Accordo nucleare iraniano sempre più vicino al funerale, causa il dialogo tra sordi tra Washington e Teheran, mentre gli Stati Uniti sono determinati a costruire un’alleanza di sicurezza con l’Arabia Saudita contro l’Iran. Rischio completa destabilizzazione dell’area e ripresa della corsa al riarmo nucleare
I cosiddetti ‘proximity talks‘, che si sono tenuti scorsa settimana, volti a salvare i negoziati sull’accordo sul nucleare iraniano (il JCPOA -Joint Comprehensive Plan of Action) si sono conclusi dopo appena due giorni senza alcun progresso per rompere l’impasse tra Stati Uniti e Iran.
Mediati dall’Unione Europea e ospitati dal Qatar a Doha, i colloqui sono stati un tentativo di procedere verso il pieno ripristino dell’accordo, «il cui futuro sembra ora cupo», afferma Daniel Larison.
Secondo i rapporti iniziali, le delegazioni americana e iraniana «si sono rifiutate di smuoversi dalle rispettive posizioni, che si sono inasprite negli ultimi sei mesi e hanno lasciato i negoziati in stallo». E il mancato progresso di quest’ultimo round «renderà più difficile risolvere le divergenze in sospeso in eventuali riunioni future, supponendo che ci siano altre riunioni da tenere. Le aspettative per questo round erano già molto basse e saranno ancora più basse la prossima volta che i negoziatori si incontreranno».
Secondo il quadro che ne fa Larison sembra si stia solo attendendo l’ufficializzazione di un nulla di fatto, con la dichiarazione che gli Stati Uniti non rientreranno nell’accordo e che dunque nessun accordo è più in essere.
«Gli Stati Uniti e l’Iran continuano ad essere in disaccordo sulla portata delle richieste che dovrebbero essere incluse nei negoziati. Mentre il governo iraniano vuole che il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche venga rimosso dall’elenco statunitense delle organizzazioni terroristiche straniere prima che riprenda a rispettare l’accordo nucleare, gli Stati Uniti si rifiutano di fare concessioni su ciò che ritengono essere una questione estranea. L’Iran vuole anche assicurazioni che riceverà i benefici economici a cui ha diritto in base all’accordo, ma l’Amministrazione Biden non può garantire nulla oltre i prossimi due anni e mezzo», ovvero non può impegnarsi per la prossima Amministrazione, che se fosse repubblicana potrebbe ritirarsi dall’accordo come ha fatto nel 2018 Donald Trump.
Secondo le dichiarazioni dell’Amministrazione americana, l’Iran deve decidere di abbandonare le sue richieste aggiuntive che vanno oltre l’accordo nucleare, e ha respinto «le richieste iraniane per la revoca di quelle che sono apparentemente sanzioni ‘non nucleari‘», cioè la richiesta relativa al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche. «Anche se è noto che queste sanzioni ‘non nucleari’ sono state imposte con l’esplicito scopo di sabotare qualsiasi futuro rientro degli Stati Uniti nel JCPOA, l’Amministrazione Biden sostiene che non hanno nulla a che fare con l’accordo e non dovrebbero far parte della discussione.Questa è una visione miope per l’Amministrazione Biden, ma consente loro di presentare la propria rigidità come se fosse qualcosa di più ragionevole», afferma Daniel Larison. «Biden ha sempre avuto i mezzi per rilanciare l’accordo nucleare, ma la sua Amministrazione ha chiarito che preferisce assistere al crollo dell’accordo piuttosto che essere visto fare una concessione ‘aggiuntiva’ annullando decisioni Trump più dannose».
«Le ragioni di politica interna per cui Biden non è disposto a rimuovere l’IRGC dall’elenco delle organizzazioni terroristiche sono molto simili alle ragioni interne per cui il governo Raisi si sente obbligato a insistere sulla rimozione: entrambi devono provvedere ai rispettivi sostenitori della linea dura e hanno bisogno per evitare l’apparenza di cedere troppo facilmente su una questione simbolica».
È assodato, prosegue Larison, «che gli ostacoli al rilancio dell’accordo nucleare non sono mai stati tecnici, ma sono sempre stati politici, sia per gli Stati Uniti che per l’Iran. Raisi si sente obbligato a ottenere più concessioni di Rouhani, e Biden non è disposto a correre alcun rischio politico prima del midterm, e nessuno dei due vuole correre il rischio di ‘essere il primo’ ed esporsi agli attacchi della critica interna. Il problema di base di mettere in sequenza le mosse statunitensi e iraniane per tornare alla conformità ha afflitto il processo negoziale fin dall’inizio e l’Amministrazione Biden non ha mai accettato che l’onere di fare i primi passi fosse sugli Stati Uniti a causa della responsabilità del governo americano di aver violato per primo l’accordo».
«Il Presidente Biden può ancora cambiare rotta e assicurarsi il rilancio dell’accordo, ma per farlo dovrà mostrare molta più flessibilità e una maggiore disponibilità ad accettare il rischio politico di quanto non abbia mostrato finora».
Uno stallo che si fa più problematico ogni giorno. E i prossimi impegni che Biden assumerà in Medio Oriente metteranno ancor di più a rischio la regione proprio per l’assenza del ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano.
«La prossima settimana il Presidente Biden si recherà in Arabia Saudita -che tempo fa aveva promesso di trattare come un ‘paria’-, secondo quanto riferito, intento a discutere ampiegaranzie di sicurezza con il Regno, incluso un ombrello per la difesa aerea. Sfortunatamente, la proposta dell’Amministrazione aggraverà il coinvolgimento degli Stati Uniti in Medio Oriente e metterà a dura prova i negoziati sul nucleare iraniano», afferma Faezeh Fathizadeh, ricercatrice di sicurezza nazionale e influenza straniera del Quincy Institute for Responsible Statecraft e direttore delle comunicazioni presso la Rethinking Iran Initiative presso la Johns Hopkins School of Advanced International Studies.
La collaborazione in fatto di sicurezza e gliAccordi di Abraham, volti a normalizzare le relazioni arabo-israeliane, sono pubblicizzati come stabilizzatori della regione, «la realtà è che gli effetti saranno l’esatto opposto se l’Iran», che a breve avrà accumulato abbastanza materiale fissile per produrre una bomba nucleare, «continua ad essere escluso dalle discussioni sulla sicurezza in Medio Oriente», afferma Fathizadeh. «Se l’obiettivo di Biden è la stabilità, allora la sua Amministrazione deve portare al tavolo tutti i principali attori regionali» e incoraggiare attivamente i colloqui diplomatici in corso tra Riyadh e Teheran, che proprio in questi giorni sono stati implementati.
Se Biden, avverte Fathizadeh, «mantiene il suo attuale approccio, isolerà ulteriormente l’Iran e destabilizzerà l’intera regione».
I motivi di tale effetto contrario alla sicurezza e stabilità dell’area sono molteplici. «In primo luogo, di fronte a un fronte unito USA-arabo-israeliano, l’Iran cercherà molto probabilmente di aumentare la sua influenza espandendo il suo programma nucleare, investendo di più in reti proxy e adottando altre misure destabilizzanti per affermare la sua influenza regionale. Una tale strategia non è nuova. Abbiamo visto come isolare l’Iran possa ritorcersi contro. Nel tentativo di mettere in ginocchio l’Iran, l’Amministrazione Trump ha abbandonato l’accordo nucleare iraniano, ha imposto sanzioni economiche di ‘massima pressione’, ha assassinato il comandante della forza Quds iraniana Soleimani e designato il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche come organizzazione terroristica straniera. Le conseguenze di queste decisioni hanno portato a un aumento del 400 per cento del numero di attacchi alle truppe statunitensi in Iraq da parte di delegati iraniani» e in ultimo, come detto, al raggiungimento della ‘soglia’ nucleare da parte dell’Iran.
Infatti, prosegue Fathizadeh, «il ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA si è ritorto contro poiché l’Iran ora può “produrre materiale nucleare sufficiente per una bomba in meno di 10 giorni, una finestra così breve che le azioni di Teheran potrebbero non essere rilevate dagli ispettori internazionali”, secondo Kelsey Davenport, Direttore per la politica di non proliferazione presso l’Associazione per il controllo degli armamenti. Questo dovrebbe essere inaccettabile per la comunità internazionale e l’unica vera soluzione è ripristinare completamente l’accordo e aumentare questo cosiddetto ‘tempo di rottura’ a quasi un anno, come era prima che Trump si ritirasse dal JCPOA».
«Non solo gli scontri segreti tra Iran e Israelepotrebbero estendersi a una guerra totale», ma la fine dell’accordo sul nucleare iraniano potrebbe innescare una corsa agli armamenti nucleari «che potrebbe includere partner regionali statunitensi come l’Arabia Saudita, il cui principe ereditario Mohammad bin Salman ha promesso che “se l’Iran ha sviluppato una bomba nucleare, seguiremo l’esempio il prima possibile”».
Il «lancio di un nuovo asse di difesa USA-Arabo-Israele farà probabilmente deragliare inegoziati tra Arabia Saudita e Iran. L’Arabia Saudita e l’Iran hanno rotto i rapporti diplomatici nel 2016 in seguito all’esecuzione da parte dell’Arabia Saudita dell’importante religioso musulmano sciita Nimr al-Nimr e al successivo attacco da parte di manifestanti iraniani all’ambasciata del regno a Teheran. I due rivali si sono recentemente impegnati in cinque round di colloqui diplomatici diretti ospitati dall’Iraq per risolvere le controversie regionali. Piuttosto che promuovere la distensione tra Riyadh e Teheran, la cui rivalità guida così tanto la tensione in Medio Oriente, un ombrello della difesa aerea USA-Israele sui loro alleati arabi di fatto aumenterà le tensioni regionali e diminuirà le prospettive di stabilità. Se Washington intende creare stabilità, dovrebbe fare un passo indietro e consentire all’Arabia Saudita e all’Iran di rimarginare vecchie ferite».
Il provvedimento bipartisan Deterring Enemy Forces and Enabling National Defenses Act, introdotto di recente dal Congresso americano, «amplia la proposta di difesa aerea del Medio Oriente». Questo disegno di legge, spiega Faezeh Fathizadeh, «richiede al Pentagono di integrare la capacità missilistica aerea e di difesa per la cooperazione di sicurezza congiunta tra gli Stati Uniti e l’ Arabia Saudita e gli Stati arabi vicini. Il disegno di legge rafforza anche l’architettura di sicurezza datata e imperfetta per il Medio Oriente, che mira a contrapporre i Paesi arabi all’Iran, perpetuando il ciclo del conflitto regionale». Tra il resto, chiosa Faezeh Fathizadeh, tale disegno di legge richiederebbe ai contribuenti americani di spendere ancora di più per la difesa nazionale dell’Arabia Saudita, «in un momento in cui i sauditi non hanno fatto quasi nulla per aumentare sostanzialmente la produzione di petrolio e quindi abbassare i prezzi che i contribuenti americani stanno pagando alla pompa».
Perseguire «politiche datate che alleano più strettamente gli Stati Uniti con una manciata di attori autoritari è miope e aggraverà le tensioni con l’Iran. Invece, la Casa Bianca dovrebbe cercare di evitare un pantano non necessario perseguendo la diplomazia con Teheran e incoraggiando i negoziati bilaterali tra Arabia Saudita e Iran. Solo allora si radica un processo di stabilizzazione regionale».