Il premier Orban si appoggia a Putin per farsi valere nell’Unione europea e forse anche per scopi più ambiziosi e preoccupanti

 

Può capitare, in politica come altrove, che un singolo evento non sia tanto rimarchevole di per sé quanto per il suo contesto, per la cornice nella quale si inquadra. È il caso della breve visita che Vladimir Putin ha compiuto in Ungheria una settimana fa, ospite di un Paese i cui rapporti con la Russia erano stati storicamente tutt’altro che amichevoli e che solo nell’ultimo quarto di secolo hanno trovato modo di migliorare sensibilmente. E, va detto, anche alquanto sorprendentemente.

Liberatasi infatti dalla quarantennale dominazione sovietica, contro la quale aveva inscenato una delle più sanguinose insurrezioni nazionali del Novecento (non del tutto infruttuosa, per la verità, benchè stroncata dall’Armata rossa), l’odierna Ungheria entrò poi a far parte sia dell’Alleanza atlantica sia dell’Unione europea, ossia di uno schieramento occidentale che, nel suo insieme, con la Russia postcomunista ha finito col tornare a guardarsi in cagnesco.

Al punto, come sappiamo, che si parla correntemente di nuova “guerra fredda”, con l’occhio puntato proprio nel cuore del vecchio continente. Dove, cioè, si situa anche la Repubblica magiara, che nel fatidico 1989, ancora “satellite” dell’URSS, aveva dato il via al ribaltone simboleggiato dal crollo del Muro di Berlino aprendo un varco nella “cortina di ferro” per consentire a lunghe carovane di tedeschi orientali fuggiaschi di raggiungere la Germania federale, poco dopo estesasi, con la riunificazione, a quella “democratica” abbandonata al suo destino da Michail Gorbaciov.

L’Ungheria, per dire, confina con l’Ucraina in preda ad un conflitto “ibrido” o “a bassa intensità” che ci si può solo augurare non trascenda in qualcosa di peggio. A differenza però di altri Paesi occidentali oggettivamente in prima linea, il suo attuale governo non sembra affatto allarmato per la minaccia di una Russia che molti, se non i più, vedono nuovamente aggressiva ed espansionista. Al contrario, si atteggia e si comporta ormai da qualche anno in modo tale da indurre osservatori (citiamo quelli di ‘RadioFreeEurope-RadioLiberty’) a raffigurare il Paese, proprio alla vigilia dell’arrivo a Budapest del “nuovo zar”, come «quanto di più vicino ad un alleato la Russia possiede nella UE».

Benchè non gratuita, l’immagine è certo un po’ forzata. Il legame magiaro con la NATO non presenta alcuna incrinatura; la partecipazione alle manovre militari atlantiche, ad esempio, prosegue normalmente. Sulle sanzioni inflitte alla Russia Budapest non ha nascosto il suo dissenso nè l’inaccettabilità del danno (oltre 6 miliardi di euro) che secondo le sue stime ne sarebbe derivato all’economia nazionale. Si è però astenuta, almeno finora, dall’opporre il proprio veto alla decisione iniziale e alle successive proroghe da parte di Bruxelles, che sarebbe stato sufficiente (come quello di qualsiasi altro governo membro) per bloccarle.

Ciò non basta tuttavia a minimizzare l’altro piatto della bilancia, sul quale inevitabilmente pesa, soprattutto, l’atteggiamento più che amichevole assunto malgrado tutto dall’attuale premier ungherese, Viktor Orban, nei confronti della Russia in generale e del suo presidente in particolare. Che non a caso, del resto, aveva già ricevuto a Budapest nello scorso febbraio oltre ad incontrarsi a con lui, a Mosca o altrove, altre sei volte, la metà delle quali, complessivamente, negli ultimi due anni. Un vero e proprio record in Occidente, reso tanto più vistoso dall’affiatamento emerso da una simile frequentazione e per nulla dissimulato.

Sono divenute ormai pressocchè proverbiali le esternazioni con le quali Orban ha espresso il suo apprezzamento per la “democrazia illiberale” vigente in Russia e nella quale quasi si vanta di riconoscersi, suffragando le parole con i fatti. Seguito finora con compattezza da un partito, Fidesz, che era stato all’avanguardia nel ripudio di un regime comunista per quanto edulcorato, lo sta guidando in una deriva autoritaria documentata dai colpi inferti alla libertà di stampa e di insegnamento, all’indipendenza della magistratura e delle banche e alle organizzazioni non governative. Il tutto in analogia con quanto accade da tempo in Russia, per cui non sorprende che gli oppositori denuncino una “putinizzazione” dell’Ungheria.

La quale, a rigore, potrebbe non comportare di per sé una tendenziale ricaduta nell’orbita moscovita, tenendo conto che l’evoluzione magiara è molto simile a quella in corso in Polonia, dove invece l’ostilità nei confronti della Russia permane o addirittura si accentua. Accomuna tuttavia i due Paesi il fatto che in entrambi i casi lo scadimento del sistema democratico e dello Stato di diritto contribuisca a porli in rotta di collisione con l’Unione europea, istituzionalmente fondata su principi sui quali non transige o quanto meno cerca di non transigere.

La NATO, al riguardo, è da sempre meno schizzinosa di Bruxelles ma, nella fattispecie, a mettere in mora l’Ungheria per la sua politica interna è sospinta se non altro dalla concomitanza con la svolta filorussa della sua politica estera. Negli Stati Uniti in particolare, poi, la duplice deriva magiara suscita reazioni ancora più dure che in Europa anche per effetto della tolleranza, quanto meno, da parte del governo Orban delle riaffiorate pulsioni antisemite, e più in generale xenofobe, in un Paese la cui stessa vocazione democratica non si è mai mostrata troppo vigorosa.

Tutto ciò era ben noto e chiaro prima della seconda comparsa di Putin sulle rive del Danubio, per una visita ufficialmente “di lavoro” in coincidenza a Budapest con i campionati mondiali di judo, alla cui inaugurazione il “nuovo zar” non poteva mancare nella sua veste di presidente onorario della relativa federazione internazionale, oltre che di appassionato judoka e titolare di una “cintura nera”. Per l’occasione è stata conferita a Putin la cittadinanza onoraria di Debrecen dalla locale università, che provvede tra l’altro alla preparazione dei quadri tecnici da impiegare nella centrale nucleare di Paks, l’unica del Paese. Risalente all’era sovietica, sarà dotata di due nuovi reattori aggiuntivi a cura della russa Rosatom e grazie ad un prestito russo di 10 miliardi di euro.

Concordata nel 2014, l’operazione ha ricevuto il nulla osta di Bruxelles ma ciò nonostante i lavori sono proceduti a rilento fors’anche a causa di critiche e ostacoli da parte ungherese. E’ stata infatti messa in dubbio la sicurezza di un impianto originariamente simile a quello di Cernobyl’ e una ferma contrarietà è stata espressa dal dipartimento di diritto costituzionale della stessa università di Debrecen. Il governo tuttavia tiene duro e Putin ha assicurato il suo interessamento affinchè la realizzazione del progetto sia completata entro l’inizio del prossimo anno.

Assai meno gradito a Bruxelles è invece un altro accordo tra Budapest e Mosca stipulato proprio alla vigilia della visita di Putin: quello con Gazprom per l’allacciamento dell’Ungheria al Turkish Stream, la conduttura destinata a rifornire di gas russo l’Europa centro-orientale attraverso appunto l’Anatolia aggirando il territorio ucraino che ospitava fino a ieri la maggior parte di simili collegamenti. A Budapest si sostiene ufficialmente che si tratti dell’unico modo per diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, mentre la scelta fatta accresce naturalmente la già soverchiante dipendenza da Mosca e sembra per di più ignorare l’offerta di cospicue quantità di gas liquefatto americano prontamente accettata, per contro, dalla Polonia.

Non sono mancati anche altri segnali minori, ma non per questo trascurabili, di un confermato legame bilaterale tanto più rilevante nel momento in cui la Russia si appresta ad inscenare le più massicce e spettacolari manovre militari di sempre presso i suoi confini occidentali, con ennesimo allarme rosso soprattutto degli immediati vicini. Ciò però non impedisce all’Ungheria di Orban, ad esempio, di raddoppiare i collegamenti aerei di Wizz Air, la sua compagnia low cost, con Mosca e San Pietroburgo, né di proporsi per il subentro allo Stato ucraino nella quota di partecipazione paritaria (che Kiev intende privatizzare) alla joint venture con Russia e Kazachstan per la produzione di combustibile nucleare, che esiste dal 2001.

Potrebbe essere un passo di concreto avvicinamento, se si vuole, all’Unione eurasiatica capeggiata da Mosca, e ciò proprio quando Budapest, lungi dal lasciarsi scoraggiare dalle delusioni che forse le sono pervenute da Washington, appare decisa ad accentuare anziché frenare o moderare le sue prese di distanza da Bruxelles. Alcuni osservatori hanno creduto di scorgere nel nuovo incontro tra Orban e Putin la ricerca di qualche rimedio ai tradimenti di Donald Trump, sui propositi iniziali del quale entrambi avevano verosimilmente fatto qualche affidamento. E’ un’ipotesi plausibile, a condizione che tenga conto delle priorità probabilmente diverse dei due personaggi, oltre che delle dimensioni e del peso dei rispettivi Paesi.

Il premier magiaro aveva salutato la vittoria elettorale del successore di Barack Obamacome un «evento storico», che prometteva di liberare l’Occidente «dai ceppi delle ideologie e della correttezza politica». E ancora nello scorso febbraio, alla vigilia del penultimo appuntamento con Putin, il portavoce del governo ungherese dichiarava che a Budapest si sperava di trarre benefici da un ravvicinamento tra due grandi potenze i cui leader condividevano gli orientamenti per lo più rimproverati a Orban quanto meno nel campo occidentale. Nei mesi successivi si è assistito invece ad un progressivo deterioramento del clima internazionale e del confronto tra Washington e Mosca, ma indipendentemente dalle sue cause ciò deve essere risultato più deludente per Putin che per Orban, pur spingendo entrambi ad insistere nella coltivazione di un rapporto bilaterale ad ogni buon fine.

Trump, infatti, per quanto è dato di capire, si è visto costretto dagli sviluppi e dalle reazioni interne a ritirare praticamente la mano tesa verso il Cremlino mentre la parte del suo programma di partenza meno apprezzata o più indigesta per gli alleati europei degli USA ha resistito meglio alla prova del potere. E, nella misura in cui essa si è tradotta in mosse e pronunciamenti anche solo oggettivamente ostili alla UE in quanto tale, è persino andata ancor più incontro alle posizioni ungheresi.

Il ciclone Trump, certo, può ancora rivelarsi effimero su tutta la linea. Intanto, però, comporta una convergenza con la priorità che a Budapest si assegna oggi proprio alla sfida lanciata verso ovest, con l’obiettivo additato da Orban di impedire una ricaduta sotto il giogo di Bruxelles, o magari Berlino, dopo la liberazione da quello di Mosca. Quella sovietica, beninteso, perché se dovesse venir meno l’appoggio diretto o indiretto americano potrebbe in compenso servire allo scopo la Russian connection con la Mosca del “nuovo zar”, comunque già utile e utilizzata.

Guarda caso, la settimana successiva al commiato di Putin è stata caratterizzata da una serie di atti e gesti ungheresi di tipo grintoso nei confronti della casa comune europea e della sua centrale, ma non solo. Il più provocatorio è stata la richiesta a Bruxelles (simile a quella di Trump al Messico) di finanziare le barriere di confine erette per impedire l’ingresso dei migranti, a dispetto del ben noto rifiuto di Budapest, come degli altri tre governi del gruppo Visegrad, di accogliere anche uno solo dei pur pochi assegnatile dalla UE tra quanti sbarcati in Italia.

Ciò è avvenuto alla vigilia di un’imminente sentenza della Corte di giustizia europea al riguardo, contemporaneamente alla proroga per altri sei mesi dello stato di emergenza profughi e all’indomani della decisione tedesca di non rinviare più in Ungheria i richiedenti asilo che dovrebbero tornarvi, giustificata con il carente rispetto dei diritti umani nel Paese. A proposito dei quali più in generale, Orban ha pubblicamente dichiarato di solidarizzare con la Turchia nelle sue dispute con Bruxelles, Berlino, ecc., dopo avere richiamato l’ambasciatore in Olanda per protesta contro le critiche ricevute in materia dalla stessa Ungheria.

Budapest, inoltre, ha respinto l’invito a partecipare con un proprio osservatore ai lavori dei ministri delle Finanze dell’Eurogruppo, confermando così il disinteresse sia per un’eventuale adozione della moneta unica sia per i progetti di più stretta integrazione finanziaria nell’ambito UE. Invito che, invece, è stato accolto positivamente dalla Repubblica ceca, che pur condivide in parte le propensioni “euroscettiche” magiare.

Parlando agli studenti nello scorso luglio Orban aveva sì spezzato una lancia per un’Europa che deve appartenere agli europei, riferendosi però ad una sacrosanta difesa dei diritti e dei poteri degli Stati nazionali dalla continua e sistematica usurpazione da parte di Bruxelles, oltre a quella dell’intero continente dalla minaccia dell’islamizzazione. Gli altri Stati europei, e in particolare i più vicini all’Ungheria, hanno forse qualche ragione di preoccuparsi per le implicazioni di un simile europeismo.

L’attuale premier magiaro non nasconde infatti il rimpianto per la grande Ungheria del passato anche nell’ambito dell’Impero asburgico e l’imperdonabilità della mutilazione subita dal Paese al termine della prima guerra mondiale, quando insieme con vasti territori perse un numero di connazionali certo molto inferiori ai loro abitanti di altra nazionalità ma complessivamente pur sempre pari, all’incirca, agli ungheresi rimasti in patria. Quelli che da allora si ritrovano in Slovacchia e Romania, in Serbia e in Ucraina sono diventati oggetto di un larvato irredentismo, sotto forma di una controversa attribuzione, nel 2010, della cittadinanza magiara in aggiunta a quella straniera e, proprio nei giorni scorsi, di invito a partecipare alle prossime elezioni parlamentari nella vecchia patria.

Sempre nello scorso luglio Orban inviò a questi nuovi concittadini una lettera in cui preannunciava che «nei prossimi anni dovremo prendere decisioni importanti per i destini dell’Ungheria e che avranno effetti sull’intero bacino carpatico». C’è da domandarsi se a tale prospettiva si ricolleghino sin d’ora, fra le altre cose, il progetto di introdurre nelle scuole magiare l’addestramento militare obbligatorio nonché, volendo, le lezioni di judo che Putin ha promesso di impartire al premier ungherese. E che potrebbero comunque servirgli anche per fronteggiare una crescente opposizione domestica alla sua politica interna ed estera.