Ieri sera, alle 19 ora italiana, il Presidente statunitense Donald Trump ha annunciato ufficialmente lo spostamento della sede dell’ ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. L’ annuncio di Trump e la conseguente firma del Jerusalem Embassy Act, risalente al 1995, ma, la cui sottoscrizione, era stata semestralmente rinviata da tutte le varie Amministrazioni, hanno scatenato furibonde reazioni sia nel mondo arabo sia nell’ intera comunità internazionale.

In attesa dell’ annuncio, il Presidente turco Erdogan aveva  affermato come Gerusalemme costituisca la «linea rossa per i musulmani»  ed aveva invitato i 57 Paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) a riunirsi il 13 dicembre a Istanbul per un summit straordinario sulla decisione americana.

Dopo la perplessità espressa tanto dall’ Eliseo quanto da Downing Street, anche Papa Francesco era  intervenuto affermando che «Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani ed ha una vocazione speciale alla pace. Rispettate lo status quo».

«È ora di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, è l’inizio di un nuovo approccio al conflitto israelo-palestinese. Israele è uno stato sovrano che ha il diritto, come ogni altro Paese, di decidere la sua capitale. Essere consapevole di questo è una condizione necessaria per raggiungere la pace. Gerusalemme non è solo il cuore di tre religioni, ma di una delle democrazie più importanti al mondo. Gli israeliani hanno costruito un paese dove tutti sono liberi di professare la loro religione» ha dichiarato ieri il Capo della Casa Bianca. Questi ha poi precisato che«Gerusalemme è e deve restare un posto dove tutti possono pregareOggi riconosciamo l’ovvio: Gerusalemme è la capitale d’Israele. È Il riconoscimento della realtà, niente di più».

Tra i pochi, forse l’unico, ad esultare delle parole di Trump, il Premier israeliano Benjamin Netanyahu che ha sostenuto: «La decisione segna un giorno storico ed è un importante passo verso la pace». Favorevole anche il Presidente israeliano Reuven Rivlin.  «Siamo in contatto con altri Paesi affinché esprimano un riconoscimento analogo  e non ho alcun dubbio che quando l’ambasciata Usa passerà a Gerusalemme, e forse anche prima, molte altre ambasciate si trasferiranno. E’ giunto il momento»  ha poi affermato Netanyahu in un discorso al ministero degli Esteri.

‘Irresponsabile’ è stata definita la scelta di Trump dall’ Arabia Saudita mentre si è detta molto preoccupata l’ Alta Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Federica Mogherini. Critico il Segretario Generale ONU Antonio Guterres. «La scelta di Trump scatenerà un nido di calabroni» ha scritto Global Times, il quotidiano vicino al Partito Comunista Cinese. «Questa decisione di Trump accendera’ le fiamme del conflitto in tutto il mondo, specialmente in Medio Oriente» hanno fatto sapere i talebani. «Gerusalemme sarà liberata» ha promesso l’ ayatollah iraniano Khamenei. Altrettanto decisa è stata la reazione dell’ OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che include al Fatah, la fazione maggioritaria dell’ ANP di Abu Mazen,: «Riconoscendo Gerusalemme capitale di Israele e preannunciando lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv, Donald Trump ha distrutto ogni speranza di soluzione di pace sulla base del principio dei due Stati».

Il presidente palestinese Abu Mazen in un discorso alla Nazione, aveva avvertito che «la decisione odierna di Trump equivale a una rinuncia da parte degli Stati del ruolo di mediatori di pace. Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato di Palestina», annunciando il ritiro della delegazione diplomatica palestinese da Washington».

Questa mattina, il discorso choc del leader di Hamas, Ismail Haniyeh: « Facciamo appello per una nuova intifada contro l’occupazione e contro il nemico sionista, ed agiamo di conseguenza. Ilriconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele è una dichiarazione di guerra nei nostri confronti»

A 30 anni dall’ inizio della Prima Intifada, il 9 dicembre 1987, ‘la rivolta delle pietre’, «facciamo appello affinché domani 8 dicembre sia il giorno in cui si scatenino la collera e la intifada palestinese contro la occupazione a Gerusalemme e nella Cisgiordania» ha detto Haniyeh.

Nel frattempo, lo Stato ebraico si prepara: il suo esercito ha infatti condotto un’  enorme esercitazione militare nel nord del Paese, a pochi chilometri dal confine con il Libano. Stando alle testimonianze, sarebbe la piu’ imponente esercitazione israeliana degli ultimi 25 anni che ha visto coinvolta la divisione della Galilea per testare la reattivita’ delle Forze armate nel caso di un attacco a nord .Secondo le dichiarazioni a  Yedioth Ahronoth del comandante Michel Yanko, l’esercitazione militare avrebbe visto partecipare dei riservisti, chiamati ad operare con equipaggiamenti danneggiati o mal funzionanti. Secondo un comunicato odierno, le forze armate israeliane avrebbero inoltre inviato diversi battaglioni in Giudea e Samaria.

Il ministro della Pubblica sicurezza di Israele, Gilad Erdan aveva dichiarato questa mattina, in un’intervista alla Radio dell’esercito: «C’e’ un crescente livello di incitamento, non solo da Hamas, ma anche dagli arabi israeliani: il fenomeno dei lanci di pietre e’ aumentato durante la notte, dobbiamo essere preparati»

Di contro, lo Stato islamico ha pubblicato sui propri canali un video in cui esorta  tutti i musulmani a “riportare il terrore su Israeleattraverso esplosioni, incendi e accoltellamenti” e a “uccidere gli ebrei in ogni modo possibile“. Nel video di dieci minuti, pubblicato dall’agenzia Al Khayr che fa parte della rete mediatica dell’Isis, vengono mostrati scene di attacchi da parte di Israele ai danni dei palestinesi e il narratore incita: «Con loro non valgono accordi, negoziati, incontri o trattati: loro sono il male». E poi «Quale modo migliore per avvicinarsi ad Allah se non uccidendo un ebreo.

Alzati e uccidilo, con l’accoltellamento, o con il veleno, oppure investendolo con l’auto. Mettete le bombe nelle loro piazze e incendiate le loro case». Infine, la minaccia: «Entreremo a Gerusalemme e vi uccideremo nel peggiore dei modi». Anche al Qaida, secondo il Site, il sito internet che monitora i messaggi degli estremisti islamici sul web, avrebbe minacciato gli Stati Uniti e Israele:  “Vi taglieremo la testa e libereremo Gerusalemme” sarebbe uno dei messaggi.

Se ieri le proteste si erano limitate a bruciare le bandiere americane e israeliane, oggi la tensione è fortemente aumentata: guerriglia nella Citta’ Vecchia di Gerusalemme, in particolare alla Porta di Damasco. Nel frattempo il premier israeliano Netanyahu ha cancellato la sua presenza a una cerimonia a Tiberius e ha partecipato invece ad una riunione d’emergenza del governo. Secondo il portale Middle East Eye Le truppe israeliane  avrebbe sparato proiettili contenenti gas lacrimogeno per disperdere i manifestanti palestinesi riunitisi a Betlemme.

Dello scoppio di una nuova Intifada, di quali saranno i bersagli e le modalità, ne abbiamo parlato con Andrea Dessì, ricercatore presso l’ Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma, programma Mediterraneo e Medioriente.

«Facciamo appello affinché domani 8 dicembre sia il giorno in cui si scatenino la collera e la intifada palestinese contro la occupazione a Gerusalemme e nella Cisgiordania » Queste le parole del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, il quale ha poi precisato che si tratterà di «un’intifada popolare globale, proprio come ha fatto il nostro popolo a Gerusalemme».  Quali saranno le modalità e i bersagli di questa nuova Intifada? Verrà supportata da altri Paesi, ad esempio Iran o Turchia?

Sebbene la tensione è salita alle stelle – con scontri a Betlemme, in Cisgiordania occupata e ai confini della Striscia di Gaza – è ancora presto parlare di una nuova Intifada. Dopo l’annuncio di Trump, sia Hamas che il movimento Palestinese di Fatah con base in Cisgiordania hanno richiamato il popolo Palestinese a dare il via a ‘tre giorni di rabbia’ con manifestazioni e proteste popolari in varie località. Hamas ha poi richiamato a dare il via ad una nuova Intifada, iniziando appunto domani, Venerdì 8 Dicembre, giorno sacro per Islam. È molto probabile che ci saranno sconti più violenti domani, con Israele che ha gia rafforzato il dispiegamento di truppe dell’esercito in varie località dei territori occupati, inclusa appunto Gerusalemme Est, territorio considerato occupato illegalmente da gran parte della comunità internazionale, incluso gli stati uniti almeno fino all’annuncio di Trump di ieri.

Le modalità di un eventuale nuova Intifada sono difficili da prevedere. Va notato comunque il riferimento nel discorso di Haniyeh “come ha fatto il nostro popolo a Gerusalemme”. Questa fa riferimento alle proteste popolari tenutesi a Gerusalemme il luglio scorso, quando scoppiarono manifestazioni palestinesi dopo che il governo Israeliano aveva chiuso la spianata delle mosche di Gerusalemme in seguito ad un attentato, installando telecamere e metal detector a tutte le entrate per la spianata. Il numero di protestanti e il forte sostegno dato da parte dei leader religiosi mussulmani in Palestina hanno fatto si che il governo Israeliano è stato costretto a fare marcia indietro, smantellando i metal detector prima di riaprire la spianata. Questa è stata una vittoria importante per i Palestinesi, che sperano di ripetere in seguito al annuncio di Trump, anche se le modalità sono ben diverse, difficile – se non impossibile – pensare che si possa ora convincere Trump a fare marcia indietro.

Il rischio di una nuova Intifada prolungata si capirà in base agli scontri di oggi e il fine settimana. Se vi saranno morti, come purtroppo è probabile, allora è possibile che si prolunghi ancora di molto la crisi. Per quanto riguarda il sostegno esterno, certamente Erdogan in Turchia userà questo annuncio per cercare di aumentare il suo consenso nel mondo Arabo, attaccando duramente sia gli USA che Israele. L’Iran potrebbe anche dare sostegno, ma se lo farà sarà in modalità nascosta, cercando di ricucire i rapporti (e quindi una certa influenza) con i gruppi Palestinesi di Hamas e Islamic Jihad, ma non sarà facile per l’Iran. Va anche sottolineato come la posizione di altri leader Arabi, primo tra tutti il re Giordano, ma anche Sisi in Egitto e l’Arabia Saudita sarà di molto indebolita da questo annuncio e la consapevolezza popolare che questi leader – con l’eccezione del re Giordano – hanno dato sostegno all’Amministrazione Trump indipendentemente da questa sua decisione su Gerusalemme. Per la Giordania invece, non è da escludere un aumento di pressioni popolari per rivedere i rapporti con Israele, gia da tempo incrinati, con possibili ripercussioni sulla stabilità del paese.

Attraverso quali strumenti Israele fronteggerà la nuova Intifada?

Di nuovo, non si può ancora parlare di Intifada. Israele fronteggerà le proteste con l’unico modo che conosce: la forza e la repressione. Si cercherà di evitare morti, ma come spesso accade in queste situazioni niente si può prevedere e la situazione può scappare di mano molto velocemente. Sono state aumentati i militari a Gerusalemme, ai diversi checkpoint militari che dividono Israele dai territori occupati e sono stati messi in allerta anche i riservisti. Probabile prevedere una chiusura totale della Cisgiordania occupata, con il divieto di transito tra un villaggio e un altro e una massiccia presenza militare e d’intelligence. È molto alta la tensione sui confini con la striscia di gaza, dove si temono una possibile ripresa del lancio di razzi verso Israele o anche un tentativo di orchestrare un attentato. Per Hamas, che fino alla settimana scorsa si era adoperato a limitare le attività di altri gruppi armati nella striscia, diventerà molto più difficile controllare il territorio per prevenire un ulteriore escalation militare.

Haniyeh ha lanciato un nuovo appello ad al-Fatah affinché esca “dal tunnel degli accordi di Oslo”, ponendo fine alla cooperazione di sicurezza con Israele e lavorando alla riconciliazione e la unità nazionale palestinese. Ha inoltre auspicato l’ annullamento da parte dell’Anp di Abu Mazen delle sanzioni economiche inflitte alla Striscia nei mesi scorsi. Si cementificherà, dunque, il fronte palestinese contro Israele?

Difficile da prevedere. Comparando i discorsi di Haniyah con quello di Abbas si capisce subito che le differenze tra i due gruppi sono ancora molto radicati. Molto dipenderà dai paesi Arabi quali Egitto, Emirati e Arabia Saudia, perché la leadership Palestinese dipende (quasi) interamente dal loro sostegno economico e sono loro che hanno spinto per la riconciliazione Hamas-Fatah dei mesi scorsi. A livello popolare però non vi è dubbio che Gerusalemme è una questione che cementifica tutta la comunità palestinese – sia in Cisgiordania, che a Gaza e a Gerusalemme, ma anche dentro Israele e nella diaspora internazionale.

 Trump ha sostenuto che il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato d’Israele rientra nel nuovo approccio americano per portare la pace nell’area e giungere alla soluzione dei «due Stati». E’ un approccio che può avere successo?

Trump non ha detto questo. Ha detto che il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e l’inizio dei lavori di spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gersualemme non implica una fine dei tentativi Usa di negoziare la pace in Medioriente. Dice anche che gli Usa sostengono la formula dei due stati ma solo se questa formula è voluta dalle parti interessate. Questo discorso fa quindi una marcia indietro totale comparato alla politica tradizionale Usa verso il conflitto. In poche parole, con questa dichiarazione, gli Usa hanno abdicato il ruolo di mediatore tra le parti, apertamente dichiarando il loro sostegno ad Israele, che come parte più forte e meno interessata alla risoluzione del conflitto, può ora semplicemente continuare a inventare scuse per non sedersi al tavolo dei negoziati, dichiarando che non vi sono i presupposti per il negoziato e che quindi tutto rimane sotto il proprio controllo.

Trump ha implementato un atto di riconoscenza unilaterale che va contro decenni di politiche Usa, ma è anche una chiara violazione del diritto internazionale. È un paradosso che gli Usa di Trump chiedono ai palestinesi di non attuare decisioni unilaterali quando loro stessi hanno fatto questo ieri, sulla questione più esplosiva e importante di tutto il conflitto: lo status di Gerusalemme.

Non è quindi un approccio che può avere successo. Semmai l’unico successo che può derivare da questo annuncio è una presa di posizione forte e unità da parte dell’Europa e altri stati che gli Usa non hanno più i presupposti per dirigere i negoziati e che l’era del monopolio USA sul processo di pace e quindi finito. Anche qua però non c’è molta speranza, sia per il fatto che gli Usa godono del potere di Veto nel consiglio di sicurezza Onu, che per il fatto che l’Europa, anche volendo, è troppo disunita e debole per prendere tale posizione e portarla a termine.