Nessuna evoluzione sostanziale nella posizione italiana rispetto alla guerra dopo il passaggio di testimone Draghi-Meloni

 

“L’eroica reazione di un popolo disposto a fare tutto ciò che va fatto per difendere la sua libertà, la sua sovranità e la sua identità mi ha ricordato la nascita dello Stato italiano: c’era un tempo in cui si diceva che l’Italia fosse solo un’espressione geografica. Ma col Risorgimento ha dimostrato di essere una nazione. Qualcuno diceva che era facile piegare l’Ucraina perché non era una nazione. Ma con la vostra capacità di combattere avete dimostrato di essere una straordinaria nazione”.

Con queste parole, al termine dalla sua recentevisita a Kiev, la nostra Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha commentato il suo incontro con il leader ucraino Volodymyr Zelensky e la visita alle cittadine di Bucha e Irpin, teatro di massacri nelle prime fasi dell’invasione, ove ha speso anche qualche lacrima.

La visita di Meloni in Ucraina, da tempo in cantiere, è arrivata qualche giorno prima dell’anniversario dell’invasione russa e a circa quattro mesi dal suo insediamento a Palazzo Chigi; oltre che pochi giorni dopo il travagliato parto del decreto sul sesto pacchetto di armamenti, pur da tempo autorizzato dal Parlamento.

La nostra premier ha più volte ripetuto la promessa di restare al fianco di Kiev “fino alla vittoria”; durante la conferenza stampa congiunta, inoltre, è restata in silenzio di fronte alle piccate dichiarazioni di Zelensky in merito alle posizioni – ben poco favorevoli all’Ucrainaespresse giorni prima da Silvio Berlusconi. Anzi, Meloni è sembrata addirittura “provocare” l’esternazione del suo interlocutore, che rispondeva a una domanda della giornalista del Corriere della Sera Monica Guerzoni (coautrice, a suo tempo, del noto articolo sulla “lista di proscrizione” dei cosiddetti “putiniani d’Italia”), inizialmente da lui non compresa a seguito di un blackout elettrico e poi tradotta in inglese proprio dalla Presidente del Consiglio.

Ma, al di là di questa vicenda e del rivedibile accostamento storico che abbiamo trascritto in apertura, ci interessa qui tracciare un bilancio della visita di Meloni in termini di evoluzione della posizione del nostro Paese di fronte alla crisi ucraina, dopo il cambio della guardia a Palazzo Chigi con Mario Draghi.

Avevamo scritto su queste pagine, prima della visita, che non ci sembrava appropriata la descrizione, fatta dai grandi giornali italiani dopo l’incontro di Zelensky a Parigi con i soli omologhi di Francia e Germania, di una Meloni ‘isolata’ in Europa, a fronte di un Draghi già parte determinante di un direttorio europeo al più alto livello. Infatti, l’ex Premier, al di là della sua indiscussa autorevolezza personale, evitò – al contrario di Macron e Scholz – di recarsi a Mosca prima del 24 febbraio 2022 per tentare di scongiurare l’invasione: e ciò pur in presenza, a quei tempi, di relazioni italo-russe di eccellentelivello. Né risultò di particolare utilitàquantomeno ai fini di un’autonoma azione di mediazione dell’Unione Europea, la sua successiva visita di giugno a Kiev, pur se in compagnia dei leader francese e tedesco.

Draghi, in realtà, aveva fin dall’inizio preso posizione in maniera molto netta a favore della teoria e della prassi atlantista: convinta partecipazione alle sanzioni contro Mosca, attivo intervento nel quadro delle forniture di armi all’Ucraina (facendo fra l’altro approvare dal Parlamento un decreto che delegava al Governo ogni decisione in proposito fino al termine del 2022) e, dal punto di vista mediatico, adozione di una narrativa antirussa non troppo dissimile da quella di Washington.

Per quanto Giorgia Meloni, da capo dell’unica opposizione al governo Draghi, avesse dato indicazione ai suoi parlamentari di votare a favore del decreto sulle armi, ci si poteva attendere che, una volta divenuta premier, avrebbe cercato di corrispondere in qualche modo alle diverse sensibilità esistenti all’interno della sua coalizione e, soprattutto, nell’opinione pubblica italiana, maggioritariamente schierata contro l’invio delle armi a Kiev e per la ricerca di possibili opzioni di pace. Nulla di tutto ciò è invece accaduto: la premier ha confermato pienamente le posizioni del suo predecessore, rendendole anzi ancora più severe, se non dal punto di vista fattuale, certamente – anche per la diversità dei due caratteri – da quello verbale e mediatico.

Si poteva sperare che la crisi ucraina, con l’intera Europa schiacciata sulle posizioni di Washington, servisse al nuovo Governo italiano per aumentare il suo peso relativo rispetto a quelli francese e tedesco, alla testa di due Paesi forse più in crisi del nostro: rimaniamo infatti convinti che un’Italia che provi a elaborare una concreta proposta di pace, o almeno di tregua, come parte importante del nucleo fondatore dell’Unione Europeapotrebbe dire la sua nel tentativo di porre un freno all’escalation del conflitto.

Gli esiti della visita di Meloni a Kiev sembrano invece dimostrare che la scelta, almeno al momento, è un’altra: restare allineati e coperti nell’ambito della ‘grande famiglia’ euro-atlantica, distinguendosi anzi per un’adesione se possibileancor più convinta di prima al fronte antirusso. Una scelta del resto non del tutto ingiustificata, se pensiamo alla necessità, per la nuova premier, di allontanare le critiche di chi, sia all’interno che all’estero, attendeva e attende di poter condannareogni suo possibile passo falso.

Dunque Giorgia Meloni ha privilegiato il rispetto, senza se e senza ma, delle alleanze che garantiscono il nostro Paese. Di tale scelta, certo, non la si può accusare: ci si poteva però attendere di non dover ascoltare da lei prese di posizione simili a quelle di personaggi come Ursula von derLeyen o Jens Stoltenberg.  

Possiamo pertanto concludere che non riscontriamo, almeno al momento, nessuna evoluzione sostanziale nella posizione italiana rispetto alla guerra in Ucraina dopo il passaggio di testimone Draghi-Meloni: “armiamoci e partite”, o meglio “armatevi e restate”, stiamo in pratica continuando a dire – in buona compagnia, è vero – al martoriato popolo ucraino.

Di Massimo Lavezzo Cassinelli

Massimo Lavezzo Cassinelli ha fatto parte del servizio diplomatico italiano dal 1982 al 2016. Dopo un primo periodo alla Farnesina presso la Direzione Generale Affari Economici, ha iniziato nel 1985 la sua prima missione all’estero, all’Ambasciata d’Italia in Ecuador. Successivamente ha prestato servizio presso le Ambasciate in Giordania, in Perù e in Egitto, oltre che come capo del Consolato italiano a Berna. E’ stato poi Rappresentante Permanente Aggiunto presso la FAO, il PAM e l’IFAD. Ha infine ricoperto le cariche di Ambasciatore d’Italia in Armenia e nel Principato di Monaco. Ha concluso la carriera al Cerimoniale Diplomatico della Repubblica.