Accordi sullo sblocco dell’esportazione di beni alimentari del 22 luglio, conclusi a Istanbul da Ucraina e Federazione Russa: le derrate esportate consistono di grano solo per una minima parte (la gran parte è mais e olio e semi di girasole) sono quasi totalmente indirizzate a Paesi non a rischio di carestia
«A oggi sono 21 le navi che hanno lasciato le città ucraine nel Mar Nero (sic) cariche di derrate. Se l’accordo dovesse tenere, si potrebbe così evitare che milioni al mondo soffrano la fame e, allo stesso tempo, salvare dal collasso l’enorme settore agricolo ucraino».
Così scriveva l’autorevole ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) nel suo ‘Speciale Ucraina‘ dello scorso 18 agosto, riferendosi agli accordi sullo sblocco dell’esportazione di beni alimentari, separatamente conclusi il 22 luglio a Istanbul da Ucraina e Federazione Russa, con la mediazione della Turchia e delle Nazioni Unite.
Il 20 agosto, secondo il sito web della ‘Black Sea Grain Initiative‘ dell’ONU, le navi partite dai porti ucraini sono salite a 26. Leggendo i dati con attenzione, però, si può facilmente desumere che le derrate esportate consistono di grano solo per una minima parte e sono quasi totalmente indirizzate a Paesi non a rischio di carestia.
Si tratta, infatti, prevalentemente di mais (per Turchia, Italia, Irlanda, Romania e Corea del Sud), olio e semi di girasole (Turchia, Italia, Cina, Corea del Sud e Paesi Bassi) e semi di soia (Italia), tutti presumibilmente inviati ad aziende di trasformazione agricola o di allevamento, tranne(forse) l’unico carico di mais indirizzato all’Egitto. Anche la ‘Razoni’, prima nave a lasciare l’Ucraina dopo l’entrata in vigore degli accordi di Istanbul, fra le ovazioni del Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, dei governi e dei media occidentali, pur inizialmente diretta nell’affamato Libano e poi -sembra- dirottata in Siria, non trasportava grano, ma mais.
Se si eccettua l’unica spedizione finora effettuata dal World Food Programme (WFP) dell’ONU e destinata all’Etiopia, anche i carichi di grano, soltanto 5 su 26, sono finiti in Paesi, come la Turchia e la Romania, che non si possono certo considerare fra i più poveri del mondo.
Il grano esportato ammonta nel complesso a poco più di 66.000 tonnellate, circa un decimo del totale.
Ce n’è abbastanza per ritenere che, almeno finora, gli accordi di Istanbul, più che a lenire la fame nel mondo, stiano servendo a salvare dal collasso il gigantesco e redditizio settore agricolo ucraino (quasi completamente controllato da grandi multinazionali, oltre che dagli oligarchi locali) e a soddisfare gli ordini dei suoi migliori clienti (in primo luogo turchi). Scopi, per carità, legittimi e anche auspicabili, ma ben lontani dal soddisfare quelle urgenti ragioni umanitarie che ci ha propinato per mesi la narrazione onusiana e occidentale.
Certamente non stupisce più di tanto, in una logica affaristica, che le derrate alimentari ucraine vadano ai compratori che meglio le possono pagare: ma la retorica che ha preceduto la firma degli accordi di Istanbul e il trionfalismo che li ha seguiti (Guterres: «L’accordo è un faro nel Mar Nero»; Erdogan: «Abbiamo evitato l’incubo della fame nel mondo»; e via sproloquiando) appaiono ora francamente fuori luogo.
Come, al termine del suo ‘Speciale’, ammette anche l’ISPI, «se i Paesi più a rischio di carestie -come la Somalia, l’Etiopia, lo Yemen e il Sudan del Sud- potranno beneficiare del grano ucraino,dipenderà però soprattutto dall’accesso che il World Food Programme delle Nazioni Unite avrà a queste derrate». Vale a dire: gli esportatori ucraini e i loro più importanti clienti internazionali potranno finalmente tornare a fare i propri affari; i primi, in aggiunta, potranno anche spuntare prezzi vantaggiosi per far pervenire ‘aiuti umanitari’ ai Paesi più poveri del mondo. Tutto dipenderà ovviamente dalle risorse del WFP e dalla sua capacità operativa: normalmente, per fortuna, buona, a differenza di quella della ‘cugina’ FAO. Ricordiamo per inciso che il WFP ha sede a Roma ma è, da sempre, a guida statunitense.
Resta poi da vedere se e quanto l’accordo sulle esportazioni agricole ucraine contribuirà ad avvicinare, come qualche ottimista aveva sperato, la fine della guerra. A sei mesi dall’avvio della ‘operazione militare speciale’ di Putin, il quadro complessivo continua a essere tragicamente sconfortante, per l’Ucraina martoriata, per la Russia strategicamente (anche se non militarmente) sconfitta, per l’Europa impotente di fronte ad avvenimenti gravissimi su cui non ha il minimo controllo.
Per il momento, ricordando una facile canzonetta degli anni Sessanta (peraltro nobilitata dall’autore della sua musica, nientemeno che il grande Ennio Morricone), dovremo per forza tutti continuare a proclamare: «andiamo a mietere il grano, il grano /raccoglieremo l’amore, l’amore, l’amore».