La storia, come si sa, ama ripetersi, benchè le lezioni che impartisce vengano raramente ascoltate. Sarà anche un luogo comune, che torna però spesso in mente assistendo agli inesauribili sviluppi sulla scena internazionale. A quanto accade oggi, ad esempio, o sembra profilarsi, in una regione del mondo tradizionalmente critica, instabile o addirittura esplosiva come l’Europa centro-orientale. Winston Churchill, uno dei vincitori della seconda guerra mondiale, indicava nella sua sezione meridionale, la penisola balcanica, il “ventre molle” del vecchio continente, ossia la sua parte più esposta alle intromissioni e agli scontri tra le maggiori potenze esterne.

A Sarajevo, nel cuore dell’ex Jugoslavia, sprizzò oltre un secolo fa, come pure tutti sanno, la scintilla che scatenò il primo conflitto mondiale. Oggi tuttavia il non invidiabile ruolo di “polveriera d’Europa” (altra etichetta applicata a suo tempo ai Balcani) potrebbe essere attribuito proprio all’intera fascia centro-orientale del continente. Rimasta quasi miracolosamente tranquilla, per lo più e malgrado tutto, durante la lunga “guerra fredda” tra Est e Ovest, essa è ridiventata incandescente in questi ultimi anni a causa di contrasti e tensioni tra l’Occidente e la Russia postcomunista capaci di sfociare, come molti paventano e nessuno si sente di escludere, in un terzo conflitto mondiale.

Non è comunque obbligatorio pensare al peggio per prestare attenzione ai più recenti sviluppi regionali. Decisamente destabilizzanti, se non si riveleranno un fuoco di paglia, e francamente imprevedibili fino solo a qualche mese fa, essi richiamano alla memoria un curioso precedente del secolo scorso. Quello della piccola Albania, passata nel 1945 sotto un regime comunista dopo la guerra di liberazione dagli occupanti nazifascisti, vinta con l’aiuto determinante dei comunisti jugoslavi. La fratellanza con essi durò poco, perché Josip Broz, il “maresciallo Tito”, vagheggiava una grande federazione comunista balcanica, mentre a Tirana si temeva l’invadenza del più “grande fratello”. Quando Tito, poco dopo, ruppe con Stalin per motivi analoghi, il dittatore albanese, Enver Hoxha, ne approfittò per rompere a sua volta con Belgrado affidandosi alla protezione esclusiva di Mosca.

Ma anche questo pur naturale legame gli sembrò troppo pesante allorchè i successori del “padre dei popoli” ripudiarono il suo mito. Stalinista impenitente quanto nazionalista, Hoxha ruppe anche con loro scegliendo un nuovo protettore: la Cina ugualmente  comunista  ma dissociatasi dalla centrale moscovita, e vista con più favore, probabilmente, anche perché parecchio più lontana. La scarrozzata si concluse con l’abbandono di Pechino, rea di avvicinamento agli Stati Uniti, e il conseguente isolamento internazionale agevolò la caduta del regime di Tirana, in concomitanza con quella degli altri dell’Europa centro-orientale, più o meno “satelliti” dell’URSS.

Al complessivo ribaltone di fine anni ’80 e primi ’90 contribuì non poco la multiforme pressione occidentale sul campo avverso, al cui epocale successo seguì la graduale inclusione del grosso della regione nella Comunità e poi Unione europea e nell’Alleanza atlantica. Operazione, questa, in parte sconsiderata per un verso ma naturale per un altro e comunque sostenuta dalla piena e libera scelta dei Paesi interessati, protesi a cautelarsi contro il pericolo di un risollevamento della potenza russa e della vocazione egemonica di Mosca nelle proprie adiacenze occidentali, quanto meno in chiave difensiva contro percepiti torti e minacce altrui.

Il pericolo si è puntualmente materializzato in questi ultimi anni con l’esplosione della crisi ucraina, cioè di un Paese collocabile nella fascia in questione benchè già parte dell’URSS (e largamente legato alla Russia sotto vari aspetti), come del resto le tre repubbliche baltiche oggi membri di UE e NATO. A rigore, le più ampie frizioni e tensioni che ne sono nate avrebbero dovuto rafforzare ulteriormente i vincoli dell’Europa centro-orientale con l’Occidente. Così però non è stato, o lo è stato solo in parte, per motivi inerenti allo stesso confronto generale con Mosca ma anche estranei ad esso.

L’intreccio tra questi e quelli, già esistente o latente, è emerso quasi all’improvviso nello scorso luglio, dopo una delle battute più attese del confronto: un duplice incontro a quattr’occhi tra Donald Trump e Vladimir Putin in occasione del vertice dei G20 ad Amburgo. Entrambi i presidenti se ne sono mostrati relativamente soddisfatti sia pure in misura o con stile diversi. Dell’effettivo andamento ed eventuale esito dei loro colloqui non è però trapelato nulla di consistente, lasciando così intatti tutti i dubbi e le incognite sollevati soprattutto dalla contraddittorietà, mutevolezza e imponderabilità dei propositi e delle posizioni del massimo rappresentante americano.

Qualcosa di più sostanzioso era avvenuto invece pochi giorni prima, pur attirando la debita attenzione solo successivamente. Lo stesso Trump si era recato a Varsavia per la sua prima visita in un Paese alleato dopo l’ascesa alla Casa bianca. Oltre ad intrattenersi assai cordialmente con i dirigenti locali, aveva presenziato ad un altro vertice, quello di un’organizzazione europea, o aspirante tale, sinora pressocchè sconosciuta benchè in gestazione ormai da un anno: l’Iniziativa tre mari (TSI). Promossa dai governi polacco e croato, essa ha ottenuto l’adesione di altri dieci Paesi del continente: Cechia, Slovacchia e Ungheria (che insieme alla Polonia formano il più noto Gruppo di Visegrad) nonché Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Romania, Bulgaria e Austria, quest’ultima unico non membro della NATO, e anzi formalmente neutrale, mentre tutti fanno parte della UE.

Il nome si deve al Mar Baltico, al Mar Nero e all’Adriatico che bagnano due terzi del gruppo e circondano uno spazio continentale all’interno del quale si mira a sviluppare la cooperazione economica e commerciale puntando in particolare sull’ampliamento e rafforzamento delle infrastrutture e degli approvvigionamenti energetici. Nel primo caso si tratta fra l’altro di aggiungere nuove vie di comunicazione nord-sud (o viceversa) a quelle ovest-est sinora predominanti. Nel secondo, ancora più rilevante politicamente, di affrancare la regione da una soverchiante dipendenza dal gas russo.

Già in entrambi i casi, comunque, saltano all’occhio alcuni motivi per i quali le critiche e i sospetti che la TSI non manca di attirarsi, dentro come fuori della regione, riguardano la sua compatibilità con gli impegni tra i Dodici (se rimarranno tali) e il resto dei Ventisette (se la Brexit sarà confermata) facenti capo a Bruxelles.  Al grosso dei primi non piace affatto il nuovo gasdotto (il secondo) sotto il Baltico destinato a portare ulteriore gas di Putin verso ovest e che sta invece moltissimo a cuore, in primo luogo, alla Germania, mentre Berlino è accusata di minore comprensione per le esigenze dei soci centro-orientali non solo in campo energetico.

D’altra parte, se la TSI non ha niente a che fare, almeno ufficialmente, con questioni come quella così scottante dell’immigrazione, i ben noti contrasti in materia tra il gruppo Visegrad e Bruxelles campeggiano inevitabilmente sullo sfondo e nel contesto del processo separato che si cerca di avviare fra i tre mari. A Varsavia, per dire, gli umori sono tali da avvertire che si preferirà uscire dalla UE piuttosto che accogliere un solo profugo musulmano. Ma non basta. I maggiori soci centro-orientali dell’Unione appaiono più che mai restii ad aderire all’eurozona, come hanno invece fatto alcuni più piccoli, e più in generale osteggiano i ventilati progetti di più avanzata integrazione, economica o altro, ma comunque in senso federalistico e se necessario a diverse velocità. E qui la Brexit può avere contribuito al lancio della TSI anche come rimedio alla perdita di un importante contrappeso alla sgradita egemonia continentale tedesca o franco-tedesca.

Un capitolo a parte sono poi gli attriti suscitati dagli sbandamenti autoritari in Ungheria e Polonia, che possono accentuare le spinte al loro allontanamento da Bruxelles, istituzionalmente impegnata a difendere gli ordinamenti democratici specialmente in una fase così critica dei rapporti con la Russia. Mentre però a Budapest il premier Viktor Orban non nasconde un certo debole per Putin, del quale apprezza dichiaratamente la “democrazia illiberale”, e anche in qualche altro Paese vicino non mancano propensioni filorusse, esse non sono per nulla condivise a Varsavia come a Bucarest e nella maggioranza delle altre capitali regionali.Dovrebbero quindi frenare anziché favorire un distacco dalla UE, specie se impostato collettivamente.

Una spinta importante e addirittura determinante in questa direzione promette invece di provenire dalla fonte fino a ieri più impensabile, sempre che quello innescato dalla Casa bianca non finisca col rivelarsi un fuoco fatuo anziché un ciclone dei più sconvolgenti della scena internazionale. Sta di fatto, per ora, che della TSI si parla oggi soprattutto perché Trump, a Varsavia, l’ha riempita di elogi assicurando tutto l’appoggio americano, tanto più credibile, nelle intenzioni, perché fondato anche su precisi e concreti interessi USA, con in testa la fornitura su vasta scala di gas e armi a nuovi clienti per sostenere le rispettive industrie nazionali.

Dopo l’arrivo in giugno del primo carico di gas liquefatto proveniente dalle rocce del Texas, nel terminal polacco sul Baltico già aperto dal 2015, si dà per imminente anche l’entrata in funzione del nuovo impianto di riconversione situato a Krk, l’isola croata del vecchio Quarnaro. Il tutto mentre a Berlino, soprattutto, si subodora che le inasprite sanzioni USA alla Russia mirino proprio ad aprire i mercati europei al gas americano, oltre a danneggiare anche le società tedesche e di altri Paesi alleati che trafficano col “nemico”, più che a punire Mosca per l’aggressione all’Ucraina, l’intromissione nelle elezioni americane, ecc.

D’altronde, com’è noto, le nuove sanzioni non sono state volute da Trump bensì imposte dal Congresso di Washington e da lui accettate anche per ripararsi meglio dalle accuse connesse con il Russiagate. Ammesso tuttavia che il controverso presidente voglia e possa ancora venire in qualche modo a patti con Putin, può servirgli sul fronte interno schierarsi a fianco degli europei centrorientali come ha fatto con ormai familiare enfasi a Varsavia parlando anche di valori comuni. Non stupisce perciò che alcuni osservatori abbiano subito rievocato in proposito la “nuova Europa” esaltata a suo tempo dal predecessore repubblicano George W. Bushcontrapponendola a quella “vecchia” di Berlino e Parigi, che colludendo con Mosca avevano osteggiato l’attacco all’Irak di Saddam Hussein.

Di qui a sospettare che l’attuale Casa bianca, per ragioni anche solo tattiche se non strategiche, possa puntare addirittura a spaccare l’Unione europea a guida tedesca il passo è alquanto breve, tenuto conto che alle svolte della politica estera americana impresse o prospettate da Trump Angela Merkel ha reagito con insolita durezza, respingendo al mittente le accuse alla Germania di concorrenza commerciale sleale, unendosi alla Cina nell’opporsi alla dissociazione USA dagli impegni di lotta contro il riscaldamento terrestre e mettendo in cantiere insieme alla Francia un embrionale apparato di difesa comune europea per sopperire al ventilato (benchè sinora tutt’altro che confermato) disimpegno militare americano dal vecchio continente come da altri scacchieri oltre che alla diserzione britannica.

Quanto ai governi della “nuova Europa”, non c’è naturalmente da stupirsi che i Dodici della TSI smentiscano coralmente ogni proposito di volersi separare dalla “vecchia”. Anche quanti difendono a spada tratta l’Iniziativa dalle relative critiche o accuse lo fanno spesso, però, in termini tali da accreditare l’ipotesi che si guardi in realtà anche al di là della problematica energetica e delle infrastrutture. Quel tanto di protezione da vere o presunte minacce esterne implicito nell’appartenenza alla UE ha fatto finora comodo a tutti, sicuramente, ma è sempre stato oggettivamente di grado inferiore, e fors’anche percepito come meno affidabile, rispetto allo scudo offerto dalla superpotenza americana.

E’ vero poi che grazie alla UE gli ex satelliti dell’URSS sono molto e rapidamente cresciuti nell’ultimo quarto di secolo. In questi ultimi anni l’economia polacca ha superato tutti i membri dell’Unione quanto a capacità di mantenere tassi di crescita relativamente alti nonostante la crisi, e adesso quella ceca la sta emulando. Proprio l’irrobustimento, comunque generale, sembra oggi alimentare un’accresciuta assertività e insofferenza per i condizionamenti ed eventuali imposizioni esterne, benchè non certo paragonabili a quelli patiti prima della fatidica caduta del Muro di Berlino.

La tentazione di affidarsi alla tutela d’oltre oceano, più lontana e meno ingombrante di quella che fa capo a Bruxelles, può dunque farsi tanto più sentire, magari all’insegna di motti, di antica ispirazione, del tipo “perché subire l’egemonia tedesca dopo esserci liberati da quella sovietica?”. Accade però che la TSI, nata o concepita proprio alla vigilia del cambio della guardia alla Casa bianca, si sia trovata di fronte alla prospettiva che possa venir meno un’adeguata protezione americana. Trump, ora, sembra non solo ribadirla ma accentuarla, al punto da incoraggiare quanto meno oggettivamente le propensioni a staccarsi dalla UE. E tuttavia, date tutte le incertezze che gravano sui futuri indirizzi di Washinton, neanche sullo scudo USA si può contare con sufficiente fiducia. Proprio la TSI, allora, potrebbe rivelarsi una base di partenza e uno strumento utile per ogni evenienza. A differenza della piccola Albania comunista, l’Europa centro-orientale non appare necessariamente costretta a rivolgersi altrove per garantire la propria sicurezza. Potrebbe provvedere da sola, qualora riuscisse a dimostrare un’adeguata coesione.

Dopotutto, specie se estesa eventualmente ad un Paese relativamente grande come l’Ucraina, alla quale i promotori della TSI sicuramente guardano molto, disporrebbe di un potenziale umano nettamente superiore a quello della Russia, oltre al potenziale economico in decisa espansione. Manca la potenza militare, della quale però non è così difficile dotarsi come dimostra l’esempio, per quanto così poco attraente, della piccola e semi affamata Corea del nord.

E infine, se per qualche motivo neppure la soluzione interna risultasse praticabile, resterebbe pur sempre da seguire fino in fondo l’esempio albanese ricorrendo alla Cina, predestinata secondo molti al rango e al ruolo di unica superpotenza mondiale. Pechino non ha mai nascosto il suo vivo interesse per la “nuova Europa”, quanto meno come sede di investimenti e partner economico in generale. Già da alcuni anni esiste ed opera un’apposita organizzazione comune denominata “16+1”, che a differenza della TSI comprende anche tutti i Paesi balcanici e che Bruxelles non vede di buon occhio. Anche il precedente albanese è scarsamente incoraggiante, ma naturalmente le analogie sono poche e molte cose sono cambiate nel frattempo nel mondo.