Ferdinand Marcos Jr., noto come ‘Bongbong’, 64 anni, figlio dell’ex dittatore defunto Ferdinand Marcos, è stato eletto alla Presidenza che fu del padre. Una relazione altalenante tra Cina e USA si prospetta nel Pacifico

 

Dal 10 maggio c’è nuovamente un Marcos alla guida delle Filippine -o meglio, ci sarà, quando entrerà in carica, a fine giugno, per un mandato di sei anni, con Sara Duterte, figlia del Presidente uscente Rodrigo Duterte, come vicepresidente. E’ Ferdinand Marcos Jr., noto come ‘Bongbong’, 64 anni, figlio dell’ex dittatore defunto Ferdinand Marcos.
Una elezione ottenuta con un molto ampio margine di voti che «completa la straordinaria riabilitazione del clan Marcos, quasi quattro decenni dopo che Marcos Sr. è stato rovesciato», commenta Sebastian Strangio dalle colonne del ‘The Diplomat‘.

«Ferdinand Marcos fu eletto per la prima volta Presidente delle Filippine nel 1965. Dichiarò la legge marziale nel 1972 e fu infine rovesciato dalla People Power Revolution del 1986. Nel frattempo, la dittatura di Marcos imprigionò, torturò e uccise migliaia di persone, mandò l’economia in tilt e sovrintendeva a una cleptocrazia famosamente incarnata dalla collezione di 3.000 paia di scarpe della First Lady Imelda. Quando la famiglia fuggì in esilio alle Hawaii, milioni di filippini si rallegrarono. Trentasei anni dopo, hanno eletto Presidente il figlio del dittatore», annota Gregory B. Poling, Senior Fellow e Direttore del Southeast Asia Program e Asia Maritime Transparency Initiative. E prosegue Poling nella ricostruzione storica: «L’ascesa di Bongbong alla presidenza ha richiesto decenni. È iniziato con il ritorno della famiglia nelle Filippine nel 1991 per affrontare l’accusa di corruzione (l’anziano Marcos è morto nel 1989). Meno di un anno dopo, Imelda si candidò alla presidenza senza successo, ma Bongbong si assicurò un seggio alla Camera dei Rappresentanti. Imelda ha vinto il suo seggio nel 1995, così come sua figlia Imee nel 1998».

Una elezione difficile da spiegare, secondo analisti e commentatori, non solo occidentali. «L’ordine politico post-1986 nelle Filippine è stato consapevolmente inquadrato come uno di rivitalizzazione nazionale dopo gli anni bui della legge marziale. Eppure, all’interno di un sistema costruito in simbolica opposizione a loro, i Marcos hanno prosperato. Il loro potere e la loro ricchezza hanno permesso loro di riscrivere la storia della famiglia come una storia di persecuzione e riformulare la dittatura come un periodo di relativa pace e prosperità. Il passare del tempo, l’incapacità dell’establishment politico post-Marcos di fornire risultati per molti filippini e, naturalmente, le camere d’eco dei social media, hanno creato un pubblico pronto per quella narrativa storica», ragiona Poling. Eppure: «questa non è la fine della democrazia filippina, anche se potrebbe accelerarne il decadimento. Le istituzioni democratiche del Paese sono già state martoriate da sei anni di presidenza Duterte e dall’ascesa della disinformazione online, insieme ai corrosivi decenni di oligarchia, innesto e malgoverno».
Altri, come Strangio, hanno cercato di spiegarequesta elezione come espressione di urgenza di porre «domande più ampie che sorgono dalla vittoria di Marcos» e che «riguardano la traiettoria generale della politica filippina e come percepiamo la crisi globale della democrazia».

Sia come sia, il 30 giugno Ferdinand Marcos Jr. avrà la responsabilità di guidare le Filippine. Il Presidente si troverà a gestire le sfide di sempre: povertà e disoccupazione, che sono state esacerbate dalla recessione economica di COVID- 19. E sempre sul fronte interno, si troverà a dover gestire insurrezioni musulmane e comuniste ostinatamente persistenti che le amministrazioni precedenti non hanno adeguatamente considerato e affrontato. Per nulla di tutto questo, sostiene Strangio, si individuano tracce di proposte nel suo programma. Piuttosto è certo che è «improbabile che Marcos risponda alle richieste di perseguire il Presidente uscenteper migliaia di omicidi durante la sua sanguinosa repressione antidroga, né collaborare con le indagini in corso sugli omicidi da parte della Corte penale internazionale», non ultimo perchè la figlia del Presidenteuscente sarà la sua vice. Altresì, «il ritorno dei Marcos a Malacañang quasi certamente porrà fine anche agli sforzi di lunga data per rintracciare i miliardi di dollari saccheggiati dalle casse statali durante il governo di Marcos Sr., tra il 1965 e il 1986».

Le preoccupazioni ancora più importanti si appuntano su quella che sarà la sua politica estera. Derek Grossman, analista senior della difesa presso la Rand Corp., ritiene che la sua politica estera sarà influenzata sia dalle politiche del padre che da quelle del suo predecessore, Rodrigo Duterte, il che produrrà una politica tesa a coinvolgere la Cina, senza rischiare però diallontanare troppo gli Stati Uniti. Il padre aveva fatto in modo di mantenere una forte alleanza sul fronte della sicurezza con Washington, mentre Duterte ha lavorato per costruire un positivo rapporto con la Cina e la Russia, scontrandosi non di rado con gli USA.
Dunque, nel corso del suo mandato, «Washington dovrebbe aspettarsi una specie di leader Duterte-light che sia amico della Cina ma che non abbia l’intenzione espressa, come ha fatto Duterte, di smantellare l’alleanza Filippine-USA. Anzi, potrebbe persino rafforzarla se l’assertività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale continua a crescere», afferma Grossman, anche in considerazione del fatto che la maggior parte dell’establishment della sicurezza filippino è favorevole al rafforzamento dei legami con Washington.

In campagna elettorale Marcos ha non ha parlato molto di politica estera, ma da quanto detto nel corso di un dibattito, si possono definire alcune linee guida fondamentali.
In primo luogo, nel corso di questo dibattito ha riaffermato la
preminenza degli interessi filippini e l’equidistanza, indipendentemente dall’intensificarsi della concorrenza, da Stati Uniti e Cina. Durante il dibattito, ha detto: «Non importa cosa stanno cercando di fare le superpotenze, dobbiamo lavorare nell’interesse delle Filippine. Non possiamo permetterci di essere parte della politica estera di altri Paesi.Dobbiamo avere la nostra politica estera». Questa affermazione, commenta l’analista di Rand, «suggerisce che immagina Manila comené sposata con l’alleanza con Washington né come una nuova partnership con Pechino. Piuttosto, vuole guidare una via di mezzo per navigare intensificando la competizione tra grandi potenze».
Marcos ha sottolineato che le Filippine sono in un ‘punto caldo’ quando si tratta di geopolitica, e che
Manila «non cederà un centimetro quadrato a nessun Paese, in particolare alla Cina, ma continuerà a impegnarsi e lavorare per il nostro interesse nazionale». Il riferimento di Marcos è al Mar Cinese Meridionale, dove Cina e Filippine hanno molte rivendicazioni contrapposte e sono state sempre più in conflitto negli ultimi anni. Il nuovo Presidente, pur esprimendo la sua preoccupazione per il Mar Cinese Meridionale, sembra prendere atto che su questi temi caldi, per quanto non ci sia possibilità per le Filippine di rinunciare a territori, perchè i nodi trovino soluzione serve la collaborazione di Pechino, per tanto si tratta di superare lo scontro e lavorare invece sulla trattativa. C’è da ritenere che in questo tentativo di costruzione di dialogo con la Cina, molto possa favorirlo il fatto che la sua famiglia mantiene stretti legami con il Partito Comunista Cinese.
«
Non dovrebbe essere difficile far notare alla Cina che i nostri pescherecci non rappresentano una minaccia militare per loro, quindi perché dovrebbero schierare navi da guerra lì? Ma dobbiamo rispondere. Se succede di nuovo, possiamo inviare la Marina o anche la Guardia Costiera, quindi c’è una presenza militare… una presenza dello Stato in quella zona», ha detto Marcos. E ciò facendosi forte dell’alleanza USA-Filippine per scoraggiare la Cina, poiché qualsiasi attacco ai beni statali filippini attiverebbe necessariamente il Trattato di mutua difesa, fa notare Derek Grossman. L’obiettivo, proseguiva Marcos in quel dibattito, «è mostrare alla Cina che stiamo difendendo quelle che consideriamo le nostre acque territoriali e [l’obiettivo] non è sparare sulle navi cinesi». Piuttosto Manila deve «rendere [i cinesi] consapevoli che sappiamo cosa stanno facendo e non siamo d’accordo con quello che stanno facendo, e continuiamo con i nostri canali diplomatici, e altri canali, per risolvere il problema in modo che non accada più». Toni che fanno ritenere che il nuovo Presidente ritenga di avere le spalle ben coperte dagli USA e intenda usare l’assertività per aprire una relazione di non scontro e non subalternità ma anche costruttiva, fruttuosa. Insomma, Marcos, con la Cina, gioca in attacco, non in difesa e punta non a non perdere, bensì a vincere.
Definendo come ‘importante’ l’alleanza con gli Stati Uniti, ha detto che l’alleanza «
ci ha aiutato per oltre cento anni e questo non scomparirà mai dalla psiche filippina, dall’idea e dalla memoria di ciò che gli Stati Uniti hanno fatto per noi e combattuto con noi nell’ultima guerra».
Malgrado l’importanza attribuita all’alleanza con gli USA, Marcos non pare intenzionato a cercare il sostegno degli USA contro la Cina: «
Il problema è tra noi e la Cina. Se entrano gli americani è destinato a fallire perché stai mettendo insieme i due protagonisti». Piuttosto, suggerisce Grossman, in sostanza Marcos dice che Manila faccia di più da sola, il che è perfettamente in linea rispetto la strategia dell’Amministrazione Biden «di cosiddetta deterrenza integrata, in cui alleati e partner degli Stati Uniti lavorano insieme per scoraggiare la Cina e altri avversari, come la Russia». Il sentimento pro-USA tra la popolazione filippina, la leadership militare e alcuni collegi elettorali, influenzeranno molto la politica di Marcos verso gli Stati Uniti, mentre Pechino non sembra disposto a fare passi indietro o almeno mostrare disponibilità alla trattativa nella vicenda del Mare Cinese Meridionale.

La Cina sembra sicura del suo vantaggio sugli USA nella relazione con le Filippine, il che, secondo altri analisti come David Rising e Jim Gomez dell”Associated Press‘, potrebbe complicare le cose per Washington. Al centro delle preoccupazioni americane non ci sono le Filippine in quanto tali, bensì le Filippineper il loro posizionamento nel Mar Cinese Meridionale, e il fatto che l’azione di Marcosin politica estera «potrebbe complicare gli sforzi americani per smussare la crescente influenza e potere cinese nel Pacifico».
«Se la recente tendenza nelle relazioni con gli Stati Uniti continuerà ha molto a che fare con il modo in cui l’Amministrazione del Presidente Joe Biden risponde al ritorno di Marcos al potere nelle Filippine», ha affermato Andrea Chloe Wong, politologo con sede a Manila, ex ricercatore in il Dipartimento degli Affari Esteri delle Filippine. «Da un lato haiBiden per quanto riguarda gli interessi geostrategici nelle Filippine, e dall’altro deve bilanciare la promozione degli ideali democratici americani e dei diritti umani». «Se sceglie di farlo, potrebbe dover isolare l’Amministrazione Marcos, quindi questo sarà sicuramente un delicato atto di equilibrio per le Filippine e l’approccio di Marcos agli Stati Uniti dipenderà in gran parte da come Biden si impegnerà con lui».
La sua elezione, commentano Rising e Gomez arriva in un momento in cui gli Stati Uniti si sono sempre più concentrati sulla regione, mettendo in atto una strategia volta ad ampliare considerevolmente l’impegno degli Stati Uniti, rafforzando una rete di alleanze e partnership di sicurezza, con un’enfasi sull’affrontare la crescente influenza e ambizioni della Cina.
«Migliaia di forze americane e filippine hanno recentemente concluso una delle loro più grandi esercitazioni di combattimento degli ultimi anni, che ha messo in mostra la potenza di fuoco degli Stati Uniti nelle Filippine settentrionali vicino al confine marittimo con Taiwan».
Marcos ha affermato che manterrà l’alleanza della sua Nazione con gli Stati Uniti, «ma la relazione è complicata dal sostegno americano delle amministrazioni che hanno preso il potere dopo la deposizione di suo padre e da una sentenza del tribunale distrettuale degli Stati Uniti del 2011 alle Hawaii che ritiene lui e sua madre di violazione di un ordine di fornire informazioni sui beni in relazione a un’azione collettiva sui diritti umani del 1995 contro Marcos Sr. Il tribunale li ha multati per 353,6 milioni di dollari, che non sono mai stati pagati e potrebbero complicare la possibilità che lui visiti gli Stati Uniti in futuro», afferma Andrea Chloe Wong.

Gli Stati Uniti hanno una lunga storia con le Filippine, che sono state una colonia americana per la maggior parte della prima metà del secolo scorso prima che le fosse concessa l’indipendenza nel 1946. Gli Stati Uniti hanno chiuso le loro ultime basi militari nelle Filippinenel 1992, ma la posizione del Paese sul Mar Cinese Meridionale significa che rimane strategicamente importante e, in base a un trattato di difesa collettiva del 1951, gli Stati Uniti garantiscono il loro sostegno in caso di attacco delle Filippine. «L’alleanza USA-Filippine è vitale per la sicurezza e la prosperità di entrambe le Nazioni, specialmente nella nuova era di concorrenza con la Cina», ha affermato Gregory B. Poling, direttore del Southeast Asia Program presso il Center for Strategic and International Studies di Washington.
Per quanto Marcos sia interessato a costruire un rapporto positivo con la Cina, «è improbabile che getti in mare l’alleanza degli Stati Uniti. Ci saranno momenti difficili da gestire per l’alleanza. Ma vanno gestiti. Di fronte a una Cina revisionista, la più antica alleanza asiatica degli Stati Uniti è più vitale che mai», afferma Poling.
Per questo, l’Amministrazione Biden, preoccupata per la crescente influenza cinese nel sud-est asiatico, «troverà senza dubbio un modo creativo per superare le sue preoccupazioni sulla controversa eredità del clan Marcos e annullare il mandato d’arresto statunitense in sospeso contro Bongbong , emesso a seguito della sua mancata osservanza delle decisioni della sentenza di un tribunale delle Hawaii del 2011 su come i beni sequestrati della famiglia avrebbero dovuto essere erogati alle vittime di violazioni dei diritti umani»,
afferma Strangio.