A prima vista, i due vecchi nemici della “guerra fredda” hanno nuovamente imboccato una rotta di collisione stavolta non più frenabile. All’inasprimento delle sanzioni americane contro la Russia Vladimir Putin ha risposto espellendo centinaia di diplomatici USA e dichiarando di avere ormai perso la pazienza. Dmitrij Medvedev, il premier (nonchè ex presidente della federazione russa) che mai prima si era distinto come “falco”, ha proclamato la fine di ogni speranza di stabilire rapporti migliori con Washington. Non sono ancora dichiarazioni di guerra, del resto ormai desuete, ma gesti e parole che preludono ad una resa dei conti.

Inasprite ed estese, le sanzioni colpiscono senza dubbio nel vivo un Paese che si sta appena riprendendo dall’ennesima crisi di un’economia fragile, non all’altezza delle ambizioni del suo regime sul piano internazionale e il cui rinvigorimento dipende in larga misura dall’apporto della finanza e della tecnologia estere. Eppure, non sembra che proprio da qui possa sprizzare la scintilla fatale, anche presumendo che Putin e compagni non abbiano alcuna intenzione di piegarsi alla pressione economica come è avvenuto sinora, essendo arrivati persino a sostenere che essa sia salutare perché li stimola a correre ai ripari.

Non è ancora scontato, innanzitutto, che le nuove misure americane danneggino ulteriormente anche gli affari con la Russia degli alleati europei, che già le contestano vivacemente e potrebbero ottenerne una revisione o il ridimensionamento.

A volerle e ad imporle alla Casa bianca, comunque, è stato il Congresso di Washington, mentre Donald Trump non ha affatto nascosto di aver dovuto subirle, arrendendosi alla stessa maggioranza repubblicana quasi interamente schierata, al riguardo, con l’opposizione democratica. Non è detto, però, che per questo o quel motivo il partito del presidente, ma anche il suo rivale, non ci ripensino, e soprattutto che non sia in atto uno spregiudicato e magari proficuo gioco delle parti, benchè finora Trump e la sua Amministrazione siano parsi soffrire uno stato confusionale più che brillare per astuzia.

Qualora, infatti, quest’ultima ipotesi trovasse conferma e la proficuità cominciasse a profilarsi, da molte parti si dovrebbe concedere che la strategia di “the Donald” promette maggiore efficacia di quella del predecessore. Nel frattempo, il magnate di New York potrebbe riuscire a mantenere aperto il proprio dialogo con il Cremlino addebitando al Congresso e più in generale ad un certo establishment domestico, transpartitico e nostalgico della vecchia guerra fredda, la colpa per il pericolo di ricadere in una nuova.

L’attenzione viene comunque richiamata con forza, a tale proposito, da un’altra causa di attrito e potenziale scontro inevitabile tra Mosca e Washington: la collocazione internazionale della Georgia. La piccola repubblica transcaucasica è legata alla Russia non solo dalla sua adiacenza alla regione, in prevalenza islamica, più agitata e problematica della federazione (basti pensare alla Cecenia), nonché dal ricordo ancora tanto attuale di un personaggio come Stalin, che vi nacque e crebbe prima di diventare una delle figure dominanti del secolo scorso.

Vicinissima anche ad un centro sotto vari aspetti importante ed emblematico come Soci, la Georgia è attraversata da gasdotti più o meno controversi ma già esistenti o programmati per rifornire l’Europa partendo dall’Azerbaigian.Interessa inoltre alla Russia per i collegamenti stradali con lo stesso Azerbaigian e l’Armenia, le altre due repubbliche transcaucasiche (la seconda molto più amica di Mosca della prima) da tempo in guerra tra loro, aperta o latente, per una vecchia disputa territoriale. Non manca neppure un tangibile interesse cinese, testimoniato da cospicui investimenti, compreso quello per un’imponente Città del futuro, in un Paese probabilmente destinato ad ospitare un tratto chiave della Via della seta.

Precocemente ribelle a Mosca prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Georgia subì a sua volta, all’indomani dell’indipendenza, la ribellione di due delle sue tante minoranze etniche appoggiate anche militarmente dalla Russia. La conseguente secessione dell’Abchasia e dell’Ossezia meridionale(prospiciente a quella settentrionale già russa), che amputò il Paese di un quinto del suo territorio, venne suggellata dalla proclamazione di due repubbliche teoricamente indipendenti ma strettamente legate a Mosca e pressocchè prive di riconoscimenti internazionali.

Una frattura ancor più grave si produsse nel 2008, quando un governo di Tbilisi accesamente antirusso aggiunse alla rivendicazione delle province perdute (e alla diserzione sin dall’inizio di ogni organizzazione dell’area ex sovietica patrocinata da Mosca) un atteggiamento ostentamente provocatorio nei confronti del Cremlino programmando l’adesione alla NATO oltre che all’Unione europea. Ne nacque un breve conflitto armato facilmente vittorioso per la Russia, che sottrasse agli sconfitti ulteriori lembi di terra ma dovette subire di conseguenza una prima crepa nei rapporti con l’Occidente.

La seconda e ancor più grossa arrivò pochi anni più tardi per effetto della crisi ucraina, che frustrò la relativa distensione con Mosca promossa da nuovi dirigenti di Tbilisi già prima dell’uscita di scena di Mikheil Saakashvili, il presidente responsabile di un’avventura dall’esito scontato e rifugiatosi poi in Ucraina acquistandone la cittadinanza, che gli è stata però recentemente revocata per contrasti con i massimi dirigenti di Kiev. Preoccupati per i possibili contraccolpi del vicino conflitto e della tensione internazionale, quelli di Tbilisi hanno finito col cercare nuovamente la duplice protezione occidentale anche a rischio di rendere più temibile la minaccia russa.

Ferme restando, così, sia la contestazione delle amputazioni territoriali sia l’assenza di normali relazioni diplomatiche con Mosca, intrattenute solo indirettamente tramite la Svizzera e in parte compensate dalla permanenza di rappresentanze consolari. Il tutto, peraltro, alquanto in contrasto con rapporti economici bilaterali tornati intensi. Nell’ultimo quinquennio la Russia è stata il secondo partner commerciale della Georgia dopo la Turchia e la principale importatrice del suo vino, da sempre molto apprezzato a Mosca e dintorni, delle sue acque minerali e di altri prodotti alimentari. Nel 2016, inoltre, il Paese è stato visitato da un milione di turisti russi, previsti in aumento nel corrente anno.

Questo dunque lo sfondo sul quale si collocano i più recenti sviluppi, caratterizzati dall’accelerazione di per sé esplosiva, alla luce dei precedenti, dell’avvicinamento della Georgia alla NATO. Documentata da inequivocabili parole e atti dei suoi governanti, non scoraggiata da un consenso più che altro tacito e probabilmente tiepido, se non proprio scettico, della maggioranza dei membri europei dell’alleanza, essa gode ora di un favore apparentemente pieno, da parte americana, che fino a poche settimane fa sarebbe stato impensabile.

Ne è stato principale interprete, nei giorni scorsi, il vice presidente Mike Pence, recatosi a Tbilisi in mezzo a visite altrettanto brevi ma non meno dimostrative in Estonia, uno dei Paesi più esposti alla vera o presunta minaccia russa, e nel Montenegro, appena ammesso nell’Alleanza atlantica a dispetto di una contrarietà russa per nulla malcelata. Nella sua capitale, Podgorica, il vice di Trump (con il quale, va detto, molti si domandano quanto sia in sintonia) ha partecipato ad un vertice della cosiddetta Adriatic Charter, una nuova organizzazione concepita per riaccomunare le sei repubbliche ex jugoslave più l’Albania sotto il mantello atlantico e contro le tentazioni di flirtare con Mosca.

A Tbilisi Pence è arrivato, il 1° agosto, in concomitanza locale con imponenti manovre militari, denominate Noble Partner 2017, alle quali hanno partecipato, insieme a 1600 soldati USA 800 georgiani, addestrati in un’apposita base atlantica presso la capitale, anche unità del Regno unito, Germania, Turchia, Slovenia e Armenia. Quest’ultima non è membro della NATO bensì, finora, uno dei più stretti alleati della Russia, il che suggerisce di non sopravvalutare oltre misura il significato politico dell’evento, che tuttavia non può essere negato almeno nel caso georgiano.

In margine ai colloqui con il presidente Giorgi Margvelashvili e col premier Giorgi Kvirikashvili il vice presidente americano ha rilasciato dichiarazioni che non potevano essere più recise ed univoche. Ha infatti assicurato che gli USA “condannano severamente” sia l’aggressione russa (in realtà discutibile e discussa come tale) del 2008 sia le sue perduranti conseguenze: l’occupazione di territori georgiani in flagrante violazione della sovranità e dell’integrità del Paese, la loro militarizzazione e la loro trasformazione in pseudo repubbliche indipendenti. Avvertendo, infine, che non mancherà l’impegno americano per sovvertirle.

Di qui la scelta dell’”amicizia e collaborazione strategica” con la Georgia, lodata per lo sviluppo della sua democrazia e per la sua politica di pace sostenuta ad ogni buon conto da adeguate spese militari. E di qui, soprattutto, la promessa di un “forte appoggio” americano all’aspirazione georgiana all’ammissione nell’Alleanza atlantica e fruire del suo automatico soccorso contro qualsiasi aggressione non provocata previsto dall’art. 5 del suo trattato fondativo. Un obbligo questo, ha precisato Pence, valido per ciascun alleato e sul quale gli USA tengono fermo.

Non si tratta di posizioni personali, facilmente non condivisibili in questo periodo da altri esponenti americani. L’atto congressuale che infligge più dure sanzioni alla Russia le motiva infatti anche con la perdurante occupazione abusiva dell’Abchasia e dell’Ossezia meridionale, per cui ne consegue che la punizione cesserà solo quando si estinguerà la malefatta.

E’ una motivazione aggiuntiva ed inedita, la cui novità innalza ovviamente il livello dell’appoggio USA alla Georgia, mentre sembra che Pence abbia parlato piuttosto a titolo personale sostenendo, sempre a Tbilisi, che per emendarsi e riabilitarsi la Russia dovrebbe smettere altresì di proteggere Stati “canaglia” (rogue) come Iran, Siria e Corea del nord.

Come reagisce Mosca ad una simile sfida? Il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, ha commentato in modo relativamente rilassato la missione di Pence in Estonia e Transcaucasia dichiarando che la Russia “rispetta i rapporti dei Paesi vicini con gli Stati Uniti e altri” pur nutrendo “preoccupazione” per l’estendersi di “diverse alleanze” e delle loro strutture militari presso i propri confini. E “Sputnik Italia”, organo primario della propaganda russa all’estero, titola addirittura il relativo servizio “Non è un problema”.

In compenso, Putin ha prontamente risposto al vice presidente USA preannunciando l’indomani (2 agosto), una propria visita in Abchasia sei giorni più tardi, nell’anniversario dello scoppio della guerra del 2008. Visita che i dirigenti georgiani si sono affrettati a bollare come una provocazione, e anzi, secondo Kvirikashvili, come un “tentativo di legalizzare un’ingiustizia storica”. A Tbilisi si torna comunque a denunciare che nelle province perdute, dopo esodi massicci dei connazionali, i veri padroni continuano da tempo ad ampliare furtivamente, pezzo per pezzo, la superficie occupata, a chiudere le residue scuole georgiane e a consolidare insomma in vario modo il fatto compiuto.

Resta adesso da vedere se si stia andando davvero verso lo scontro ad oltranza come lascerebbe presumere, ad esempio, una recente intimazione di Medvedev secondo il quale la Georgia deve accettare le implicazioni della sua naturale appartenenza alla “sfera di interessi privilegiati” della Russia. Qui si tratta però di capire che cosa ciò possa esattamente comportare dal punto di vista russo, per un verso, e come questo qualcosa possa conciliarsi con i reali obiettivi americani nella regione cui appartiene la Georgia ma anche molto più in generale nel confronto con Mosca.

Sia Trump sia lo stesso Putin danno tutto sommato l’impressione di dover ancora scoprire le rispettive carte in un possibile negoziato complessivo, un mercanteggiamento a tutto campo duro e serrato ma risolutamente finalizzato a concludersi con gli inevitabili compromessi pur dopo avere spinto al massimo la reciproca pressione. Un tipo di gioco, cioè, per il quale l’americano si dice sia particolarmente tagliato e che il russo non dovrebbe verosimilmente disdegnare.

È una prospettiva puramente ipotetica, beninteso, ma certo più augurabile di quelle alternative. E ad essa forse si crede un po’ anche a Tbilisi, dove ancora il premier già citato mostra malgrado tutto un certo ottimismo, dichiarandosi fiducioso appunto in un negoziato di pace che risolva in modo accettabile per tutti problemi sicuramente vitali per il suo Paese.