Il Cremlino di fronte a nuovi problemi e sfide in Siria e dintorni dopo i successi militari. Saprà cavarsela meglio della Casa bianca?
E’ passato solo un mese da quando Vladimir Putin si recò in Siria per annunciare la vittoriosa conclusione dell’intervento russo nel conflitto armatoche ha messo a ferro e fuoco quel Paese per sette anni e il conseguente ritiro del grosso del contingente militare inviatovi da Mosca. Può darsi che l’annuncio si riveli calzante dal punto di vista del Cremlino anziché venire platealmente smentito da quanto sta accadendo sul campo all’inizio di questo ottavo anno non proprio di grazia più dei precedenti.
Può darsi, infatti, che il vero scopo dell’intervento fosse non solo limitato, cioè mirante alla conservazione della base navale di Tartus che la Russia odierna aveva ereditato dall’Unione Sovietica e che ora, adeguatamente estesa e rafforzata, potrebbe persino sopravvivere ad un’eventuale uscita di scena, debitamente concordata con altre parti in causa, del suo protetto e alleato locale, il presidente siriano Bashar Assad.
Tenendo conto, però, che oggi Mosca potrebbe probabilmente sostituire Tartus con un’altra base sulle rive nel Mediterraneo, ad esempio in Egitto, il vero scopo dell’intervento, vittorioso o no, potrebbe anche essere limitatissimo benchè per nulla modesto: dimostrare al mondo, e innanzitutto ai governi che hanno contribuito a lanciare alla Russia la sfida sfociata nella crisi ucraina e nell’altro conseguente conflitto armato in cui essa è in qualche modo impegnata, che Mosca non esita a ricorrere efficacemente a mezzi estremi per difendere i propri interessi e veri o presunti diritti.
Interessi e diritti certo più vitali in Ucraina che in Siria, benchè anche sulla sponda orientale del Mediterraneo il Cremlino reclami e pretenda rispetto per un rango e ruolo di grande potenza non automaticamente perduto con il tracollo della superpotenza sovietica. In altri termini, Mosca potrebbe persino accontentarsi di avere dato un contributo determinante alla sconfitta di un temibile nemico non solo suo ma dell’intera comunità mondiale (che in qualche caso può anche esistere davvero) come l’ISIS o Daesh, insomma il sedicente califfato islamico, senza preoccuparsi troppo di quanto possa succedere in Siria e dintorni dopo un simile successo militare, di credibilità e di prestigio.
Quella minimalista, benchè doverosa, non è tuttavia l’ipotesi più plausibile, anche perché le ultime notizie danno il Califfato per non ancora morto e capace quanto meno di colpi di coda, mentre quelle provenienti dall’Afghanistan confermano che l’estremismo islamico nelle sue varie forme ed espressioni tende piuttosto a rivelarsi un fenomeno dalle mille vite. Se poi per mano dell’ISIS o di chiunque altro Assad dovesse finire col soccombere in malo modo la credibilità e il prestigio di chi credeva di averlo salvato sarebbero gravemente compromessi agli occhi del mondo compresa l’opinione pubblica russa, dopo tanti anatemi scagliati contro gli USA per gli sconsiderati ricorsi alla forza nel Medio Oriente, tanto sistematici e insistenti quanto vani e controproducenti.
Sono comunque numerosi i motivi per i quali appare più che probabile, per non dire sicuro, che il multiforme impegno russo nella regione debba necessariamente continuare anche dopo la vittoria annunciata da Putin senza affatto escludere che esso debba proseguire e addirittura riprendere in grande stile per effetto di ulteriori sviluppi, prevedibili e imprevedibili. Ma si dava generalmente per scontato che, esaurita una prima fase prevalentemente militare della conflittualità regionale, se ne sarebbe aperta una seconda caratterizzata da una predominante problematica politico-diplomatica.
Gli sviluppi più recenti suggeriscono piuttosto che la differenza tra le due fasi rischia di risultare non tanto grande, se non inesistente, e che in ogni caso l’ulteriore impegno di Mosca resterà sempre gravoso se non ancora più gravoso di prima. Dando ragione, magari, a Barack Obama quando l’ex presidente americano pronosticava sin dall’inizio che quella russa in Siria non sarebbe stata una facile marcia trionfale ma avrebbe intrappolato Mosca nella regione in un modo fin troppo familiare per Washington.
Non sono pochi né poco autorevoli, ora, gli esperti e commentatori moscoviti concordi nel ritenere che proprio la vittoria arrisa al primo intervento militare contribuisca a creare le premesse per nuovi successivi interventi destinati a ripetersi per anni. Al che si obietta, tra l’altro, che Putin non potrebbe né vorrebbe permetterseli neanche dopo l’imminente rielezione per un complesso di ragioni. Per i motivi già accennati, tuttavia, lo stesso ‘nuovo zar’ o eventuali suoi successori potrebbero vedersi costretti a compierli, tanto più se si guarda agli scenari in parte nuovi proposti dalla stretta attualità.
Che la parola dovesse passare, a questo punto, dalle armi propriamente dette a quelle della diplomazia sembrava prefigurato fino a ieri, oltre che dalla prevalente cessazione delle ostilità con il sopravvento apparentemente irreversibile preso da un certo schieramento su quello o quelli opposti, anche dall’intensificazione degli sforzi negoziali per una soluzione pacifica del nodo originario del conflitto: lo scontro tra il regime di Assad e i suoi avversari interni ed esterni.
Con la Russia in posizione intermedia, e quindi idonea ad un ruolo pacificatore, nonostante tutto l’appoggio belligerante ad Assad, perché non pregiudizialmente ostile ai suoi nemici e anzi in buoni rapporti con molti di loro, Arabia saudita in testa, e con la sola eccezione dei gruppi “’erroristi’. Una qualifica, questa, affibbiata peraltro da Mosca con parecchia disinvoltura a quanti visti più di malocchio di altri, tenuto conto che il terrorismo non è un termine dal significato univoco e che la sua pratica non è monopolio esclusivo di nessuno.
Il ruolo quanto meno potenziale della Russia era già di per sé importante perché unico tra le potenze esterne coinvolte in un modo o nell’altro nel conflitto. Ed è stato reso ancora più prezioso a fini di pace dalla paralisi dei colloqui promossi dall’ONU, iniziati a Ginevra e proseguiti a Vienna, un negoziato improprio in quanto le due parti contrapposte, il governo di Damasco e una folta rappresentanza dei ribelli siriani ad esso, non vi si confrontano direttamente bensì solo tramite Staffan de Mistura.
Un mediatore tanto collaudato e motivato, l’ex sottosegretario agli Esteri nel governo di Mario Monti, quanto frustrato da un dialogo tra sordi, intransigenti gli uni nell’esigere la deposizione di Assad e inflessibili gli altri (tanto più dopo i successi sul campo) nel negarla almeno come condizione preliminare per un accordo o anche solo per una trattativa seria.
Le attese si sono concentrate ancor più, perciò, su un’altra possibile sede negoziale, offerta da quella che può considerarsi (o si poteva considerare fino a ieri) una sorta di alleanza vincente sul campo, direttamente o indirettamente, e che appariva relativamente solida, almeno nella fattispecie, a livello politico: l’inedito terzetto Russia-Turchia-Iran. Già capace di formarsi superando l’iniziale ostilità di Ankara nei confronti di Assad, legatissimo invece a Teheran, esso era riuscito a concordare e promuovere una sospensione delle ostilità, il cui parziale successo ha indotto le tre capitali a convocare a Sochi, proprio in questi giorni, un ‘congresso di pace’, ad offrire cioè un tavolo di trattative aperto a tutti. Alternativo, cioè, di fatto se non dichiaratamente, al tavolo patrocinato dall’ONU, ma con la possibilità teorica di una futura convergenza tra i rispettivi sforzi verso un obiettivo obbligatoriamente comune.
Un primo ostacolo formale, al riguardo, è stato presto superato grazie all’invito ricevuto anche dal rappresentante speciale dell’ONU a partecipare ai lavori di Sochi e alla sua accettazione da parte di de Mistura pur dopo qualche tergiversazione. Non è stato invece superato, come era facile aspettarsi, l’altro ostacolo rappresentato dal rigetto dell’analogo invito da parte dei ribelli siriani, immutabilmente restii a sedersi allo stesso tavolo con il loro nemico giurato.
Il loro rifiuto, in realtà, sarebbe stato forse meno scontato se nel frattempo non fossero intervenuti un paio di colpi di scena di forte risonanza e tali da modificare sensibilmente la situazione e le prospettive mediorientali. Il primo, la proposta americana di instaurare una fascia di sicurezza nel nord della Siria, presso il confine con la Turchia, ossia in una zona presidiata da formazioni curde e da reparti USA dopo la cacciata di milizie del califfato.
Immediatamente denunciata da varie parti come un disegno di smembramento dello Stato siriano, la mossa è stata percepita ad Ankara come un’inaccettabile tentativo di insediare in quella zona un primo embrione di Stato curdo indipendente, proiettato ad estendersi ad altri territori del Medio Oriente compresa una grossa fetta della stessa Turchia abitata da una minoranza curda più che mai in guerra pluridecennale, non senza ricorso al terrorismo, con il regime repressivo di Recep Tayyip Erdogan.
Il tutto sullo sfondo dell’allontanamento di Ankara da Washington e dell’avvicinamento turco a Mosca pur permanendo almeno per ora nell’Alleanza atlantica, nonché del contributo determinante che le milizie curde hanno dato e continuano a dare, non solo in Siria, alla resistenza agli invasori sotto le insegne dell’ISIS e poi alle vittoriose controffensive nei confronti del califfato. Non è mancata dunque l’impressione di un premio promesso ad una popolazione politicamente oltre che territorialmente divisa ma forse destinata ad unificarsi sotto una protezione soprattutto americana che finora, peraltro, aveva in qualche modo convissuto con quella sovietica e poi russa.
Si è comunque avuto, al riguardo, ben più che un’impressione ad Ankara, dove è stata comunque immediata anche la concreta reazione a questo secondo colpo di scena, benchè più volte già paventato in passato: la penetrazione di truppe turche nella zona in questione per cacciarne i curdi ma col rischio di scontrarsi anche con unità americane e persino con alcune postazioni russe, oltre a riaccendere un’ostilità tra Damasco e Ankara che sembrava in via di spegnimento.
Implicitamente suscettibile di approfondire ulteriormente il distacco dagli USA, la mossa turca viene vista invece da qualche parte sotto una luce diversa come quella precedente americana, certo non facile da interpretare su due piedi come quasi tutto ciò che fa e dice da mesi l’Amministrazione Trump. Sta di fatto che Washington non ha trovato molto da ridire sulla reazione turca oltre agli scontati appelli alla moderazione, cosicchè non mancano i sospetti di un rapporto di causa ed effetto, preventivato e sostanzialmente voluto, tra mossa dell’uno e contromossa dell’altro, nonchè di un contestuale abbandono dei curdi alla loro sorte.
Sospetti e pregiudizi a parte, tuttavia, il comportamento americano dovrebbe a rigore segnalare una smentita dell’apparente disimpegno USA dalla regione. Smentita presumibilmente riconducibile, in mancanza di altre indicazioni, all’esigenza, questa sì difficilmente rinunciabile, di assicurare un’adeguata protezione ad Israele, sotto rischio di restare esposto ad una crescente minaccia iraniana o filoiraniana (ossia degli hezbollah ora in Siria oltre che in Libano) presso i suoi confini, benchè lo Stato ebraico dovrebbe poter contare, oggi, su un rapporto più che amichevole con Mosca.
Anche Mosca, però, avendo dato luce verde all’irruzione turca in Siria, sia pure in circostanze alquanto ambigue, dovrà dimostrare di non apprestarsi a tradire i curdi prima ancora di Israele, anziché continuare ad usarli come strumento non secondario, si direbbe, della propria funzione arbitrale nell’intero scacchiere mediorientale. Arbitrale, appunto, e non egemonica in eventuale sostituzione degli USA, perché la Russia, per quanto molto forte militarmente e anche sotto il profilo politico-diplomatico, lo è assai meno sotto quello economico.
Mosca deve perciò impostare e calibrare la propria strategia, nel Medio Oriente più che altrove, non solo alla luce del perdurante braccio di ferro con Washington tanto più se trovasse conferma un indurimento dell’approccio americano alla problematica regionale. Ma anche in presenza dell’assertività visibilmente accresciuta di una potenza regionale ambiziosa e di tutto rispetto come la Turchia. I cui dirigenti, dopo avere ordinato l’abbattimento di un aereo militare russo all’indomani dell’intervento in Siria del grande vicino, rischiando tranquillamente il peggio, hanno annunciato adesso, per bocca di Erdogan personalmente, di non temere affatto di venire ai ferri corti con quello che resta il loro più grande alleato. Non si sa con quanto sollievo del loro nuovo e più grande amico, che ad ogni buon conto, come ci tiene ad assicurare a tutti i livelli, ha perdonato ma non dimenticato lo sgarro dell’aereo.