbe essere il piano di Guaidò per il futuro del petrolio venezuelano è tutt’altro che chiaro: secondo alcune indiscrezioni, egli starebbe pensando ad una parziale privatizzazione o, addirittura, alla creazione di un’Agenzia per gli idrocarburi per gestire le liberalizzazioni. Ma il nuovo corso potrebbe voler cancellare, ad esempio, i contratti già esistenti? Non si tralasci che, poche settimane fa, l’Assemblea nazionale, in mano all’opposizione, ha bocciato gli accordi siglati dal governo con la società statunitense Erepla e la francese Maurel & Prom, accusate di violare l’articolo 150 della costituzione venezuelana che sancisce che i contratti firmati tra lo Stato e le società estere vengano approvati dal Congresso venezuelano ossia dall’Assemblea Nazionale.

La crisi pare tutt’ora lontana da una sua soluzione e il Venezuela è al collasso con l’ inflazione alle stelle e la diminuzione di cibo e medicine. In diverse città del Paese oggi migliaia di manifestanti hanno risposto alla convocazione lanciata da Juan Guaidò per protestare contro il governo di Nicolas Maduro ed esigere nuove elezioni presidenziali. «Vi ringrazio per la resistenza» ha detto l’autoproclamato Presidente, indicando in 5 mila le località del Paese dove i cittadini sono scesi in piazza. Dal canto suo l’opposizione venezuelana è disposta a un dialogo con il governo di Nicolas Maduro «solo per negoziare l’uscita dalla dittatura», ha dichiarato, rispondendo ad una domanda sull’offerta di mediazione portata avanti da Paesi come Messico e Uruguay, Carlos Vecchio. A questo punto del braccio di ferro, potrebbe essere il petrolio a far capitolare il regime? Perché? Chi sono i maggiori clienti del settore petrolifero venezuelano? Quali conseguenze potrebbe avere a livello interno e globale? A queste domande ha risposto Antonella Mori, Docente di Macroeconomia e Scenari Economici all’Università Bocconi di Milano e Macroeconomia al Master in Diplomazia dell’ISPI.

E’ un po’ che il regime chiedeva l’oro alla Banca d’Inghilterra e, comunque, era bloccato. Ed è vero per quanto riguarda le esportazioni di petrolio: infatti, tra le sanzioni annunciate dagli americani, quello che loro hanno detto è che continueranno ad importare il petrolio dal Venezuela solo se i soldi vengono messi su un conto bloccato in una banca americana, quindi se non vanno a Maduro. Parallelamente, Guaidò sta tentando di entrare in possesso della compagnia petrolifera, ma non è facile capire come potrà farlo e con quali tempi. Quello che hanno deciso gli Stati Uniti, invece, pare potrebbe avere degli effetti molto più veloci. Le sanzioni sarebbero rivolte a tutti i cittadini o le imprese, anche americane, che fanno affari con la PDVSA. A questo riguardo, Bolton e il Ministro per l’economia americano hanno dichiarato che se non riuscissero a garantire questo flusso di denaro in un conto bloccato, smetterebbero di acquistare, ma hanno anche detto che, al momento, detengono sufficienti riserve per non avere un grosso problema di offerta o di prezzi. Naturalmente ci sono diverse aziende che dipendono tantissimo dall’importazione di petrolio venezuelano e queste, ovviamente, soffriranno di più. Immagino anche, però, che il governo degli Stati Uniti si aspetti che sia una situazione temporanea che, in un certo qual modo, aiuti.

E che metta maggiore pressione al regime. 

Certo. Questo vuol dire togliere le risorse vitali al governo Maduro e creare un maggiore incentivo ai militari ad abbandonarlo. La speranza, ovviamente, è che duri poco perché le conseguenze, anche per il popolo venezuelano, possono essere importanti. E’ dare, in sostanza, un ulteriore motivo per far scegliere ai militari la strada delle elezioni anticipate rappresentate da Guaidò, con la possibilità che ci sia un’amnistia per qualcheduno. Finora, invece, i militari e Maduro avevano un flusso di risorse che era difficile abbandonare.

Maduro ha già annunciato di voler «avviare le azioni politiche, legali, dinanzi ai tribunali degli Usa e del mondo per difendere i nostri interessi. Nei prossimi giorni presenteremo misure necessarie e decise per proteggere gli interessi della Nazione» dalla decisione «unilaterale, illegale, criminale e immorale» degli Stati Uniti che, appoggiati da Guaidò, «vogliono rubare la CITGO ai venezuelani». Ma la strada ‘legale’ è davvero percorribile da Maduro e contro chi?

La questione della proprietà rimanda al rivale Guaidò che ha annunciato di voler prendere il controllo della compagnia petrolifera. Del resto gli Stati Uniti, legittimamente, hanno solamente annunciato di non voler più acquistare petrolio se il denaro non viene trasferito in un conto bloccato. E’ un’azione comunque lecita ed è chiaro che ha come obiettivo quello di togliere risorse a Maduro. Ora la preoccupazione è che, siccome sono in scadenza delle obbligazioni della PDVSA che hanno come garanzia per i creditori, qualora non venissero pagati gli interessi, gli asset all’estero, ossia CITGO, tutto ciò possa scatenare una causa legale tra, da una parte, fondi d’investimento, obbligazionisti e. dall’altra, la compagnia. Ecco perché Guaidò tenta di togliere la CITGO alla PDVSA: lo scopo è quello di evitare di perdere la CITGO in futuro.

Sappiamo, però, che la situazione del settore del petrolio venezuelano è tutt’altro che rosea. Nel 2018 si è avuto un drastico calo della produzione – si parla di 1,24 milioni di barili -, nonostante il Paese possa vantare la più grande riserva petrolifera al mondo. Come si è arrivati a questo punto?

Sono mancati investimenti pubblici perché prima, quando il prezzo del petrolio era alto, molti soldi venivano destinati ad attività diverse e non nel settore dove i privati non sono mai stati forti. Da quando il prezzo del petrolio è caduto, gli investimenti sono stati sempre più bassi. Quindi, a portare il crollo della produzione che dieci anni fa era tre volte tanto, è stata proprio una mancanza di investimenti, risalente anche al periodo di Chavez, unita alle incapacità manageriali dimostrate dai militari a cui Maduro ha deciso di affidare la gestione.

Tutto ciò ha comportato anche un elevato indebitamento – secondo alcuni analisti, supererebbe i 40 miliardi di dollari – della compagnia petrolifera nazionale, la PDVSA?

Non abbiamo dati molto precisi, però, effettivamente la situazione è questa: ci sono varie emissioni obbligazionarie della PDVSA e, in più, ci sono probabilmente importanti prestiti che ha ricevuto dalla Cina e fors’anche dalla Russia. Sono stati anticipi per successive vendite di petrolio. Non sono normali emissioni obbligazionarie di cui si hanno dati precisi. Si parla di 50-60 miliardi che la Cina avrebbe dato negli anni al Venezuela.

Chi sono i maggiori clienti del petrolio venezuelano?

Sicuramente gli Stati Uniti che comprano quasi la metà (circa 500.000 barili) del petrolio venduto dal Venezuela. Un piccolo quantitativo, poi, va ai Paesi amici, nelle isole caraibiche vicine come Cuba, Nicaragua. Poi la Cina. Non so se la Russia, grande esportatore di greggio, acquisti petrolio venezuelano: è vero che collabora con il Venezuela, facendo investimenti nel settore petrolifero. Per quanto riguarda l’Europa, non mi sembra sia tra i clienti del petrolio di Caracas.

Di recente, c’è poi stata la scoperta di ingenti risorse petrolifere in Guyana, che hanno fortemente irritato il governo di Caracas. Anche questo ha influito nel crollo produttivo venezuelano?

Ovviamente, visto che sono risorse, peraltro ingenti, che si trovano al confine, neanche ben definito, è normale che possano creare tensioni. Non credo che abbia influito più di tanto nel crollo della produzione che ha come cause principali la mancanza di investimenti e la carenza manageriale. Già i tempi di Chavez, il Presidente aveva fatto una grande epurazione alla PDVSA e tantissimi tecnici e ingegneri licenziati sono andati in Colombia e, a quanto pare, questo ha dato luogo ad una forte spinta al settore petrolifero in quel Paese, facendone un grande produttore. Questa carenza di capitale fisico e umano spiega il crollo della produzione.

Pochi giorni fa, Maduro ha messo in vendita sul mercato circa 4 miliardi di petrolio; ha annunciato, nel nuovo piano di sviluppo, che la produzione petrolifera venezuelana raggiungerà i 5 milioni di barili l’anno entro il 2025. Come pensa il regime di poter conseguire questi risultati? 

Maduro ha sempre avuto molte idee, come quando ha creato la sua criptovaluta. Si tratta di sparate prive di qualsiasi fondamento perché, al momento, con Maduro, potrebbero arrivare un po’ di soldi, forse, solo da Russia e Cina. Ma servirebbero grandissimi investimenti privati. Tra l’altro, non credo che 5 milioni di barili il Venezuela sia mai riuscito a produrli, con tutto che hanno grandissime riserve.

Guaidò, intanto, si prepara a fare nomine per i board di PDVSA e CITGO. Secondo alcune indiscrezioni, il suo piano di ristrutturazione del settore petrolifero venezuelano prevederebbe anche una parziale privatizzazione della compagnia nazionale e la creazione di un’Agenzia per gli idrocarburi. Se così fosse, quali tempistiche e quali possibilità di successo potrebbe avere questo piano?

Difficile dirlo anche perché, per quanto riguarda le nomine, c’è un grande caos istituzionale: non si capisce come Guaidò possa nominare capi di imprese. Quello che mi sembra strano è che possa annunciare una parziale privatizzazione della PDVSA, che è la principale risorsa del Venezuela, e che possa farlo poco prima di elezioni che, come lui stesso afferma, si dovrebbero tenere il prima possibile. Potrebbe essere molto rischioso in quanto il popolo potrebbe non volerlo. Ricordiamoci poi che il partito chavista continuerà a presentarsi e, probabilmente, uno zoccolo duro del venti per cento ce l’ha ancora e questo potrebbe aumentare senza Maduro. Quindi sicuramente parleranno di liberalizzazioni, di joint ventures, di aprire il settore petrolifero, anche perché la PDVSA i soldi non li ha. Ma sarebbe molto pericoloso annunciare privatizzazioni alla vigilia delle elezioni.

Rispetto ai contratti in essere siglati dalla PDVSA durante il governo Maduro, quale potrebbe essere l’atteggiamento di Guaidò?

Non lo so. Penso che, se si tratta di contratti di fornitura petrolifera, con clausole ‘normali’, a prezzi di mercato, potrebbero essere mantenuti. Anche perché ci potrebbe essere il rischio di cause legali. Diverso potrebbe essere il caso di contratti di altro genere, ad esempio di traffici illeciti, di vendita di armi, usate magari per la repressione.

Nel caso vincesse Guaidò e cambiasse, con un processo di liberalizzazione, lo stato attuale del settore del petrolio venezuelano, quali effetti ci si potrebbe aspettare sul mercato petrolifero globale?

Quello che ci si potrebbe aspettare sarebbe un aumento della produzione petrolifera mondiale in quanto il Venezuela tornerebbe a produrre di più. E questa maggiore offerta porterebbe prezzi più bassi. E questo, secondo alcuni, potrebbe essere il più grande costo che dovrebbe sopportare la Russia per la perdita del regime di Maduro. Penso anche che, invece, per gli Stati Uniti, sia vantaggioso avere un produttore più affidbile nella regione: in fin dei conti, è molto più semplice per loro importare dal Venezuela piuttosto che da Paesi molto più lontani. Inoltre, non ci sarebbe il rischio che per tenere in piedi Maduro la presenza russa e cinese possa aumentare. E poi, dato non irrilevante, se l’economia del Venezuela si risollevasse, quei tre milioni di venezuelani che sono partiti torneranno a casa e la pressione migratoria sugli Stati Uniti potrebbe diminuire.

Gli Stati Uniti, pochi mesi fa, hanno reimposto, esentando temporaneamente alcuni Paesi, le sanzioni sul petrolio iraniano. E’ possibile che gli Stati Uniti, onde evitare conseguenze sul prezzo del greggio, possano decidere di prolungare le esenzioni?

Se sono Paesi che comprano sia dal Venezuela che dall’Iran, penso di sì. Anche nelle sanzioni decise per il Venezuela, includendo per la prima volta il petrolio, gli Stati Uniti hanno comunque detto che vedranno caso per caso per lasciare ad alcune aziende, ad esempio, europee un certo margine di tempo per trovare una soluzione sostitutiva. Per i Paesi che potrebbero sostituire il petrolio venezuelano con quello iraniano, si potrebbe anche pensare ad una proroga delle esenzioni. Penso che il tentativo degli Stati Uniti sia quello di forzare la mano, ma nella speranza che tutto si risolvi in tempi brevi.

Pensa che la crisi della produzione petrolifera venezuelana, abbia finora favorito l’OPEC?

La produzione del Venezuela è diminuita e questo le ha fatto perdere peso, in termini relativi, all’interno dell’OPEC. Questo ha sicuramente aiutato ad avere un prezzo del petrolio più alto. Quanto questo calo della produzione venezuelana possa aver pesato non lo saprei dire.

Pensa che la situazione possa risolversi diplomaticamente?

Tutto dipende dai militari: se il fronte dei militari si spacca, allora è possibile. Sinceramente non credo che gli Stati Uniti possano intervenire militarmente.