Il tema al centro del dibattito prospettico di queste ore è il Kazakistan che sarà dopo questi primi giorni del 2022. Per trovare risposte si deve guardare alla natura delle proteste e al cosa c’è dietro, e poi all’uscita o la permanenza delle truppe russe in territorio kazako
A circa dieci giorni dallo scoppio -il 2 gennaio- delle manifestazioni anti-governative in Kazakistan, il tema al centro del dibattito prospettico di queste ore è il Paese che sarà dopo questi primi giorni del 2022. Per trovare risposte si deve guardare a due elementi: la natura delle proteste e cosa c’è dietro, e poi all’uscita o la permanenza delle truppe russe -arrivate a sostegno del governo e su richiesta del medesimo- in territorio kazako.
Lunedì 10 gennaio, il Presidente kazako, Kassym-Jomart Tokayev, bollando le proteste e i disordini nel Paese come un «tentato colpo di Stato», il cui obiettivo era insidiare l’ordine costituzionale, la distruzione delle istituzioni governative e la presa del potere, ha affermato che la missione militare guidata da Mosca in Kazakhstan dovrebbe finire«presto».
Nelle stesse ore, il Presidente russo, Vladimir Putin, ha dichiarato che i recenti disordini in Kazakistan sono stati causati da «forze interne ed esterne distruttive» -come fin dalle prime ore aveva dichiarato Tokayev, definendo i manifestanti ‘terroristi’, e poi dicendo di aver dato ordine di sparare senza preavviso- e che i più di 2.000 soldati che il suo Paese aveva inviato sono nel Paese come «custodi della pace», e che partiranno solo una volta che sarà completata la loro missione. Le truppe rimarranno «per un periodo di tempo limitato». «Ma non ha dato alcun termine per il ritiro, dicendo che rimarranno fino a quando il Presidente Tokayev “lo riterrà necessario”, sollevando la possibilità che possano rimanere nel Paese a tempo indeterminato, sottolineano gli analisti».
E in effetti questo è l’elemento di maggiore attenzione e interesse, perchè da come si posizioneranno o rientreranno le forze russe, e gli altri contingenti CSTO (Collective Security Treaty Organization), si avranno indicazioni abbastanza precise circa il futuro che attende questo Paese.
Se nelle prime ore ci si chiedeva se quella Kazakistan fosse una protesta o una rivoluzione, o tentativo di rivoluzione, con circa 6.000 persone arrestate, oltre 2.000 ferite, e centinaia di morti (secondo fonti ufficiali circa 160, secondo altre fonti più di 200), nonchè la rapidità di Putin nell’intervenire a fianco dell’autocrate locale, l’interrogativo è sciolto: è un tentativo di rivoluzione, per il fallimento del quale sta lavorando il Presidente russo e, da quelle scarse informazioni che si hanno, il tentativo potrebbe già essere riuscito. Un ‘tentativo di rivoluzione‘ma con un grosso ‘ma‘.
Il ‘New York Times‘ rileva come «la rapida evoluzione delle proteste pacifiche nell’ovest del Kazakistan in manifestazioni a livello nazionale che sono rapidamente sfociate in un caos violento, ha portato gli osservatori a ipotizzare che i disordini siano stati alimentati da lotte interne all’interno dell’élite kazaka». Elemento molto importante se dovesse trovare conferma. «Questo punto di vista è stato rafforzato questo fine settimana quando i funzionari hanno annunciato che l’ex capo della potente agenzia di intelligence del Kazakistan, e un alleato chiave di un ex Presidente, era stato arrestato con l’accusa di tradimento».
Si sottolinea anche che «la decisione di Tokayev di invitare truppe straniere per aiutare a sedare i disordini è stata un segno della sua debolezza interna e delle lotte di potere interne, hanno affermato molti analisti. È probabile che attiri ulteriormente la Nazione dell’Asia centrale, ricca di risorse, nell’abbraccio della Russia e renda Tokayev dipendente da Mosca».
Serve tornare per un momento a quanto dichiarato lunedì Putin nel corso di una riunione del CSTO, secondo quanto riportato dalle fonti del ‘New York Times‘.
Il Presidente russo ha affermato che «i disordini sono stati indicativi di tentativi stranieri di intervenire in una regione che il Cremlino considera la sua sfera di influenza e ha paragonato i recenti eventi alle proteste in Ucraina che hanno portato alla cacciata del Presidente filo-russo del Paese nel 2014. Quelle proteste hanno anche contribuito all’annessione della Crimea da parte della Russia e all’invasione della regione del Donbas nell’Ucraina orientale sempre in quell’anno».
«Putin ha affermato che CSTO, considerata come dominata dalla Russia, non consentirà alcuna‘rivoluzione colorata‘, un termine che è stato utilizzato per i movimenti pro-democrazia che hanno travolto molti Paesi dell’ex Unione Sovietica». E poi ha dispiegato la narrativa russo-kazaka di questi giorni. « “Elementi di forza e supporto informativo alle proteste” che ricordano le proteste ucraine, che il Cremlino sostiene da tempo fossero organizzate da potenze straniere anti-russe, “sono stati utilizzati attivamente e sono stati utilizzati anche gruppi di militanti ben organizzati e ben controllati”, ha detto Putin. Ha aggiunto che tra i rivoltosi c’erano persone “apparentemente addestrate in campi terroristici all’estero”».
«Per molti anni il Kazakistan non ha visto né cambiamenti politici, né una crescita economica costante, con un regime dominato dall’élite cleptocratica molto più interessata a investire in proprietà di lusso occidentali che a rimodellare la Nazione da cui è stata depredata la ricchezza per finanziare gli acquisti. Quasi all’improvviso, tuttavia, il Kazakistan sta affrontando tutta una serie di crisi senza precedenti esplose negli ultimi giorni: manifestazioni straordinarie diventate violente, defezioni dalla polizia, una potenziale lotta di potere tra i suoi due presidenti, un esodo segnalato delle élite economiche e l’intervento russo».
In tutto ciò, la «crisi in Kazakistan rischia di sconvolgere gli equilibri di potere in Eurasia»,afferma Maximilian Hess, membro, per l’Asia centrale, del programma Eurasia presso il Foreign Policy Research Institute, e Head of Political Risk presso Hawthorn Advisors, una società di consulenza e comunicazione strategica con sede a Londra. Hess spiega bene perchè Putin non può non lavorare per dirottare il tentativo di rivoluzione e spacciarlo come un colpo di Stato condotto da soggetti stranieri. «Una forte instabilità anche nel breve termine sarebbe percepita dal Cremlino come una minaccia alla propria posizione». «L’emergere di un governo più democratico rappresenterebbe una sfida non solo per Mosca, ma anche per gli altri uomini forti dell’Asia centrale, mentre un regime più favorevole a Mosca che emerge dal caos potrebbe soffocare il potenziale per un’ulteriore espansione dell’influenza cinese. Un regime dominato da Mosca in Kazakistan avrebbe probabilmente un impatto negativo anche sulle relazioni della Russia con altri stati dell’Asia centrale, stanchi del fatto che la loro sovranità possa essere ancora limitata nonostante 30 anni di indipendenza».
Se la crisi si espande, prosegue Hess, «rischia di influenzare i mercati chiave del gas perché il Kazakistan è la via per circa il 10% del consumo annuale di gas naturale della Cina e per circa il 29% delle sue importazioni. Sebbene non ci siano precedenti per il targeting degli oleodotti, sono già avvenuti così tanti eventi senza precedenti che è impossibile escludere. Se gli scioperi dei lavoratori si espandono o lo Stato appare a rischio di fallimento, probabilmente ci saranno interruzioni. Una crisi di gas avrebbe un impatto globale, poiché Pechino sarebbe probabilmente costretta a recuperare i deficit sul mercato del gas naturale liquefatto (GNL) in pieno inverno con prezzi già ai massimi storici.» «Anche molti altri mercati potrebbero essere colpiti. Il Kazakistan è tra i principali produttori mondiali di uranio e una delle principali fonti di numerosi metalli chiave. Tutte le significative rotte di esportazione del gas del Turkmenistan attraversano il Kazakistan e non sarebbe saggio pensare che il governo bizzarro dell’uomo forte di quel paese sia significativamente più resistente di quello del Kazakistan. Gran parte del Kirghizistan, già colpito da disordini e rivoluzioni negli ultimi anni, è più vicino ad Almaty di quanto non lo sia la capitale del Kazakistan. La risposta della Russia influenzerà certamente le sue relazioni con gran parte dell’Europa orientale, in particolare l’Ucraina, dove gran parte della sua forza militare è attualmente al confine piuttosto che pronta per ulteriori risposte in Kazakistan».
E, prosegue Hess, dato che le proteste sono state almeno innescate, se non spinte al loro apogeo, da pressioni inflazionistiche, «vale la pena ricordare che non solo la regione circostante, ma la maggior parte del mondo sta attualmente attraversando un forte picco inflazionistico dopo anni di quasi-zero aumenti di prezzo. Il Kazakistan può essere visto come isolato e in una zona remota di importanza internazionale, per chi non lo sapesse, non molto tempo fa, era visto come il fulcro della ‘zona cardine’ del padrino della geopolitica: Sir Harold Mackinder», il padre della geopolitica. «Sarebbe avventato prevedere in quale direzione e orientamento si trovano gli altri, ma è probabile che il Kazakistan si riveli solo il primo domino di una serie di eventi straordinari e potenzialmente ancora rivoluzionari», conclude Maximilian Hess.
«Sarebbe un errore separare le azioni di Putin in Kazakistan dalle sue ambizioni in Ucraina. Nel suo calcolo, sono indissolubilmente legati», afferma Fred Kempe, Presidente e Amministratore Delegato dell’autorevole Atlantic Council.
C’è un potenziale vantaggio per il Cremlino nell’estendere una serie di interventi strategici che ha effettuato negli ex Stati sovietici dal 2020. ‘Reuters‘ ricostruisce: «In Bielorussia, ha sostenuto il leader autoritario Alexander Lukashenko quando le proteste di massa hanno minacciato di rovesciarlo, e da allora ha utilizzato il territorio e lo spazio aereo di quel Paese per organizzare esercitazioni militari di alto profilo e voli di bombardieri strategici vicino ai confini dei Paesi membri della NATO. Nel Caucaso, Putin ha stabilito un cessate il fuoco in una guerra del 2020 tra Armenia e Azerbaigian e ha inviato forze di pace, assicurandosi che la Russia rimanesse l’attore chiave della sicurezza in una regione in cui anche Turchia e Iran competono per l’influenza. Ora il Kazakistan, primo produttore mondiale di uranio e nono esportatore di petrolio, sembra destinato a diventare sempre più legato a Mosca. “Per la Russia, se le cose si sistemeranno, sarà una vittoria sostanziale, a dimostrazione di quanto rimanga fondamentale e anche a legare ancora di più il Kazakistan”, ha affermato Olga Oliker, direttrice del programma Europa e Asia centrale di Crisis Group».
Jonathan Eyal, del think-tank Royal United Services Institute for Defence and Security Studies, (RUSI) di Londra, ha affermato che Putin potrebbe ottenere un ulteriore importante vantaggio nei confronti della Cina riaffermando la Russia come garante della sicurezza degli Stati dell’Asia centrale, anche se non può sperare di eguagliare l’influenza economica di Pechino nel regione. «“Ovviamente la Russia è felice di avere il controllo supremo in termini di sicurezza in Asia centrale. Questo va a vantaggio della narrativa di Putin come una sorta di ricreatore dell’Unione Sovietica”, ha detto Eyal. “Permette a Putin di presentarsi come un po’ più uguale ai cinesi. Ha un’alleanza che i cinesi non hanno, ha un branco di Paesi che lo considerano il loro ultimo protettore, cosa che i cinesi non hanno. Ha un ritorno a una posizione di potenza regionale, se non globale, che è ciò che ha sempre desiderato”».
Gavin Helf e Donald Jensen dell’United States Institute of Peace (USIP) affermano: «il Kazakistan è un manifesto del nuovo ‘tecno-autoritarismo‘ e un modello di petrostato di successo. Poi, gli analisti riprendono il ragionamento circa la lotta di potere all’interno dell’élite kazaka. «Le «proteste fino a mercoledì erano senza volto, pacifiche e sembravano coerenti con il tipo di rivolta economica post-COVID che il governo pensava di poter sedare. Poi le cose hanno preso una piega molto diversa. Le proteste si sono improvvisamente concentrate sul primo Presidente del Paese, Nursultan Nazarbayev», che dopo il suo ritiro dalla presidenza, nel 2019, è stato nominato Presidente del potente Consiglio di sicurezza del Kazakistan, e rimosso dal Presidente Toqaev proprio a seguito delle prime proteste della scorsa settimana. Dal 2019 in avanti era stato «pubblicamente venerato come ‘il Leader’ e ‘il Padre della Nazione’. Ma con lo sviluppo di queste proteste, le sue statue hanno iniziato a cadere e hanno iniziato a circolare notizie di lui che si preparava a cercare cure mediche all’estero e di membri della sua famiglia in fuga con un jet privato». «L’indignazione era contro Nazarbaev, non contro Tokayev», ha affermato Assel Tutumlu, assistente professore di relazioni internazionali alla Near East University. «Perché Tokayev non è davvero un decisore, dal momento che il potere appartiene ancora al vecchio presidente». Ciò mentre le proteste diventavano violente. «Ad Almaty, manifestanti armati hanno sequestrato il principale aeroporto del Paese, nonché importanti edifici governativi, che hanno dato alle fiamme». E qui bisogna tornare agli allarmi del ‘New York Times‘.
«La crisi ha coinciso con una lotta di potere all’interno del governo, alimentando il sospetto che le persone che combattevano per le strade fossero procuratori di fazioni in conflitto dell’élite politica». «Ma ci sono prove crescenti che il caos ad Almaty, l’epicentro del tumulto, è stato qualcosa di più di una semplice corsa al potere delle persone». «Il Presidente Tokayev, in un discorso alla Nazione, venerdì, ha alluso a ciò,affermando che la violenza era opera di circa 20.000 “banditi” che secondo lui erano organizzatida “un unico posto di comando”». Danil Kislov, un esperto russo di Asia centrale, «ha ipotizzato che il caos fosse il risultato di “una disperata lotta per il potere” traclan politici in lotta, vale a dire persone fedeli al Presidente Tokayev, 68 anni, e quelle legati al suo predecessore di 81 anni, Nursultan Nazarbayev». Al culmine del tumulto, mercoledì, il Presidente Tokayev ha annunciato di aver assunto la carica di capo del Consiglio di sicurezza, incarico ricoperto fino ad allora da Nazarbayev. Tokayev ha poi anche licenziato il nipote di Nazarbayev, Samat Abish, come vice capo del principale servizio di sicurezza e ha epurato molti altri vicini all’ex Presidente. «Le rivolte ad Almaty, ha detto Kislov, sembravano essere un tentativo da parte dei membri del clan politico di Nazarbayev di invertire la loro eclissi. “Tutto questo è stato organizzato artificialmente da persone che avevano davvero il potere nelle loro mani”, ha detto, aggiungendo che il nipote estromesso da Nazarbayev sembra aver svolto un ruolo importante nell’organizzazione dei disordini».
Testimoni degli eventi di Almaty parlano di una protesta iniziata come pacifica, «“poi è arrivata questa folla”, una folla indisciplinata di quelli che sembravano più delinquenti che il tipo di persone – studenti, dissidenti librai e scontenti della classe media – che di solito si presentano alle proteste in Kazakistan», «“chiaramente organizzata da predoni di gruppi criminali». Tra loro anche«Arman Dzhumageldiev, noto come ‘Arman the Wild‘,uno dei gangster più potenti del Paese, che secondo testimoni ha provocato gran parte della violenza», e che successivamente è stato arrestato. «Il fatto che una possibile lotta per il potere si sia trasformata così rapidamente in un caos per le strade è una dimostrazione di quanto sia fragile il Kazakistan sotto la superficie lucida di città ricche e cosmopolite come Almaty», ma anche di quanto sia reale il malcontento, la voglia di cambiamento di un Paese ricco ma in cui le ricchezze sono ad esclusivo beneficio delle élite politiche e della enorme stratificazione della società.
Gavin Helf e Donald Jensen affermano che si tratta di un «fallimento catastrofico della transizione da Nazarbayev al suo successore, Tokayev. La transizione da un sovrano e una famiglia regnante a un’altra è un enorme punto debole nei sistemi autoritari e oligarchici. Raramente va bene, poiché un leader in declino cerca di proteggere sia la sua eredità politica che il benessere della sua famiglia dopo la sua morte. Il 4 gennaio ha anche segnato il 20° anniversario della soppressione di Demokraticheskii Vybor Kazakhstana (o Qazaqstannyn Demokratiyalyk Tandau, Scelta democratica del Kazakistan)» un movimento politico pro-riforma che sfidò il regime di Nazarbayev. Uno dei loro leader, Mukhtar Ablyazov, le cui vicende hanno coinvolto anche l’Italia, «ha cercato molto attivamente di promuovere il cambio di regime dall’estero sin dal suo esilio, e questa settimana è apparso su tutti i media stranieri, sembrando parlare a nome dei manifestanti», per denunciare ‘l’occupazione russa‘, attraverso l’ingresso nel Paese del contingente CSTO. «È probabile che abbia un ruolo di primo piano in qualsiasi caccia a una mano ‘straniera’, indipendentemente da ciò che ha effettivamente fatto negli ultimi giorni».
I due analisti USIP sottolineano che «in Kazakistan non c’è davvero un’opposizione democratica dietro le quinte. Il governo ha cooptato o soppresso chiunque abbia criticato anche solo leggermente le sue politiche negli ultimi tre decenni. Ci sononativisti, estremisti islamici,xenofobi e altri che potrebbero tentare di sfruttare la situazione,insieme a molti imprenditori politici»
«La crisi nell’ex repubblica sovietica dell’Asia centrale fonde questioni geopolitiche in tutta l’Eurasia, dagli sforzi di Mosca per intimidire l’Occidente e soggiogare l’Ucraina alle sue delicate relazioni con la Cina, e le implicazioni sono enormi. È una felice sorpresa che questa regione sia rimasta sostanzialmente stabile dalla fine della guerra civile tagika alla fine degli anni ’90. Ha dimostrato di essere un cuscinetto per i principali attori Russia, Cina e India, nonché per potenze minori ma comunque importanti come Pakistan e Iran. Ma l’instabilità in Kazakistan offre opportunità a questi Stati per rafforzare la loro posizione in Asia centrale e le stanno cogliendo»,afferma John E. Herbst è direttore senior dell’Eurasia Center dell’Atlantic Council e Ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina dal 2003 al 2006 e Uzbekistan. «L’obiettivo del Presidente russo Vladimir Putin di ripristinare l’influenza russa nello spazio post-sovietico non si limita a Ucraina, Georgia e Moldova. L’invito di Tokayev offre a Mosca la possibilità di fare proprio questo nel Paese più ricco dell’Asia centrale. In secondo luogo, Tokayev aveva un’altra opzione: la Shanghai Cooperation Organization (SCO),guidata dalla Cina ma che include anche la Russia. Nonostante la crescente cooperazione tra Mosca e Pechino nell’opporsi alle politiche statunitensi a livello globale, i due sono concorrenti in Asia centrale.
Putin ha detto infamemente, nel 2014, che il Kazakistan è un Paese artificiale creato dal suo primo Presidente, Nursultan Nazarbayev, e la sua popolazione comprende l’importanza di strette relazioni con la Russia. I russi etnici costituiscono il 18 per cento della popolazione del Paese e, insieme a oltre il 60 per cento delle risorse di idrocarburi del Kazakistan, sono concentrati nel nord, non lontano dal confine russo. Dopo l’osservazione di Putin, gli alleati del Cremlino hanno chiesto il ‘ritorno‘ del nord del Kazakistan in Russia.Nel frattempo, la Cina ha le sue pretese territoriali sul Paese.
È lecito ritenere che la decisione della CSTO sia stata in realtà una decisione di Putin. Ciò significa che considera più importante rafforzare la posizione di Mosca in Kazakistan piuttosto che accogliere la Cina. Anche se è improbabile che ciò abbia un impatto immediato e visibile sulle relazioni della Russia con la Cina, è un messaggio a Pechino che ci sono limiti all’accettazione da parte di Mosca dello status di partner junior nelle loro relazioni bilaterali. Nel tempo, questo modellerà la relazione. E questo ci porta all’attuale accumulo di circa centomila soldati di Mosca sul confine vicino all’Ucraina, nonché ai suoi sforzi per spremere concessioni da Stati Uniti, NATO, Unione Europea e Ucraina con la minaccia di una grande offensiva convenzionale. Sta minacciando questa invasione perché la sua guerra ibrida di quasi otto anni contro l’Ucraina non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo: impedire la deriva verso ovest del paese. Ma l‘attuale focus di Putin sull’Ucraina non intende andare a scapito degli altri suoi obiettivi geopolitici in Eurasia. Per quanto possibile, vorrebbe ripristinare l’influenza del Cremlino sul territorio dell’ex Unione Sovietica. In alcuni luoghi, la Crimea e forse il Kazakistan settentrionale, ciò significa che Mosca si impossessa e annette del territorio.
I disordini in Kazakistan pongono una domanda a Putin: dovrebbe continuare la sua campagna di intimidazione sul fianco occidentale o dovrebbe affrontare i pericoli a sud? O può fare entrambe le cose?». Ovvio che Putin punta a mangiarsi la torta per intero. «Tuttavia, se il dispiegamento iniziale della CSTO fallisce, Putin potrebbe trovarsi di fronte a un dilemma. In Kazakistan, la posizione di Mosca in Asia centrale si deteriorerebbe se una rivolta popolare producesse un governo riformista, o se Tokayev chiedesse aiuto alla Cina e alla SCO per rimanere al potere. La domanda allora diventa: Putin ritirerebbe truppe dal confine ucraino per affrontare i disordini in Kazakistan e rafforzare la posizione della Russia in Asia centrale? Ciò comporta certamente meno rischi rispetto al lancio di un’importante offensiva militare convenzionale in Ucraina. Putin potrebbe facilmente spiegare di essersi fermato temporaneamente a ovest per assicurarsi un nuovo trofeo nel sud. E ciò non precluderebbe comunque un terzo accumulo di forze russe al confine con l’Ucraina.
La posta in gioco per Putin è alta sia in Kazakistan che in Ucraina, ma potrebbe rivelarsi difficile per l’arciopportunista occuparsi con successo di entrambi allo stesso tempo».
E, comunque si guardi la situazione, il futuro del Kazakistan sembra legato mani e piedi a Mosca. A meno di al momento imprevedibili eventi che riportassero la Cina nel campo di gioco.