ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Dal jihadismo all’ estremismo politico, i servizi segreti, nella relazione presentata oggi, illustrano le principali criticità

Questa mattina, a Roma, a Palazzo Chigi, si è svolta la presentazione della Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza curata dal Dipartimento Informazione e Sicurezza, alla presenza del Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, del Direttore generale del Dis, Alessandro Pansa.  Molti gli spunti di riflessione emersi, soprattutto considerando che si avvicina il 4 marzo, la data delle elezioni politiche nazionali, e il quasi perenne clima di campagna elettorale, talvolta, non aiuta ad identificare in maniera lucida le criticità. Certamente, il tema della sicurezza non dovrebbe e non può aver colore politico: «il patrimonio italiano è che, pur avendo collocazioni diverse di governo – ad esempio Dc e Pci, il massimo di radicalità alternativa – di fronte alla sfida democratica sapevano dove stare. Non era un patrimonio di alleanza politica, ma culturale del Paese» ha recentemente ricordato il Ministro dell’ Interno Marco Minniti.

A mo’ di bussola per orientarsi in un mondo sempre più complesso e ricco di sfide, la relazione dei servizi segreti italiani passa in rassegna le potenziali minacce alla sicurezza del Paese. Minacce al cui contrasto – occorre ribadirlo con forza – le donne e gli uomini dell’ intelligence dedicano, quotidianamente, con risultati lodevoli stando all’ oggettiva analisi dei dati, la propria vita.

A seguito di una delle più grandi crisi economiche del secondo dopoguerra, con l’ emergere di nuove sfide globali, dalla Corea del Nord, alla possibile decertificazione americana dell’ accordo sul nucleare iraniano, alla crisi ucraina, passando per le tensioni all’ interno del mondo arabo o, per citarne qualcun’altra, Pakistan-India e Israele-Palestina, quali le maggiori criticità che  si presentano per l’ Italia? E’ questo il contenuto della relazione.

Proprio perché l’ Italia si accinge ad andare alle urne, secondo i servizi di sicurezza, massima allerta è rivolta alle «campagne di influenza che, prendendo avvio con la diffusione online di informazioni trafugate mediante attacchi cyber, mirano a condizionare l’orientamento ed il sentiment delle opinioni pubbliche, specie allorquando queste ultime sono chiamate alle urne». Tali campagne «hanno dimostrato di saper sfruttare, con l’impiego di tecniche sofisticate e di ingenti risorse finanziarie, sia gli attributi fondanti delle democrazie liberali (dalle libertà civili agli strumenti tecnologici più avanzati), sia le divisioni politiche, economiche e sociali dei contesti d’interesse, con l’obiettivo di introdurre, all’interno degli stessi, elementi di destabilizzazione e di minarne la coesione». 

E’ possibile un aumento, secondo i servizi di sicurezza, delle campagne di spionaggio digitale da parte di attori statuali e di minacce ibride, specie in concomitanza di passaggi cruciali per i sistemi democratici. Tra le modalità di cyberattacco, le email di spear-phishing, e le tecniche di impersonation, che hanno consentito al cyberattaccante di acquisire le credenziali per accedere a caselle di posta elettronica, soprattutto di capi di aziende particolarmente strategiche. In questo senso, ha dichiarato Paolo Gentiloni, diviene imprenscindibile il ruolo dell’ intelligence «per difendere i nostri asset strategici»  (per esempio quelle che si occupano del settore energetico) anche perché, ormai, «difendere lo spazio informatico significa difendere il territorio nazionale». «L’ attenzione» – ha detto di recente il Ministro Minniti – «è altissima perché tu rischi di accorgertene sempre troppo tardi: il cyberattacco, quando te ne accorgi, è già avvenuto. La capacità che stiamo cercando di mettere in campo è quella di prevenire».

Anche il 2017 ha confermato la centralità assoluta della minaccia jihadista nelle agende della sicurezza. Se da una parte, nel corso dell’ anno appena trascorso, il terrorismo ha dovuto adottare, anche in risposta alle ripetute e fragorose sconfitte militari, una postura più difensiva, dall’ altra, la sua attività pericolosa, basata, in particolare, su «una certa tendenza alla polverizzazione dei centri di comando e degli attori della minaccia quanto da una costante diversificazione del modus operandi», non si è interrotta. Nell’ ambito jihadista, le organizzazioni che si sono affermate come fonti di «ispirazione» tanto per «piccoli movimenti» quanto per i singoli «mujaheddin» sono state DAESH, che è stato l’ attore più importante, e al Qaida, deciso a rientrare in possesso del ruolo principale. Per questo, a dividerle, una competizione spietata, evidente, specialmente, in Africa e in Asia, e che vede DAESH impegnata nella disperata difesa di quel poco che rimane delle restanti roccaforti, tramite «l’esaltazione del martirio e la feroce repressione delle spinte defezioniste»; Al Qaida appare, invece, dedita ad operazioni di infiltrazione.

La ‘fluidità’ della concorrenza tra le due colonne del jihadismo mondiale non deve lasciare indifferenti se si tiene conto anche di possibili confronti giocati in terreni cosiddetti «esterni», magari con prove di forza rivolte contro l’ Occidente. Non va dimenticato, inoltre, conformemente a quanto ricordano i servizi segreti nella relazione, che le molteplici sconfitte sul terreno inflitte nel 2017 all’ entità statuale del Califfato e quindi il suo ridimensionamento, oltre alle ingenti perdite finanziarie,  associati alle pressioni delle diverse forze in campo, ha comportato un cambio di strategia, oltre che ad un trasferimento fisico: «DAESH ha reagito all’offensiva militare adottando modalità operative intese a preservare posizioni e forze residue, ricorrendo a misure di difesa passiva a presidio dei territori occupati e all’evacuazione preventiva da aree non più difendibili, così come all’intensificazione degli attacchi asimmetrici finalizzati ad ostacolare i progressi della Coalizione e delle forze contrapposte».

Dal canto suo al Qaida, sebbene più fragile di qualche anno fa, è rimasta operante in Pakistan e Afghanistan e ha rafforzato la sua presenza in zone del «Maghreb, del Sahel, della Penisola Arabica, del Corno d’Africa e della Siria».

Non si può tralasciare, il potenziamento del jihadismo nel Sud-Est asiatico e l’ infiltrazione sommata al proselitismo condotti da al Qaida stessa, sfruttando l’ emergenza della persecuzione birmana della minoranza di fede musulmana dei Rohingya, nell’ area che va dall’ India al Pakistan, passando per il Myanmar ed il Bangladesh,  dove sono state rilevate attività jihadiste così come in Indonesia e nelle Filippine.

Nonostante i possibili contrasti all’ interno dell’ organizzazione, la sua impalcatura non è deflagrata, ma, anzi, vedendosi, quasi all’ angolo militarmente, ha aumentato la sua azione di propaganda, nel tentativo di convincere quanti più individui possibili nella lotta a difesa dello ‘Stato Islamico’: si pensi, ad esempio, agli attacchi che l’ Europa, e non solo, ha subito negli ultimi mesi. Quel che appare certo agli occhi degli operatori di sicurezza è la tendenza di DAESH a «sminuire la rilevanza delle perdite patite sul terreno, esaltando per contro la retorica del martirio e la resilienza dei suoi combattenti … In coerenza con questa narrazione, l’organizzazione ha progressivamente enfatizzato la rilevanza del jihad individuale, con accenti istigatori rivolti anche a donne e bambini, non mancando di fornire indicazioni e suggerimenti» per eventuali attacchi. In questo modo, dilaga la sensazione di insicurezza e aumenta il numero di coloro che si convincono di voler combattere la jihad.  

Il network qaedista non pare perdere ‘appeal’ per i «gruppi minori attivi soprattutto nell’Asia meridionale, nel Sud-Est asiatico e in Libia» e l’ Europa rimane nel mirino, come è stato confermato, dagli attacchi (18), compiuti da ‘lupi solitari’, nel 2017, all’ insegna dell’ «imprevedibilità ed economicità, facilità di esecuzione e alta probabilità di successo».

«Per l’Italia» – sostiene la relazione – «la minaccia terroristica resta attuale e concreta, non solo in ragione del ruolo di rilievo che il nostro Paese da sempre occupa nell’immaginario e nella narrativa jihadista, ma anche per la presenza sul territorio nazionale di soggetti radicalizzati o comunque esposti a processi di radicalizzazione».

Da questo punto di vista, non poca attenzione è stata riservata ai foreign fighters, che, dopo aver combattuto in diversi teatri di conflitto, tornano nei Paesi d’ origine e vogliano sferrare attacchi: nei termini dell’ intelligence, il cosiddetto “effetto blowback”. E’ anche vero, però, che nel 2017, le schiaccianti sconfitte militari subìte da DAESH non si sono tradotte in un aumento del fenomeno foreign fighters, bensì in un diverso ridispiegamento dei combattenti nei vari teatri di conflitto. Rimane comunque alta la guardia, soprattutto perché alcuni ex-jihadisti potrebbero rientrare nei rispettivi Paesi d’origine  arrendendosi o chiedendo assistenza per esser rimpatriati oppure in modo illegale. In quest’ ottica, la regione balcanica continua ad essere sorvegliata speciale. Se sul versante delle partenze, nell’ anno passato, per quanto concerne l’ Italia, non sono state registrate nuove partenze in direzione del teatro siro-iracheno, su quello dei ‘ritorni, c’è stato un solo caso.

Un ulteriore rischio è rappresentato dagli estremisti homegrown, «mossi da motivazioni e spinte autonome o pilotati da “registi del terrore”. Il nostro Paese è investito, del resto, dall’attività propagandistica ostile di DAESH, organizzazione che appare determinata ad alimentare il fenomeno della radicalizzazione on-line anche in Italia, ricorrendo in molti casi alla divulgazione di messaggi tradotti o sottotitolati nella nostra lingua. Una pressione di natura istigatoria, questa, che ha continuato a coniugarsi con l’attivismo di “islamonauti” italofoni e di italiani radicalizzati impegnati a diversi livelli: dal proselitismo di base a più significativi contatti con omologhi e militanti attivi all’estero, compresi foreign fighters e soggetti espulsi dall’Italia per motivi di sicurezza … Essa trova alimento, oltre che negli ambienti virtuali del web e nel contesto di circuiti parentali/relazionali di difficile penetrazione, anche in centri di aggregazione – grazie all’ascendente di alcuni imam di orientamento estremista, itineranti o stanziali, capaci di stimolare pulsioni anti-occidentali – e negli istituti carcerari, fertile terreno di coltura per il “virus” jihadista, diffuso da estremisti in stato di detenzione».

Come arginare il possibile uso della rete a fini propagandistici e di proselitismo?Tra le diverse misure messe in campo, quella proposta nel corso della riunione dei Ministri dell’Interno dei Paesi G7, di Ischia del 19 e 20 ottobre sotto presidenza italiana: è stata, infatti, sottolineata l’ esigenza condivisa «di rendere le piattaforme più resilienti, attraverso un’azione combinata che preveda, tra l’altro, l’utilizzo di tecnologie automatizzate per la rapida rilevazione e rimozione dei contenuti che incitano al terrorismo e la condivisione di best practices» e l’ importanza  del Global Internet Forum to Counter Terrorism (GIFCT).

La prevenzione esercitata dalle Forze di Polizia e dell’ Intelligence rimane, dunque, fondamentale. Quali le direttrici? Innanzitutto «intercettare processi di radicalizzazione individuali prima che suggestioni attinte dal web e altre forme di influenza o di etero-direzione possano agire da innesco per il passaggio ad opzioni offensive». Compito di per sé arduo data l’ ampiezza di variabili e di elementi da dover contemplare. In quest’ ottica, sono stati eseguiti 105 provvedimenti di espulsione adottati nel 2017 nei confronti di altrettanti stranieri, per la maggior parte nordafricani, ed alcuni arresti eseguiti nel corso dell’anno.

Per far fronte alla stringente relazione tra «l’attivismo dei gruppi terroristici ed i volumi delle loro risorse finanziarie, l’azione informativa ha continuato ad attribuire grande rilevanza al monitoraggio e all’analisi dei flussi finanziari»,   guardando in particolar modo alle donazioni private, al fenomeno delle rimesse movimentate grazie ai sistemi pseudo-bancari, i cosiddetti IVTS (Informal Value Transfer Systems), al sistema ‘hawala’ e alle nuove forme di pagamento digitali.

L’ immigrazione illegale – continua la relazione –  rimane una delle tante «potenziali “direttrici logistiche” che collegano aree di insediamento e penetrazione del terrorismo di matrice confessionale alla UE, target prioritario del jihadismo». E, verso l’ Italia, la rotta mediterranea è rimasta precipua durante tutto il corso del 2017.  In seguito dei grandi numeri di arrivi dei primi mesi dell’anno,  la seconda metà dell’ anno ha visto un forte calo dei flussi migratori provenienti dalla Libia (-34% rispetto al 2016), grazie all’ azione del Governo di Roma che ha dato un enorme impulso alle istituzioni locali. Sono soprattutto nigeriani, seguiti da altre nazionalità dell’area sub-sahariana, coloro che sono sbarcati.  Molto però rimane ad ostacolare una completa inversione di tendenza: ad esempio, «la flessibilità di network criminali ramificati e regionali, ma anche in ragione del permanere di profili di criticità che potrebbero contribuire ad una ripresa su larga scala delle partenze alla volta del nostro Paese. Da sottolineare, infatti: la presenza, in Libia, di una quantità rilevante di migranti; la fragilità perdurante di quel quadro di sicurezza, tuttora segnato dall’attivismo di numerose milizie in costante competizione per status e prebende; l’assenza di controlli efficaci in ampie aree della regione sahelo-sahariana, dominio di locali aggregazioni su base tribale spesso coinvolte, direttamente o indirettamente, nel traffico migratorio; infine il grado elevato di corruzione e la scarsa motivazione in enti preposti alla lotta al fenomeno in Paesi di origine e transito dei flussi».

Anche perché, in Libia, convergono due flussi migratori: «quelli che originano dall’Africa occidentale, percorrono il Niger, attraversando quindi una sorta di “terra di nessuno” controllata da tribù e warlords locali; quelli che nascono nel Corno d’Africa e arrivano in Sudan, per poi dirigere, direttamente o con tappa intermedia in Egitto, alla volta della Libia. Qui il business è gestito da reti criminali che hanno creato basi operative e strutture logistiche dislocate in maniera capillare e perfettamente organizzate».

Nonostante la disfatta di Sirte, DAESH non è ancora stato debellato ed è per questo che l’ attività dell’ intelligence si è dovuta interfacciare anche con un contesto politico complesso, di ‘confronto’ tra «Tripoli e Tobruk, con cui si è misurata la difficile azione del Premier designato Serraj e che ha animato il dibattito sul ruolo del Generale Haftar e del suo Esercito Nazionale Libico (ENL)»,  tenendo in conto delle attività di ulteriori altri attori interni ed esterni. L’ Italia ha giocato un ruolo importante: dalla riapertura dell’ Ambasciata a Tripoli alla sottoscrizione del Memorandum di intesa sulla cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere. Il tutto con l’ obiettivo, sostenuto anche dal grande impegno del Rappresentante del Segretario Generale ONU, Ghassan Salameh. Senza stabilità, non è possibile fare passi in qualsiasi senso.

Dalla Tunisia all’ Egitto, tutta l’ area del Maghreb è fortemente attenzionata dai servizi di sicurezza. Allo stesso modo, l’ Africa Saheliana e Sub Saheliana, soprattutto la Nigeria, in quanto punto di partenza di molti migranti, e la Somalia, sferzata dagli attacchi di Al-Shabab. E’ altresì ovvio che l’ area comprendente la Siria e l’ Iraq sono state e sono tuttora oggetto di attenzione dell’ intelligence italiana e non solo: in Siria, in corso c’è l’ Iniziativa di Ginevra, corroborata da un affievolimento delle tensioni anche grazie ai colloqui di Astana e alla definizione di quattro zone di de-escalation; in Iraq, la disfatta di DAESH lascia riemergere le ostilità legate anche alla presenza kurda e alla rivendicazione di indipendenza del Kurdistan rispetto a Baghdad.

Oltre al grande protagonismo in sede europea ed ONU,  l’ Italia ha apportato sostegno alle agenzie ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), come messo in evidenza dalla Dichiarazione di Malta del 3 febbraio 2017. Il tutto, nella consapevolezza di superare la logica dell’ emergenza, e guardare al fenomeno in modo strutturale, specialmente osservando le straordinarie previsioni di crescita demografica . Anche la rotta balcanica, nonostante l’ accordo UE-Turchia, rimane centrale. Nel Mediterraneo, un ruolo protagonista nello sfruttamento dell’ immigrazione le filiere somale e quelle filiere nigeriane.

Soprattutto in relazione a sentimenti più estremisti, di rifiuto e anti-immigrazione, alta la vigilanza verso «le possibili spinte anti-sistema, soprattutto per quelle provenienti dai circuiti anarco-insurrezionalisti», che trovano sinergie anche fuori-confine che si sono tradotte «in concreto attivismo propagandistico e mobilitativo dai connotati politico-ideologici piuttosto trasversali, tesi a combattere DAESH ma anche a contrastare l’avanzata del capitalismo, promuovendo la causa dell’anarchismo in tutto il mondo», facendo largo uso del web.