Risale a qualche ora fa la notizia dell’ennesimo attentato terroristico rivendicato dall’IS, questa volta nella capitale della Repubblica Islamica, Teheran. E’ solo l’ultimo di una serie che sembra infinita: solo qualche giorno fa il London Bridge era stato teatro di un altro attentato, ma il Regno Unito aveva già subito altri duri colpi, non ultimo quello di Manchester, all’uscita di un concerto musicale.

«Ora è troppo. Basta». Queste le parole della Premier inglese Theresa May il giorno seguente all’agguato di Londra. Malgrado i gravi fatti che hanno colpito il Regno Unito, non è stata rimandata la data delle elezioni politiche. Elezioni indette prima del tempo dalla Prima Ministra con il chiaro intento, secondo alcuni commentatori della politica britannica, di sfruttare il vantaggio che le veniva attribuito dai sondaggi sull’avversario Corbyn, conquistando una maggioranza più stabile, con poco sforzo.

Theresa May subentra al numero 10 di Dowing Street a seguito delle dimissioni del Primo Ministro David Cameron, uscito sconfitto dal Referendum sull’Uscita dall’Unione Europea del 23 giungno 2017 da lui stesso voluto, anche quello con l’ intento di rafforzare la propria leadership.

In questi mesi, il governo Theresa May ha attivato il dispositivo dell’ articolo 50 per l’uscita dall’Unione e al confronto con le autorità di Bruxelles. Lontano dall’essere un dialogo sereno, la May si  è trovata di fronte alla necessità di difendere l’interesse di un Regno Unito definitivamente fuori dal contesto europeo, rischiando di perdere, nonostante non fosse mai entrato nella moneta unica, un mercato importantissimo, soprattutto qualora non voglia scendere a compromessi sul tema dell’ immigrazione, con l’imposizione di un tetto massimo.

La questione migratoria, su cui i Labour vorrebbero perseguire una condotta più morbida rispetto a quella dei loro avversari conservatori, è stata sicuramente uno dei principali problemi che ha scatenato la reazione del Sì alla Brexit, soprattutto tra coloro che più soffrono tutte le difficoltà legate alla globalizzazione, alla caduta delle frontiere. I conservatori vogliono perseguire una Hard Brexit, senza lasciare nulla al caso, mentre i laburisti vorrebbero rispettare l’esito del referendum, cercando, però, di non rimanere tagliati fuori dal mercato europeo, con l’obiettivo di salvaguardare il più possibile l’economia inglese la cui stabilità verrebbe, chiaramente, minata.

Altro tema decisivo dal punto di vista elettorale è certamente la sicurezza. Problematica non secondaria soprattutto in questo frangente storico, dove, ancor più di ieri, l’ opinione pubblica vive quotidianamente in una situazione emotiva di alta tensione che non aiuta, specie in sede elettorale, a giudicare il quadro complessivo in maniera obiettiva.

La Premier britannica ha sostenuto, proprio sul finire della campagna elettorale, di esser disposta a rivedere  alcune tutele dei diritti umani piuttosto che veder pregiudicata la sicurezza della Nazione. «La colpa dei tre attentati che in poche settimane hanno sconvolto il Paese è di chi ha tagliato le risorse destinate alla sicurezza, ovvero Theresa May». Questo uno dei commenti di Corbyn legando la sequenza di attentati terroristici subiti dal Regno Unito all’insuccesso della linea politica attuata dalla May quando era Ministra dell’ Interno, quando decise importanti tagli sul personale di pubblica sicurezza inseguendo l’‘austerity’.

Numerose sono state le proteste contro l’inquilina di Downing Street quando ha annunciato di voler introdurre una ‘dementia tax’, cioè di far pagare l’ assistenza domiciliare agli anziani sulla base del loro reddito, proposta sia stata in parte rivista. Il governo ha però annunciato un investimento pari a 8 miliardi l’anno in più per il welfare e altri 4 miliardi per il settore sanitario.

Il partito laburista si vorrebbe imporre come una linea di cesura rispetto alla ricetta economica dei Tories, inaugurando un aumento degli investimenti pubblici, la nazionalizzazione dei principali settori come quello ferroviario, elettrico e idrico e imponendo una nuova tassa, una ‘Robin Hood Tax’ sulle transazioni finanziarie.

Dal canto loro i conservatori, in ambito fiscale, vorrebbero aumentare la soglia, entro il 2020, di reddito non imponibile, passando da 11.500 a 12.500 sterline e innalzando l’ aliquota massima del 40% dalla soglia di 45 mila a quella di 50 mila sterline. La ricetta economica rimane quella di diminuire la pressione fiscale sulle imprese , semplificare il sistema burocratico, con l’ obiettivo, tra l’ altro, di mantenere attrattivo il mercato inglese dopo la Brexit.

La divergenza c’è e pare netta. Stando all’ultima rilevazione di You Gov, il partito conservatore della premier si preparerebbe ad ottenere 304 seggi, 22 in meno della maggioranza che si otterrebbe con 326 seggi e 26 in meno dei 330 che erano dei Tories fino ad aprile, quando May ha indetto le elezioni anticipate. Secondo lo stesso sondaggio, i Tories si attesterebbero al 42% dei consensi, contro il 38% del Labour, a cui spetterebbero 266 seggi.  I lib-dem conquisterebbero 12 seggi con il 9%,  i nazionalisti scozzesi 46 con il 4% dei voti, i nazionalisti gallesi del Plaid Cymru si aggiudicherebbero due seggi, i verdi uno con il 2%.  A dare un vantaggio risicato (di circa un punto percentuale) ai Tories sul Labour, 41,5% contro il 40,4%, sarebbe un sondaggio Survation per Itv  uscito in queste ore.

Guardando alle precedenti elezioni politiche, quelle del maggio 2015, in cui alla guida del Partito conservatore vi era Cameron e alla guida di quello laburista vi era Ed Miliband, in occasioni delle quali i sondaggi vennero soverchiati da una realtà ben diversa, l’ esito delle votazioni registrò la vittoria dei  Tories con il 36,9% dei voti contro il 30,4% dei Labour. Il modo di interpretare la leadership non ha certamente aiutato Theresa May, come dimostra il grafico sottostante, in cui è possibile notare come la linea blu (conservatori) si sia arrestata nella sua crescita, mentre la linea rossa (laburisti) avrebbe continuato la sua ascesa.

Il rifiuto della May di confrontarsi con il suo avversario in un dibattito televisivo lascia sospettare la debolezza della Premier nel farsi difensore della sua visione politica. Di contro il leader dei laburisti Jeremy Corbyn sembra l’artefice della rimonta del suo partito con uno stile che, nonostante si sia, talvolta, lasciato andare alla retorica populista, pare premiarlo.

Rimane poi l’incognita dell’ elettorato dell’ UKIP. Una volta conclusa con la vittoria del Sì alla Brexit, Nigel Farage, leader dell’ UKIP, amico di Donald Trump ed ex-amico di Beppe Grillo, si era dimesso dal ruolo di capo del partito, volendosi ritirare a vita privata. Di per sé, però, il partito, ora sgonfiato, rappresentava quell’istanza populista che, al momento, non sembra trovare nuovi canali di emissione, o meglio, non si sa quale canale possa scegliere, magari affidandosi ai partiti tradizionali.

C’è poi da considerare il fattore ‘Scozia’ che, con Nicola Sturgeon, la leader del PNS (Partito Nazionale Scozzese), ha tentato di opporsi, sebbene finora invano, finanche minacciando la secessione (il cui referendum si era concluso con il NO a tale possibilità), alla realizzazione dell’ uscita dall’UE.

Non pare lontana la vittoria del partito conservatore, ma sarà interessante osservare quanto sarà grande o piccolo lo scarto tra le due principali forze. Anche perché, in ballo, non c’è solo la stabilità del Regno Unito.