Qual è il significato politico e religioso dell’ accordo tra sunniti e sciiti per il pellegrinaggio Hajj? E cosa fa l’ Occidente?
Pochi giorni fa il direttore generale per l’Organizzazione dell’Hajj e dei pellegrinaggi della provincia di Teheran, Mehran Farsheed, ha annunciato il raggiungimento di un accordo con le autorità saudite per l’annuale pellegrinaggio alla Mecca che si terrà nel mese di settembre, sottolineando che «la sicurezza e il rispetto dei pellegrini iraniani onore sono le questioni più importanti su cui le autorità si sono concentrate quest’anno. I sauditi hanno accettato le nostre richieste». Secondo quanto dichiarato il funzionario iraniano, quest’anno l’Hajj si terrà nel modo «più ordinato possibile» e a fare eco alle frasi di Farsheed è stato il responsabile dell’Organizzazione iraniana per l’Hajj e i pellegrinaggi, Hameed Mohammadi, il quale ha annunciato che i voli per prendere parte agli eventi legati al pellegrinaggio alla Mecca inizieranno già dal 30 luglio.
Arabia Saudita e Iran non hanno relazioni diplomatiche dal 2016, ma sono giunte ad un accordo per un motivo religioso, ossia il pellegrinaggio Hajj che l’ anno scorso non aveva compreso la partecipazione di pellegrini iraniani, perché le due parti non avevano trovato un compromesso. Nel 2015, il pellegrinaggio era costato la vita a diverse centinaia di persone, di cui più di un quarto di origine iraniana. Cosa comporta questo nel difficile contesto della regione mediorientale, flagellata, ormai da un mese, dalla crisi diplomatica con il Qatar? Quale significato ha questo compromesso? L’ Occidente è in grado di cogliere questo spiraglio di apertura tra le due nazioni, da sempre rivali? Lo abbiamo chiesto a l’Imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, presidente COREIS.
Il direttore generale per l’Organizzazione dell’Hajj e dei pellegrinaggi della provincia di Teheran, Mehran Farsheed, ha annunciato oggi il raggiungimento di un accordo con le autorità saudite, con le quali non vi sono relazioni diplomatiche, per l’annuale pellegrinaggio alla Mecca che si terrà nel mese di settembre. Perché quest’ anno si è giunti ad un accordo?
Credo che abbia prevalso, al di là di difficoltà diplomatiche ed interpretazioni nazionali differenti, il fatto che la religione, la fratellanza e il pellegrinaggio non debbano essere condizionate da situazioni bilaterali o politiche. Quindi mi sembra un segnale positivo, di distinzione tra religione e politica.
Anche se quest’ ultima rimane un obiettivo molto difficile da raggiungere nell’ ambito delle nazioni di religione islamica.
E’ senz’ altro una cosa difficile perché ci sono delle confusioni, delle cattive interpretazioni sia della religione che dell’ interesse nazionale che della politica. Quindi abbiamo teologi che pensano di fare i governatori, governatori che tentano di fare i predicatori e un popolo che è in balia, non riuscendo a distinguere l’ identità della religione da quella della politica. In questo senso è vero che è difficile, come lo è in tutte le civiltà, ma probabilmente, adesso, sembra più evidente nella comunità islamica internazionale.
Dunque, dal suo punto di vista, questo accordo ha anche un significato politico?
Secondo me ha un significato prevalentemente religioso nel senso che qualsiasi siano le difficoltà, le impossibilità, le conflittualità tra due governi, due Stati o due nazioni, ad un certo punto quelle continueranno ad esserci e ad essere oggetto di discussioni, però non tali da corrompere i rapporti che legano i credenti della stessa religione, che vengano dall’ Iran o da qualsiasi altra parte. Un conto è il pellegrinaggio che è un rito religioso, un conto è il discorso che due governi non vogliano parlarsi o interagire in maniera costruttiva.
C’è anche un motivo economico dietro il raggiungimento di questo accordo?
Francamente lo escludo. Sono stato ospite l’ anno scorso del Re per quanto riguarda il pellegrinaggio e penso di poter dire che in realtà si tratta di un grosso investimento per lo Stato saudita che ospita milioni di persone. Questo ha più dei costi e delle tutele di gestione che dei veri e propri introiti. Il pellegrinaggio avviene per cinque giorni in un anno è più un investimento per lo Stato saudita che non un ritorno economico. Quindi personalmente escluderei motivazioni di carattere finanziario e di convenienza economica.
Nel 2015, il pellegrinaggio aveva avuto un esito tragico con centinaia di morti e feriti. L’Arabia Saudita è veramente in grado di garantire la sicurezza ai fedeli in pellegrinaggio?
La difficoltà riguarda il fatto che nell’ arco di cinque giorni milioni, decine di milioni, di persone, anche con una scarsa esperienza in viaggi, in una situazione come quella del pellegrinaggio, a parte al caldo, ma che comprende un rito molto arcaico e molto complesso fisicamente, verrebbe da escluderlo persino per un giovane, per una persona allenata allo sforzo fisico. Quindi la gestione di questi milioni di persone devote, anche con la presenza di islamici non così controllati, non è facile sia dal punto di vista di salute che da quello dell’ amministrazione delle forze. Io posso dire che ho fatto il pellegrinaggio due volte nella vita e poi diverse visite. Mi sembra che ci sia addirittura un Ministero preposto per il pellegrinaggio. Francamente credo che le forze, le esperienze, ma anche le collaborazioni che hanno avuto con consiglieri internazionali per cercare di gestire questa cosa al meglio siano strutturate abbastanza bene. Il problema è che in una quantità così grande di situazioni e di persone e con gli stati d’animo a volte anche un po’ devozionali di alcuni, qualche malato capita, qualche incidente capita così come qualche decesso. Però è un evento veramente eccezionale. A me sembra che le istituzioni saudite, su questa base, cerchino di operare, ogni anno, investimenti destinati alla maggior tutela anche della comodità, come ad esempio la distribuzione gratuita dell’ acqua, percorsi guidati, aria condizionata, guide di preparazione preventive. Mi sembra che ci sia la volontà di fare sempre di più e, forse, sempre meglio. C’è addirittura, se non sbaglio, con i vaccini somministrati a tutti i dipendenti dei vari alberghi che devono ospitare i pellegrini. Ci sono delle misure che ho scoperto e che non potevo neanche immaginare che esistessero.
Questo accordo e questa, almeno apparente, distensione avviene in un momento molto delicato per la regione, dove imperversa da più di un mese la crisi diplomatica con il Qatar. Pensa che la stessa atmosfera di dialogo, di disponibilità possa diffondersi anche a questo livello?
Questa apertura, questa convergenza tra musulmani sciiti dell’ Iran e musulmani sunniti dell’ Arabia Saudita a livello istituzionale, secondo me, sancisce o, se non altro, riduce la percezione che ci sia un conflitto tra sunniti e sciiti: allora ricominciamo a dire che sunniti e sciiti sono ugualmente musulmani, ugualmente fratelli e che non ci possa essere una strumentalizzazione da parte dell’ uno contro l’ altro della possibilità di visitare gli stessi centri spirituali e luoghi di pellegrinaggio. Quindi questo mi sembra interessante e opportuno valorizzare. Per quanto riguarda l’ altra questione e cioè Arabia Saudita e la coalizione del Golfo contro il Qatar, la domanda attiene all’ interpretazione di chi è stato più o meno compiacente o addirittura complice di finanziare parti dell’ Islam fondamentalista, radicale e jihadista. Qui c’è uno scenario che non ha a che fare con la religione, ma con il terrorismo; non ha a che fare con il pellegrinaggio, ma con l’ eversione; non ha a che fare con la differenza tra sunniti e sciiti perché sia il Qatar che l’ Arabia Saudita sono entrambi sunniti.
Anche se, come sostiene la coalizione che comprende l’ Arabia Saudita, il Qatar appoggerebbe e finanzierebbe le organizzazioni terroristiche che destabilizzano la regione.
Per questo, ad essere sincero, è una crisi che non ho capito completamente nel senso che ci sono state concomitanze strane tipo il viaggio di Trump in Arabia Saudita. Storicamente i Paesi del Golfo cercano di essere tra loro solidali, però il peso dell’ Arabia Saudita nei confronti dei singoli altri emirati, sultanati, non nasconde la propria leadership nella regione. Però, secondo me, si tratta più di questioni di carattere politico. A suo tempo si esagerava accusando l’ Arabia Saudita di finanziare il terrorismo. Adesso sembra che il grande demone sia il Qatar. Francamente non lo so. Mi sembra però eccessivo voler demonizzare un solo Paese, considerando tutti gli altri bravi e buoni. C’è qualcosa che non torna. Dal mio punto di vista credo che nessuno in quella regione possa dirsi completamente estraneo a certe dinamiche tra politica nazionale, interessi ad una propaganda islamista, simpatia per alcuni movimenti fondamentalisti ed, in ultimi casi, sostegno ad alcuni gruppi terroristici perché portassero le loro azioni fuori. Per quello che ho avuto modo di seguire in questi decenni, effettivamente, ci sono state miopie, ingenuità, complicità e corruzioni trasversali che riguardano anche l’ Occidente, sia quello europeo che quello transatlantico. E’ uno scenario molto più complesso. Ora che a tutti quanti convenga dire che il Qatar è l’unico corrotto mi sembra un gioco inutile.
Ha avuto un qualche ruolo, nel raggiungimento di questo accordo tra sunniti e sciiti, la recente nomina del nuovo Principe ereditario saudita, Mohammad Bin Salman?
Io ho avuto, effettivamente, modo di vedere il Re, non posso dire di conoscerlo, però c’è un rinnovamento nelle nomine di governo di alcune istituzioni del mondo saudita. Si tratta di persone, intanto, di un’ età decisamente più giovane di quella dei predecessori; che hanno avuto un’ esperienza diretta di educazione in Occidente. Per quello che io oso sperare, mi sembra che ci si possa aspettare che queste nuove nomine diano segnali di rinnovamento, che possano portare ad una migliore comprensione sia della loro politica locale che delle relazioni internazionali. In questo senso, quindi, sì. Direttamente ho conosciuto personalità nuove emiratine e saudite: mi sembra che la loro educazione e la loro visione sia diversa da quella dei loro predecessori e possa far ben sperare, però aspettiamo i fatti. Del resto non è che in Europa o negli Stati Uniti ci siano prospettive migliori.
Attraverso questo accordo, quale messaggio viene lanciato all’ intera comunità islamica?
Mi sembra sia un bel messaggio. Si vuol dire “Basta! Anche se siamo in disaccordo, la fratellanza di principio tra sunniti e sciiti deve essere mantenuta e rispettata”. Così come trovo positive e di interesse le nuove nomine all’ interno dei governi del Golfo e del mondo arabo. C’è tutta una fase nuova che, secondo me, è post-post-primavera araba: c’è stato prima tutto un percorso di socialismo arabo-islamico, poi c’è stata la primavera che ha denunciato le corruzioni e gli interessi delle famiglie, poi c’è stata la decadenza, per età, di anziani sovrani e questa nuova leadership di persone educate in Occidente che potrebbe far sperare. Purtroppo qui in Europa così come negli Stati Uniti d’America stanno, invece, emergendo più delle istanze ‘anti-dialogo’. Paradossalmente adesso che si potrebbe sperare che il mondo arabo-islamico si rinnova e si riapre, dopo decenni di aperture, proprio in Europa e in America abbiamo delle frange più conservative.
E di chiusura rispetto al dialogo.
Esatto. Non è facilissimo, sembrano non coincidere. Dal mio osservatorio non riesco a dare la sentenza, ma solo motivi di speranza.
In questa mancanza di dialogo a cui lei accennava, quanto gioverebbe avere, ad esempio, più moschee sul territorio?
Anche lì, bisogna impostare la cosa secondo una prospettiva di chiarezza: la libertà religiosa è qualche cosa che le moderne democrazie, compresa la Costituzione italiana, hanno previsto. Qui il problema è confondere le policies sociali per l’ immigrazione, per l’ integrazione, per i clandestini, per i rifugiati, con la libertà religiosa. Oppure, come abbiamo vissuto in questi ultimi decenni, confondere la libertà religiosa con l’ anti-terrorismo. Si tratta di tre diritti diversi che possono effettivamente essere gestiti in maniera inter-disciplinare, ma non possono sovrapporsi. Io devo garantire, se sono un governatore coerente con l’ impostazione democratica, la libertà e il pluralismo religioso con pari dignità; devo garantire la sicurezza nazionale contro la criminalità di qualsiasi colore o cattiva interpretazione; devo trovare una politica sociale che possa considerare uno scenario internazionale che non è più quello di dieci, venti o cinquant’anni fa.
Sembra molto semplice, ma qui c’è, invece, una chiusura contro gli immigrati; c’è chi vuole speculare per ottenere più soldi e non una prospettiva di pluralismo culturale e sociale che possa veramente realizzarsi. Non è facile. Poi ci sono gli affari con l’ Arabia Saudita e con l’ Iran, c’è sempre questa ambivalenza che, a lungo andare, sia in Oriente che in Occidente, dovrà essere risolta. Se riuscissimo ad affrontare seriamente questa crisi degli uni e degli altri, sarebbe importante. Ma è difficile perché gli Stati Uniti dicono no così come la Germania; l’ Europa, nonostante gli sforzi, secondo me lodevoli, della Mogherini pare inesistente. Dall’ altra parte c’è una situazione che si sta evolvendo con tutte le conseguenze del caso.
Molta parte dei fondi e delle donazioni, ad esempio, per la costruzione di moschee è di derivazione saudita?
Non mi risulta. L’ Arabia Saudita ha avuto la generosità di contribuire insieme al Regno del Marocco alla costruzione e alla gestione, tuttora, della grande Moschea di Roma che rimane la più importante e l’ unico tempio islamico ufficialmente riconosciuto. Tutti gli altri vari centri islamici distribuiti sul territorio nazionale, non mi risulta che siano sotto l’influenza di uno Stato o di un movimento che sia saudita o altro. Siccome in Italia, lo Stato laico, a parte altri accordi con la Chiesa Cattolica, non finanzia i luoghi di culto, andrebbe affrontata in modo diverso la cosa. Non si può pretendere, credo, che il milione e mezzo di musulmani che sono su territorio nazionale abbiano la capacità finanziarie di gestire in autonomia dei luoghi di culto che siano riconoscibili così come dignitosi. Si fa la critica che sono dei seminterrati, delle cantine e lo Stato si trova nelle condizioni di doverle chiudere perché non sono regolarmente aperti e gestite. Ora che ci sia qualche disonesto non c’è dubbio. Ma ammettiamo il fatto che di un milione e mezzo di musulmani, la stragrande maggioranza è una prima generazione di stranieri che non hanno ancora né la cultura né la conoscenza della lingua e delle leggi dello Stato italiano e che per pregare si organizzano come possono. Ma non sono tutti dei commercianti benestanti o professionisti. Bisognerebbe distinguere tra le persone disoneste e quelle che sono semplici. Da questa analisi, lo Stato dovrebbe riconoscere che per l’ 80-90% si tratta di persone semplici e quindi affidare con criterio di affidabilità, ad esempio, ad associazioni come potrebbe essere la COREIS, non clandestinizzando il culto islamico in Italia, in virtù, poi, di cosa? Dei terroristi?
Non eliminandoli, ma alimentandoli, aggiungerei.
Esatto, quindi lo scenario è distinguere e collaborare per costruire qualcosa che sia trasparente. Per quanto riguarda il finanziamento, la mia proposta non è nuova: ho soltanto letto, studiato ed incontrato alcuni funzionari del Ministero dell’ Interno francese che non hanno fatto altro che aggiornare una vecchia fondazione promossa dal Presidente Chirac per le opere di culto islamico nella laicissima Francia. Questa fondazione, co-gestita dal Ministero degli Esteri, dal Ministero dell’ Interno, quindi dalle prefetture, dove tutti i finanziamenti per qualsiasi cosa che abbia a che fare con il culto islamico, passa di lì. La fondazione decide autonomamente come distribuire le risorse per le esigenze che il consiglio di amministrazione gestisce. A me questo sembra un percorso abbastanza valido perché coinvolge le istituzioni a garanzia, le organizzazioni nel ruolo di responsabilità e quindi i finanziamenti di qualche disonesto sia all’ interno che all’ esterno del nostro Paese, che vuole utilizzare i soldi per fare propaganda o creare una cellula terroristica sarebbero ridotti. Poi,però, è cambiato il Ministro.
Quindi non vede l’ Occidente pronto a cogliere questo spiraglio di apertura?
Purtroppo no. Minniti ha fatto dei passi concreti nei confronti dei suoi colleghi europei. Gentiloni ha rilanciato la questione dei migranti, verso la quale c’è chiusura, indifferenza. E questo poi va a confondersi con l’ Islam perché poi sotto c’è questa tendenza.
Diventa un triangolo pericoloso, terrorismo-islam-immigrazione, privo, tra l’altro di una sua consistenza reale.
Esatto. Sinceramente noi abbiamo creato un semplice, piccolo programma per i migranti durante il mese di Ramadan e abbiamo avuto una conferma che si tratta di persone, per dirlo in termini nobili, semplici che, a differenza degli immigrati di qualche decennio fa, non sanno più cosa sia la democrazia, il pluralismo, la laicità e addirittura la religione. L’ immigrazione, anche culturalmente, è cambiata. Non escludo ci possano essere dei terroristi in itinere o infiltrati, ma che si strumentalizzi questa possibilità negativa per negare un diritto costituzionale, favorendo una chiusura che non porta a nulla, non mi sembra giusto.
Quello che sta facendo Trump con l’ Islamic Ban, inseguendo la sua retorica populista.
A questo proposito, pensi, che sono tornato da New York: avevo, come potrà immaginare, molti visti di Paesi islamici, dall’ Indonesia all’ Arabia Saudita, all’ Iran. Avevo già un “host authorization”, ma nel frattempo, avendo notato questo visto dell’ Iran, ho dovuto trascorrere un paio d’ore all’ aeroporto, nonostante fossi stato invitato dalle Nazioni Unite. Il problema è tecnico perché così chiunque, con il visto dall’ Iran, in principio non potrebbe entrare. Si vede che poi hanno ritenuto che potessi entrare per fare il mio speech. Ma questo diventa sia dal punto di vista di principio culturale che attuativo ridicolo perché è come dire che chi è stato in quei Paesi, come la Somalia, è contaminato. La contaminazione ci potrebbe essere, ma perché non hanno escluso il Kuwait?