Un anno di guerra ripercorso attraverso le varie fasi sul campo. Come nel 1916 o nel ’17, si resta in attesa della prossima e definitiva vittoriosa offensiva. Oppure, se non della pace, almeno di un cessate il fuoco, ma bisognerà attendere
Nel suo racconto ‘Isbe e steppe’, l’allora inviato di guerra del ‘Corriere della Sera’, Lamberti Sorrentino, così descriveva i partigiani ucraini operanti nelle retrovie del fronte nel ‘43: «Confuso, sinistro, cieco, intelligente, il partigiano porta con sé la realtà, e spera di poter divellere ostacoli, contrasti, barriere, limiti… Spesso ho pensato che costoro sparino soltanto perché un istinto più forte di qualunque paura ve li obbliga. Sbrindellati e convulsi, uccidono perché nel raggio delle loro armi non è giusto che viva nessun estraneo… Esistiamo, vogliamo esistere esisteremo sempre, andatevene» .
Nel suo reportage, si ritrova lo spirito del conflitto oggi in atto tra Russia e Ucraina in corso, la sua brutalità, la reazione del popolo ucraino e, forse, anche un’indicazione di come potrebbe andare a finire. Nell’attesa, ripercorriamo per fasi ciò che per molti, specie in Europa occidentale, appare essere una guerra incomprensibile e alle cui ragioni profonde abbiamo accennato nella prima parte di quest’analisi dedicata al primo anniversario del conflitto.
E’ tempo dunque di tornare sul campo.
E’ ormai opinione comune che quello sofferto nelle pianure ucraine è un conflitto che nessuno voleva, almeno in queste proporzioni. Ad iniziare da Vladimir Putin e dalla ristretta cerchia dei suoi consiglieri nella quale sembra essere maturata la decisione di risolvere per le spicce il problema della ‘Piccola Russia’, del suo desiderio di vera indipendenza e della sua pericolosa vicinanza alla NATO.
Una cerchia tanto ristretta, quella di Putin, da non coinvolgere una buona parte della catena di comando militare che quella stessa decisione avrebbe dovuto implementare. L’idea era di dare una semplice e decisa spallata al gabinetto di Volodimyr Zelensky per poi insediare un nuovo governo più malleabile. Tutto qui.
D’altra parte, quali preoccupazioni avrebbe mai potuto dare all’impero russo un paese che si trovava quasi sull’orlo della bancarotta, devastato ad ogni livello dalla corruzione e al cui vertice si trovava un ex-attore, sostenuto da avidi oligarchi e protetto da bande di hooligans conditi in salsa pseudo-nazista? Tutto sarebbe filato liscio come l’olio.
E’ il solito binomio di scommesse ed illusioni che anima ogni possibile guerra. La scommessa era, appunto, che gli ucraini erano talmente messi male che non avrebbero avuto neppure il tempo di alzare un dito. L’illusione si sarebbe presto dimostrata duplice. Da una parte credere che la maggior parte degli ucraini avrebbe accolto i carri armati russi con ghirlande di fiori. Non era forse vero che almeno la metà del Paese, compreso il suo Presidente-attore, erano di madre lingua russa? Questo, per estensione del concetto, significava, con grande probabilità, che sarebbero stati anche russofili. Dal canto loro, anche i servizi di sicurezza della Federazione Russa sembra avessero confermato la positiva predisposizione di una larga parte dell’Ucraina a un riavvicinamento alla Grande Russia. Da anni, i loro agenti avevano infatti infiltrato i gangli delle istituzioni politico-amministrative di Kiev nonché una buona parte dell’esercito. C’era, dunque, da fidarsi quando nei loro rapporti confermavano che un’eventuale ‘spedizione militare’ avrebbe incontrato poco più di un’opposizione formale. La seconda illusione russa riguardava invece le reazioni del resto del mondo a una simile iniziativa. Dopo il repentino e disordinato abbandono dell’Afghanistan da parte americana, Putin sembrava più che convinto che nessuno avrebbe alzato un dito per il suo ‘pronunciamento’ su Kiev. Era già successo per la Crimea e ancor prima per la Georgia, perché preoccuparsi?
Su questa scommessa e su una duplice illusione Mosca aveva quindi deciso che era tempo di agire. La data è nota a tutti: l’alba del 24 febbraio 2022.
A quella che veniva definita come «operazione militare speciale» erano stati assegnati sì e no 200.000 uomini, compresi alcune migliaia appartenenti alla Rosgvardija, la Guardia Nazionale della Federazione Russa alle dirette dipendenze di Putin. Duecentomila uomini per impadronirsi di un Paese grande due volte l’Italia con oltre trentacinque milioni di abitanti. Solo osservando i numeri, si capisce come quella forza fosse stata pensata più per compiti di sovversione e poi di concorso in ordine pubblico che per condurre un’invasione militare. Una conferma indiretta di una simile idea si avrà nei primi giorni dell’invasione quando dalle parti di Irpin, all’interno dei camion mezzo bruciati, non vennero rinvenute munizioni e armi, ma centinaia di equipaggiamenti anti-sommossa per polizia, segno che i russi si aspettavano manifestazioni, non cannonate. Analoga illusione aveva animato il comandante del settore d’invasione di nord-est, quello incaricato di marciare su Kharkiv, la più russa delle città ucraine. «Ci attendevamo di essere ricevuti con pane e sale» -riferirà poi l’ufficiale- «e, invece, ci hanno sparato addosso». A onor del vero a non aver capito l’aria che tirava non c’erano solo i russi. Anche gli americani, che come abbiamo visto da anni sostenevano e addestravano sia l’elitepolitica ucraina sia il suo esercito, erano più che convinti che in caso di un’invasione russa la dirigenza ucraina si sarebbe defilata in poco tempo e il Paese sarebbe in gran parte finito sotto il controllo di Mosca.
Quando, dunque, all’alba del 24 febbraio, gli aviotrasportati della VDV di Putin tentarono di occupare l’aeroporto di Hostomel, dieci chilometri a nord di Kiev, trovarono ad aspettarli non il personale dello scalo, ma i reparti della 4^ brigata di reazione rapida ucraina, e vennero fatti a pezzi. Nelle stesse ore, mentre la frontiera veniva contemporaneamente forzata lungo cinque direttrici, a Kiev il giovane Presidente Zelensky sorprese tutti rifiutando il passaggio per Leopoli offerto a lui e al suo governo dagli americani. «Datemi armi, non un taxi» sembra sia l’inevitabile frase storica. Per restare, invece, ai fatti, nelle prime ore dell’invasione, il Presidente Zelensky, il suo ministro della difesa, Oleksij Reznikov, e Denys Monastirsky, quarantaduenne Ministro dell’interno, decisero di rimanere al proprio posto. Non solo. Insieme all’alta dirigenza militare, iniziarono a emanare ordini per avviare nel concreto la resistenza.
In attesa che il grosso dell’esercito fosse in grado di reagire, sarebbe stato infatti necessario: condurre la difesa degli abitati; interrompere, anche solo temporaneamente, le principali vie di comunicazione; fornire informazioni dettagliate e tempestive sulla dislocazione dei reparti russi e tutto quanto sarebbe potuto servire a rallentare l’avanzata delle colonne di Putin. Gran parte di questa prima reazione fu affidata ai cittadini comuni. Vennero distribuite armi, costituiti piccoli reparti, ma, soprattutto, venne data speranza alla gente d’ucraina di poter resistere e forse anche di vincere.
Nel frattempo, l’inattesa e tenace resistenza causava non pochi problemi ai russi. Simbolo di quei giorni fu la colonna di oltre sessanta chilometri bloccata lungo una statale a pochi chilometri da Kiev. Quello non fu opera della resistenza ucraina, né della logistica russa, ma della deficitaria pianificazione degli itinerari da parte dei russi che pensarono bene di infilare quattro brigate di fanteria in un’unica stradina. Cose che capitano.
Mentre oltre cinque milioni di profughi -in gran parte donne e bambini, varcavano le frontiere dell’Unione Europea- in Ucraina si combatteva ovunque, chi con un fucile, chi su un carro armato e chi, semplicemente con un telefonino, riprendendo le colonne russe e segnalandole ai comandi. Ben presto fu chiaro ai soldati russi che nessuno li avrebbe accolto con ‘pane e sale’, tutt’altro.
Ogni uomo in bicicletta, ogni donna con una borsa della spesa, ogni vecchio seduto sull’uscio di casa poteva essere stato colui che aveva fornito le coordinate all’artiglieria ucraina o ai temibili droni turchi Bayraktar TB2. In molti casi, come a Bucha, il risultato fu una strage di civili. Bastava un telefonino o fermarsi al bordo strada ad osservare qualche mezzo con la ‘Z’ per essere un nemico.
La paura come il coraggio sono contagiosi e la determinazione dimostrata dalla gente di Kiev, Irpin, Chernikiv, Sumi, Kharkiv o Mariupol convinsero i nuovi amici di Kiev, in primo luogo gli USA, che tanto valeva aiutare Zelensky nel suo tentativo apparentemente disperato di non essere inghiottito dall’orso russo.
Come ebbe a commentare l’ex ambasciatore americano Charles Freeman, la reazione ucraina all’invasione russa, dopo l’iniziale sorpresa, poteva rappresentare per Washington un’inattesa opportunità strategica; quella cioè di trascinare la Russia in un duro conflitto che ne avrebbe spento per lungo tempo ogni ambizione di tornare ad essere una grande potenza planetaria.
Dopo l’iniziale avvicinamento dei primi anni 2000, USA e Federazione russa si erano infatti man mano allontanati fino a divenire apertamente avversari. Era solo il 2021 quando Biden definiva Putin un ‘killer’ e l’inquilino del Cremlino ricambiava carinamente Washington con accuse di neo-imperialismo, mollezza e di depravazione dei valori morali. In subordine quello che l’America sembrava temere era l’avvicinamento della Russia ad alcuni Paesi europei, come Germania e Italia e ancor più quello alla Cina di Xi Jinping. Meglio, quindi, fiaccare quanto più possibile Mosca e consegnare a Pechino un alleato che avrebbe portato con sé più problemi che vantaggi.
Per tornare in ambito europeo occidentale, c’era anche da sistemare la faccenda della Germania che sempre di più sembrava voler sviluppare una propria politica nei confronti della Federazione russa. La joint venture in tema di energia, rappresentata plasticamente dalla costruzione del Gasdotto Northstream 2 non era mai piaciuta a Washington. Lo stesso per le scelte operate nel settore energetico dall’Italia, legata a doppio filo al gas di Putin. Insomma una guerra che avesse compromesso Putin e il suo entourage capitava proprio ‘a fagiolo’.
Washington decise quindi di avviare una sorta di ‘Piano Marshall’ militare a favore di Kiev esercitando contemporaneamente una forte pressione verso tutta la Unione Europea affinché si allineasse disciplinatamente alle nuove parole d’ordine. La spedizione di Putin era riuscita in pochi giorni a ricompattare l’Alleanza Atlantica, che solo due anni prima il Presidente francese Emmanuel Macron aveva definito «in stato di morte celebrale», mentre per il Presidente Donald Trump «era obsoleta e non più in grado di contrastare efficacemente le vere minacce poste dall’attuale scenario internazionale».
Anche l’Unione Europea, messa di fronte all’evidenza di essere poco più che un unione monetaria e una comunità di mercati, incapace perciò di una qualsiasi risposta politica, optò per una serie di sanzioni economiche e finanziarie che nell’intenzione dei promotori avrebbero in breve messo in ginocchio la Russia. Anche in questo caso, si trattava di una scommessa e di un’illusione, ma questo aspetto esula dagli scopi di questo scritto. Basti però ricordare come le previsioni di allora avevano ipotizzato un crollo del 13% del PIL della Federazione russa, mentre oggi – fonte il Fondo Monetario Internazionale – siamo si e no al 2,8%. Anche l’industria bellica, che sarebbe dovuta essere stata messa in ginocchio dal blocco delle importazioni, viaggia invece verso la quasi completa riconversione alle esigenze della guerra. Grazie al contrabbando internazionale e alla naturale predisposizione russa a tenersi pronti alla guerra è stato dunque possibile alimentare quella che il poeta inglese Owen chiamava ‘la fame vorace dei cannoni’.
Intanto, sul terreno, i primi mesi successivi all’invasione vedevano il fallimento dell’ipotesi golpista. A nord, le colonne militari si erano arrestate a una decina di chilometri da Kiev, senza avere né l’intenzione, né la forza di entrare in città. A nord-est, lungo il confine tra Russia e Ucraina, le cose non andavano meglio. Sumi era sotto attacco, Chernochiv anche, e Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina, completamente russofona, resisteva accanitamente. Insomma, nei settori nord e nord-est le cose andavano male.
Qualche limitato successo era stato ottenuto in Donbas e soprattutto verso il Mar d’Azov dove Berdiansk e Mariupol erano in mano russa. L’unico vero successo di questa sgangherata campagna era stato fino ad allora la presa di Kherson, avvenuta quasi senza colpo ferire, anche grazie alla benevola complicità dei difensori ucraini i cui comandanti non s’erano certo troppo affaticati nel respingere gli invasori provenienti dalle Crimea.
Il controllo di Kherson non era cosa di poco conto. Con la città in mano, Putin poteva garantirsi il controllo sul canale nord Crimea, l’arteria che dal Dnepr assicura il rifornimento di acqua alla Crimea settentrionale. Kherson sarebbe inoltre potuta diventare la piattaforma dalla quale lanciare la temuta offensiva contro Odessa. In questo schema di manovra, rientrava pienamente anche la presa dell’Isola dei serpenti, uno scoglio disabitato alla foce del Danubio noto per custodire forse la tomba di Achille e per controllare gli accessi al porto di Odessa e a quello di Costanza. L’occupazione russa durò poco grazie ai continui bombardamenti missilistici ucraini.
Gli stessi erano anche i giorni in cui a Mariupol si consumava il dramma della AZOVSTAL, l’immenso impianto siderurgico dove combattenti del reggimento Azov, fanti di marina e qualche altro volontario resistevano ad oltranza. Mariupol, porto di sbocco dell’intero Donbas, era ormai perduta, ma la resistenza dell’acciaieria aveva un altissimo valore simbolico. Di fronte al mondo intero si dimostrava che l’Ucraina non si sarebbe arresa, costi quel che costi.
Nella tarda primavera, l’evidente fallimento dell’idea operativa di un attacco contemporaneo lungo cinque direttrici aveva indotto il comando russo a rivedere i piani. Nuova pianificazione e nuovi obiettivi per evitare a Putin di dover ammettere che il suo brillante piano era stato respinto dall’impatto con la realtà.
La Federazione Russa scoprì allora che il vero obiettivo dell’intera operazione speciale non era affatto rovesciare Zelensky e trasformare l’Ucraina in una seconda Biellorussia, per carità. Fin dall’inizio il vero obiettivo era stato liberare le minoranze russe oppresse in Donbas e mettere al sicuro la Crimea. Non era un granché, ma sarebbe stato meglio che niente.
A questo riguardo, le forze impegnate nel settore nord e nord-est vennero fatte rientrare in Russia, ricondizionate, nuovamente equipaggiate e spedite in Donbas. Tuttavia, dopo otto anni di guerra proprio nel Donbas, l’esercito ucraino aveva concentrato il meglio delle proprie truppe e allestito solide linee difensive. Per nulla scoraggiati, i russi passarono comunque all’offensiva. Un’offensiva metodica, pesante e lenta che portò alla conquista di Severodonetz e della gemella città di Lisichansk. Poi più nulla.
Nel Donbas, man mano, infatti, che ci si avvicinava al cuore della linea difensiva ucraina, quella per intendersi allestita già nel 2014, le cose per le fanterie di Mosca si facevano sempre più dure fino a determinarne l’esaurimento.
In campo internazionale, tra il blocco dei Paesi che costituivano il fronte pro-Ucraina, non ci si accontentava più delle sole sanzioni: l’enorme attrito della guerra aveva convinto Washington e molte altre capitali a rastrellare ogni carro, ogni obice e ogni cingolato di produzione ex-sovietica ancora disponibile e a spedirlo al fronte ucraino. In prima fila, la Polonia che alla fine avrebbe fornito quasi 240 carri armati T72MR insieme a svariate centinaia di BMP2, poi 2.500 fucili d’assalto dalla Finlandia, elicotteri dalla Repubblica Ceca, 8 obici semoventi dalla Slovacchia e via così. Persino la neutralissima Svezia aveva pensato di inviare quasi 10.000 AT4, lanciarazzi controcarri del tipo spara&getta.
Naturalmente, la parte del leone l’avrebbero fatta gli Stati Uniti che avrebbero rifornito l’arsenale ucraino di moderni obici M777 a traino meccanico, obici semoventi M109 L, trasporti truppe, munizioni a vagoni e soprattutto i nuovi lanciatori HIMARs, missili a guida GPS in grado di colpire un terrazzino a 70 km di distanza.
Sul fronte opposto, anche la Russia stava accusando una certa crisi di munizionamento, soprattutto in campo missilistico. La campagna di lancio iniziata a fine febbraio si stava protraendo ormai da alcuni mesi al ritmo di 70/100 missili al giorno, troppo anche per i consistenti arsenali dell’orso russo. Meglio, quindi, ricorrere a qualcosa di molto più economico e altrettanto efficacie: i droni iraniani Shahed 136, trabiccoli spinti dall’equivalente di un motore per APE Piaggio, ma in grado di portare una trentina di chilogrammi di esplosivo a oltre 200 km di distanze e soprattutto disponibili per poche migliaia di dollari l’uno.
La primavera andava ormai declinando nell’estate. Da parte russa, i roboanti proclami di Medvedev minacciavano cataclismi all’Occidente e si sovrapponevano alle minacce non tanto velate di uso estremo dell’arma nucleare. La televisione russa magnificava la nuova generazione di armi ipersoniche, capaci di viaggiare da 10 a 100 volte la velocità del suono (320 m/sec) e in grado di colpire chiunque in un lampo. Venne evocato anche il super-siluro Poseidon in grado addirittura di “affondare la Gran Bretagna”. Quella che invece il 14 aprile affondò davvero fu invece l’ammiraglia della flotta russa nel mar Nero: l’incrociatore lanciamissili ‘Moskwa’, colpita, sembra, da missili ucraini Neptune.
Non era certo la prima nave russa ad essere colpita. C’era stata la fregata lancia missili Admiral Makarov, colpita al largo dell’Isola dei Serpenti e prima era toccato alla nave anfibia Saratov, della classe Alligator, distrutta mentre era ancorata nella città ucraina di Berdiansk.
Sul piano internazionale altre brutte notizie per Mosca. A metà maggio, dopo due secoli di neutralità, la Svezia faceva richiesta di ammissione alla NATO in contemporanea alla Finlandia, anch’essa neutrale da settanta anni. In termini strategico-operativi, ben presto il Mar Baltico si sarebbe trasformato in una lago della NATO in cui la base russa di Kalinigrad sarebbe rimasta intrappolata. Certo, qualcuno avrebbe potuto obiettare che anche Mosca s’era presa tutto il Mar d’Azov, ma la valenza geo-strategica dei due era imparagonabile.
L’estate si avvicinava e con essa la ripresa delle operazioni su ampia scala. Tuttavia dopo mesi di combattimenti durissimi, l’iniziativa stava per passare in campo ucraino. Si iniziò con una operazione di Maskirovka in perfetto stile sovietico, vale a dire far credere ai Russi che la grande offensiva, sostenuta e alimentata dall’Occidente si sarebbe sviluppata proprio a sud, tra Kherson e Zaporizhzhia, allo scopo evidente di tagliare in due il corridoio che nel frattempo i russi avevano faticosamente costruito tra il Donbas, quasi conquistato e la Crimea occupata. I russi ci credettero al punto da concentrare ad est del Dniepr il meglio delle loro forze, anche a costo di sguarnire il settore nord, quello di Kharkiv, ritenuto più tranquillo. Ma proprio contro Kharkiv l’esercito ucraino aveva scatenato l’attesa offensiva. Fin dal primo giorno, era apparso chiaro che i russi erano rimasti davvero sorpresi. I reparti di Kiev penetravano per chilometri in territorio occupato senza incontrare alcuna resistenza. Centinaia di mezzi, carri armati, obici di artiglieria e munizioni giacevano abbandonati nei depositi, divenendo preziosissima preda bellica per l’asfittica logistica di Kiev. Alla fine di settembre l’armata russa sembrava a un passo dal collasso, ma quel passo non fu fatto.
Per stanchezza dei reparti ucraini, per l’allungamento delle linee logistiche o per inasprimento della resistenza russa ad ottobre l’offensiva che sembrava essere in grado di ricacciare i russi da dove erano venuti si era esaurita. Alla fine il bilancio per Kiev era stato più che positivo: l’intera regione di Kharkiv era stata liberata; la rete ferroviaria e stradale – vero punto vitale della logistica russa – erano ora in gravissima difficoltà per tacere del grande successo ottenuto di fronte all’opinione pubblica mondiale.
Per far fronte alle gravi perdite subite e anche per annunciare che la Russia non avrebbe mollato tanto facilmente, il 21 settembre Putin annunciava la mobilitazione parziale di oltre 250.000 coscritti delle classi da poco congedate. Non fu un gran successo, non tanto per la renitenza di molti, che per altro ci fu, ma per la grave disorganizzazione della macchina di reclutamento russa, ormai da anni adeguatasi alle esigenze di un esercito professionale. Censire, avvertire, sottoporre a visita medica, assegnare alle unità addestrative, equipaggiare e armare migliaia e migliaia di giovani recalcitranti non era infatti impresa facile. I primi o forse semplicemente quelli con minore specializzazione vennero subito spediti sulla linea del fronte del Donbas dove c’era semplicemente da tener duro. Gli altri vennero inviati ai centri di addestramento per trasformarli in soldati impiegabili per il resto della guerra.
Qualche scossone la serie di rovesci militari l’avevano dato anche ai vertici dell’operazione militare speciale. Da ricordare la sostituzione a capo delle operazioni in Ucraina del generale Dvornikov con Sergej Surovikin, un roccioso siberiano il cui soprannome è tutto un programma: ’Armageddon’. Sarà lui a inaugurare la campagna di bombardamento missilistico su Kiev, Zaporizhzhia, Dnipro, Mykolaiv, Zhytomyr, Ternopil e Lviv e sempre a lui si dovrà la decisione di abbandonare Kherson, «il balcone su Odessa», divenuto ormai indifendibile e dove circa 20.000 soldati russi rischiavano di rimanere intrappolati.
Il resto, da ottobre ad oggi, è cronaca quotidiana. Due eserciti che si massacrano vicendevolmente su una linea del fronte ormai fossilizzata. Minime oscillazioni quotidiane, perdita e conquista di pochi chilometri, a volte di qualche centinaia di metri; costanti bombardamenti di artiglieria rappresentano il filo conduttore di questi mesi. Come nel 1916 o nel ’17, si resta in attesa della prossima e definitiva vittoriosa offensiva. Oppure, se non della pace, almeno di un cessate il fuoco, ma per questo dovremo ancora attendere per poterne raccontare.