La ‘cabina di regia’ a guida italo-americana è l’ ennesimo colpo inflitto all’ Europa dal Presidente USA
Lunedì, in seguito al faccia a faccia nello Studio Ovale, il Premier italiano Giuseppe Conte e il Presidente americano Donald Trump hanno annunciato, durante la conferenza stampa congiunta, che Italia e Stati Uniti lavoreranno insieme per stabilizzare la Libia, anche nell’interesse del popolo libico. In altre parole, una delle proposte che il capo del governo di Roma aveva portato al colloquio ha trovato accoglimento.
«Conte sta facendo un lavoro fantastico» aveva esordito Trump mentre riceveva il Presidente del Consiglio italiano. Entrambi i leader non hanno fatto mistero delle proprie somiglianze, definendosi «outsider della politica» e – ha chiarito Conte – «con questo proficuo incontro abbiamo compiuto un ulteriore passo in avanti per aggiornare la nostra cooperazione: siamo due governi del cambiamento, tante cose ci uniscono».
L’ ‘asse del cambiamento’, secondo quanto emerso dal bilaterale a Washington, ha, dunque, già prodotto degli effetti: «una cabina di regia permanente Italia-USA nel Mediterraneo, una cooperazione strategica, in virtù della quale l’Italia diventa punto di riferimento in Europa e interlocutore privilegiato», ha spiegato Conte. L’ obiettivo è la stabilizzazione della Libia, cruciale tanto per l’ Italia quanto per l’ Europa, soprattutto in virtù degli effetti positivi che potrebbe sprigionare sia per quanto riguarda la lotta al terrorismo sia per quel che concerne la gestione dei flussi migratori provenienti dall’ Africa verso l’ Europa. «Sono molto d’accordo con quello che state facendo sull’immigrazione legale e illegale. Molti altri Paesi in Europa dovrebbero seguire l’esempio dell’Italia» ha detto Trump lodando quanto il governo di Roma sta facendo.
Attraverso questa cabina di regia, i cui contorni sono ancora fumosi, ma che dovrebbe esplicarsi con i reciproci i ministeri Esteri e Difesa, l’Italia assumerebbe, appunto, un ruolo chiave, in Ue, per la Libia e di interlocutore privilegiato con gli Stati Uniti. Una Libia che, sette anni dopo la caduta di Gheddafi, è ancora nel caos, dove la frammentazione e il disordine regnano incontrastati: da una parte Fayez al-Serraj guida il Governo di accordo nazionale che, sostenuto dall’ ONU (e, tra gli altri, dall’ Italia), non è ancora abbastanza solido da imporsi nella Tripolitania; dall’ altra il Generale Khalifa Haftar (appoggiato da appoggiato da Egitto, Emirati Arabi e Russia e Francia), leader dell’ autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), controlla la Cirenaica; dall’ altra ancora milizie e gang criminali si contendono immani traffici illeciti che includono anche quello di esseri umani. A questo proposito, da inizio 2015 in poi, le partenze di migranti si sono andate concentrando in un’ area molto ristretta che, a est di Tripoli, abbraccia Misuratae poco altro mentre a ovest comprende Sabratha e i piccoli altri centri limitrofi. Ciò lascia supporre che il controllo del business è nelle mani di pochi incontrastati e sempre più potenti attori. D’ altro canto, le milizie, profittando anche di parte delle rendite delle risorse petrolifere, sono andate rafforzandosi e legittimandosi agli occhi della popolazione, divenendo decisive per qualsiasi progetto di ‘ricostruzione’ del Paese.
E proprio il mancato coinvolgimento di questi entità è stato uno degli errori della ‘Conferenza sulla Libia’ tenutasi a Parigi il 29 maggio scorso per volere del Presidente francese Emmanuel Macron. Gli invitati – per la Libia, al-Serraj, Khalifa Haftar, Saleh Issa, il presidente della Camera dei Deputati di Tobruk e Khaled Mishri, il presidente dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, oltre ai rappresentanti di altri Paesi ed istituzioni – hanno deciso, scontrandosi con l’ opposizione proprio delle milizie libiche, di sostenere, in un accordo verbale, elezioni presidenziali e legislative il 10 dicembre 2018 e, prima della tornata elettorale, favorire il referendum per l’approvazione della Costituzione.
A questo riguardo, ieri è stata rimandata di due settimane la seduta della Camera dei rappresentanti di Tobruk, nell’est della Libia, che dovrebbe discutere della legge referendaria. Il giorno precedente, il presente della Camera dei rappresentanti, Aguila Saleh, aveva sospeso la sessione «per mancanza di tempo, essendoci più di 30 iscritti a parlare». Pochi minuti prima il portavoce del parlamento libico, Abdellah Belahiq, aveva reso noto l’inizio della seduta alla quale erano presenti però solamente 95 deputati su 200, ossia quindici in meno della maggioranza qualificata pari a 120 voti. Contestualmente, si era scatenata una protesta, poi rientrata, da parte di alcune decine di persone per impedire che si svolgesse la discussione in parlamento. Ventiquattro ore prima si era dimesso, a sorpresa, Nouh Abdullah, presidente dell’Ente costituzionale libico che ha scritto la bozza della nuova Costituzione. Bozza approvata dall’ Ente costituzionale nel luglio 2017, ma che ancora attende l’ approvazione parlamentare. Nouh ha lamentato i ‘numerosi ostacoli’ posti al loro lavoro rifiutando qualsiasi ulteriore incarico all’interno dell’Ente, pur sperando nell’ approvazione del disegno che, a detta del portavoce del parlamento libico, Abdullah Belahiq, «farà uscire la Libia dall’attuale configurazione politica e porrà fine alla fase transitoria che va avanti dal 2011».
Ma già quindici giorni fa, l’Alta Commissione Elettorale Nazionale libica aveva fatto sapere che «non c’è tempo per organizzare il referendum sulla costituzione e in seguito le elezioni entro quest’anno se il Parlamento di Tobruk terrà la discussione sulla legge per il referendum il 30 luglio».
«Ancora dobbiamo votare per il referendum costituzionale, senza una Costituzione quale legittimità avrebbero le elezioni?» ha incalzato nelle ultime ore il neo-ambasciatore libico a Bruxelles, Hafed Gaddur, evidenziando come «noi tutti vogliamo le elezioni in Libia, ma serve un quadro di garanzie, un’ intesa nazionale sul rispetto del risultato», ma «ad oggi le condizioni non ci sono, ci vuole tempo». Secondo l’inviato delle Nazioni Unite, Ghassan Salamé, «senza le giuste condizioni non sarebbe saggio procedere alle elezioni. Senza chiari e forti messaggi a chi vuole tentare di rovinare queste elezioni, le condizioni non saranno soddisfatte». Perciò, «chi vuole mantenere lo status quo può fare molto per minare questo processo» e «se anche un solo paese membro decide di agire da solo non andremo da nessuna parte», aveva dichiarato il diplomatico libanese delle Nazioni Unite parlando al Consiglio di sicurezza il 17 luglio.
Tuttavia, la suddetta ‘cabina di regia’ potrebbe creare non pochi problemi alla Francia che, sostenitrice di Haftar, ha intrapreso una serie di iniziative, avvantaggiandosi anche del disinteresse statunitense: Macron, sulla scorta della Conferenza organizzata a Parigi che replicava un vertice simile avvenuto nel luglio 2017, aveva esibito con orgoglio il documento in 13 punti in cui veniva delineato il cammino futuro della Libia, comprendente elezioni legislative e presidenziali, unificazione della banca centrale e delle forze armate, la definizione di sanzioni per le fazioni che non rispetteranno le scadenze elettorali imposte dall’ ONU. Il 23 luglio il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian è stato a Tripoli, poi a Misurata e Bengasi per ottenere rassicurazioni circa il rispetto delle tempistiche scandite dalla Conferenza di maggio. Oltre all’ aspetto politico, Parigi ha coltivato interesse anche il punto di vista energetico del dossier libico: cinque mesi fa, la compagnia francese Total ha acquistato dall’americana Marathon Oil il 16% del giacimento di Waha, in Cirenaica, per un valore di 450 milioni di dollari. Intesa ritenuta non valida dal governo di Tripoli. Secondo diversi analisti, producendo nel Paese solo 31 mila barili di petrolio al giorno, uno dei possibili prossimi obiettivi del colosso energetico d’ Oltralpe, concorrente di ENI (che produce 384 mila barili), potrebbe essere il consorzio Waha, a sud est di Sirte, nei cui pozzi si troverebbero circa 600 mila barili al giorno e il cui azionariato sarebbe spartito tra la National Oil Corp, la compagnia statale libica con quasi il 60%, la Marathon Oil con il 16,33%, la Conoco Phillips e la Hess con, rispettivamente, il 16,33% e l’ 8,16%. Peraltro, nelle stesse ore del vertice Trump-Conte, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi era a Tripoli per incontrare al-Serraj: con il capo del governo di Tripoli ha potuto discutere delle attività in corso come l’ inaugurazione del del progetto di Bahr Essalam Fase 2, che porta a compimento lo sviluppo del più grande giacimento a gas in produzione nell’offshore libico (20 milioni di metri cubi al giorno vengono forniti dall’ ENI al Paese) o le varie iniziative sociali (sanità, accesso all’ acqua potabile), ma anche dei progetti futuri.
L’ attivismo francese non lascia indifferente il governo ‘giallo-verde’. Contenere l’ espansione, sia a livello politico che a livello economico, della Francia intesa anche come rappresentante di un’ Europa più forte è un obiettivo che Roma pare condividere con Washington. Del resto il governo Conte, stimato da Trump, è considerato da Macron l’ emblema della «lebbra» populista che sta avvelenando l’ Europa. In questo senso, la partita ha una portata ben più ampia di quel che si possa immaginare e trascende la dimensione libica.
La palla ora passa al governo italiano che deve impostare un suo piano. Si è già impegnato a fornire nuovi mezzi navali alla Marina e alla Guardia costiera libiche per far fronte ai flussi migratori, tema caldo dell’ ormai perenne campagna elettorale ed, in autunno, come da tempo era previsto, organizzerà a Roma una ‘Conferenza sulla Libia’, primo test della partnership italo-americana sulla Libia. In quest’ ottica, ha sottolineato il rappresentante della Libia presso l’UE, Hafed Gaddur, «ben venga la Conferenza sulla Libia in Italia che è il Paese più vicino a noi, sia dal punto di vista politico che economico (si pensi alla recente richiesta di al-Serraj di riattivare il ‘Trattato di amicizia e cooperazione’ tra i due Paesi risalente al 2008), ha tutto il diritto di organizzarla». Ma poi?
Critiche aspre sono giunte dal generale Ahmed al Mismari, portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) guidato da Haftar, che, in una recente intervista, ha affermato che l’Italia è un paese “indispensabile” per la Libia, ma ha scelto di sostenere Misurata e Tripoli. La posizione italiana «è inaccettabile» perchè «troppo sbilanciata su Misurata». «Il coordinamento dovrebbe essere condotto con i libici» ha ribattuto il generale libico all’ iniziativa USA-Italia.
Cosa farà l’ Italia? Saprà individuare i suoi obiettivi strategici e le opportune modalità per raggiungerli, senza disperdere i progressi fatti precedentemente, ad esempio con l’ ex Ministero degli Interni Marco Minniti, nell’ opera di dialogo con i vari centri di potere del Paese? Come verrà accolta la ‘cabina di regia’ Italia-USA dai vari attori coinvolti?Con Silvia Colombo, Responsabile di ricerca per il Mediterraneo e il Medioriente dello IAI (Istituto Affari Internazionali), abbiamo approfondito il dossier, alla luce di quanto emerso dal bilaterale tra Trump e Conte.
Che idea si è fatta della cabina di regia sul mediterraneo annunciata al termine del recente incontro tra Trump e Conte? C’ è un rinnovato interesse da parte americana per il Mediterraneo e per il Nordafrica? Perché?
Trump si è reso conto che il Mediterraneo, sebbene non costituisca il primo teatro strategico per gli Stati Uniti, come dimostra il fatto che da qualche anno Washington aveva fatto un ‘disangagement’ da quest’ area, sebbene appartenga di fatto più all’ Europa, proprio per questo suo legame con il Vecchio Continente e la sua capacità, tramite la questione migratoria, di influenzare le dinamiche politiche dei Paesi membri dell’ UE, è di primaria importanza sia per la sua amministrazione sia per la politica che sta portando avanti rispetto all’ Europa. Questo lo abbiamo visto di recente al summit della NATO così come nelle diverse occasioni in cui il Presidente americano ha fatto capire di voler minare in maniera diretta o indiretta l’ Europa attraverso quei canali che si sono aperti nei vari Stati membri. Quindi si è creata questa alleanza, penso, abbastanza superficiale basata su una comunanza di intenti: da una parte il riconoscimento di Conte da parte di Trump, elemento che il premier italiano riporta a casa con un certo successo, dall’ altra Trump che vuole, in un certo qual modo, tornare ad avere voce in capitolo in un’ area dalla quale ha preso le distanze, ma di cui si è reso conto essere ancora molto importante proprio per questo rapporto transatlantico che è sempre più mediato da questioni di politica interna dei singoli Paesi europei. Appare evidente, invece, come non vi sia più l’ idea del ‘Mediterraneo allargato’ del periodo di Bush o dei primi anni di Obama in cui il Mediterraneo era veramente parte di un Medioriente, quindi portatore di interessi strategici importanti degli Stati Uniti. Al momento, invece, il Mediterraneo e la stabilizzazione di Paesi come la Tunisia, la Libia non sono questioni di primaria importanza per Washington, non c’ è interesse a dare un contributo diretto dopo il 2011, ma sono decisive perché hanno un impatto sulla politica interna e sull’ opinione pubblica europea, influenzando il clima all’ interno dell’ Unione, soprattutto su temi come l’ immigrazione che è la principale cartina di tornasole.
Nella scelta di Trump, ha contato l’ elemento delle risorse energetiche?
Sinceramente, io la leggo più in chiave europea. Non a caso, è scoccata una sorta di scintilla con il premier Conte. L’ immagine che si ha leggendo la stampa americana è quella di un’ alleanza rafforzata di due Paesi e non tanto in base a considerazioni più profonde. Magari qualcuno dell’ amministrazione che ha un occhio più attento sul tema può averlo indirizzato in questa direzione anche in virtù di questo elemento. Ma il petrolio mi sembra un po’ l’ ultima preoccupazione per gli Stati Uniti in questo momento. Probabilmente le preoccupazioni sono commerciali in senso più ampio.
Questa cabina di regia costituisce, secondo Lei, un tentativo di limitare l’ azione di altri Paesi come la Francia di Macron, sempre più protagonista, o la Russia di Vladimir Putin?
Stando a quello che è venuto fuori, il discorso è più legato al ruolo centrale che l’ Italia sta giocando, secondo Trump, con coraggio, rispetto al tema dell’ ‘immigrazione’: la nuova politica di respingimento è ben vista dal Presidente americano che quindi registra una comunanza di visione con il governo Conte. Non credo sia molto legato alle dinamiche interne della crisi libica che forse non sono così definite agli occhi di Trump. In questo senso, l’ Italia sta giocando un ruolo perché ha una presenza, ha una storia di lunga durata in Libia che è riconosciuta dagli Stati Uniti. Ma credo che quello che interessa a Trump sia piuttosto il momento attuale ossia questa nuova politica italiana e il modo in cui questa stia creando una certa base di consensi a livello europeo. Per quanto riguarda la Francia, non è tanto intesa quanto singolo Paese quanto, piuttosto, quale Paese di punta di un’ Europa che parla una lingua diversa rispetto a quella di Washington. Una lingua che parla di un’ UE più forte rispetto a quella attuale mentre l’ Italia, al contrario, è in una posizione pro-russa. Quindi, in realtà, il tentativo di Trump, anche dopo l’ incontro di Helsinki, è quello di usare anche l’ Italia per avere comunque un dialogo con la Russia, per calmierarne, sicuramente, l’ influenza, dando ampio spazio all’ Italia e a quello che riuscirà a mettere in campo. E’ più che altro un favorire questo modello un po’ italiano di gestire il conflitto, ma, al contempo, essere molto netta nelle varie questioni, come stiamo vedendo in queste ore.
Ribaltando la prospettiva, in che modo, invece, per esempio, la Francia, accoglierà questa ‘cabina di regia’?
Dipenderà molto da quale tipo di contenuto verrà dato a questa cabina di regia. Ci si lavorerà nei prossimi mesi e tutto spetterà all’ Italia perché non penso che l’ amministrazione americana abbia, in questo momento, modo di concentrarsi su quale contenuto dare a questa iniziativa. Si è creato un contesto e starà all’ Italia portare avanti determinate iniziative, magari con un coordinamento con gli Stati Uniti. Si parla, comunque, di non escludere nessuno: questa conferenza, che si vorrebbe organizzare e che era già nell’ aria prima dell’ incontro con Trump, dovrebbe coinvolgere tutti gli ‘stakeholders’, sia interni al Paese, quindi libici, e questa è una frecciatina a quello che la Francia ha cercato di fare non più tardi di due mesi fa nella Conferenza di Parigi durante la quale alcuni stakeholders non erano stati coinvolti. Sicuramente per la Francia è un colpo perché, ovviamente, Macron aveva coltivato quest’ idea di leadership francese, a livello diplomatico, soprattutto in questa delicata fase. L’ Italia, che era rimasta un pochino isolata, adesso, a parole, in particolare dopo l’ endorsement di Trump, potrebbe rientrare nei giochi. Personalmente, però, non ho mai pensato che un’ iniziativa francese potesse avere chissà quali effetti senza un coinvolgimento anche italiano. Lo stesso vale adesso: l’ Italia, viceversa, non può avere grandi chance d’ uscita se non coinvolge anche la Francia e tutti gli attori che in questi sette anni hanno avuto un interesse o un ruolo più o meno positivo di stabilizzatori in Libia.
C’ è da dire che Trump ha un prestigio importante, ma siamo anche abituati alle sue uscite. Non è detto che tutto quello che lui dice avverrà e l’ Italia deve stare attenta a non cadere nella trappola di essere additata come il Paese con ruolo decisivo, in coordinamento con gli Stati Uniti, quando Trump potrebbe mostrare un interesse molto altalenante rispetto a questa tematica proprio perché è vista dal Presidente americano come un riflesso di una questione più importante che è l’ Europa e la sua instabilità. Quindi, la Francia non è particolarmente contenta per questo avvenimento, ma Roma e Parigi avevano coltivato delle iniziative politiche parallele, a volte si erano scontrate, altre incontrate: anche sotto il precedente governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con l’ iniziativa del Ministro degli Interni Marco Minniti, l’ Italia si era saputa prendere i suoi spazi soprattutto nella gestione dei contatti con le realtà locali, stringendo accordi e via dicendo. Quindi non penso che ci sia qualcosa di particolarmente nuovo per la Francia rispetto al passato anche perché, finora, si parla di cabina di regia, ma non di cosa consiste. Peraltro, questo abbraccio di Trump potrebbe essere pericoloso per l’ Italia perché potrebbe distoglierla da quello che è il sostegno all’ iniziativa delle Nazioni Unite e, negli ultimi anni, all’ azione dell’ inviato speciale Salamè. Del resto, non si può fare altro, è inutile duplicare i processi, aprire un nuovo fronte, aspettarsi che un singolo attore, per quanto importante, possa risolvere la questione libica. Anche l’ Italia dovrà tarare le proprie ambizioni e pensare a quello che già c’è in campo, non lasciandosi ingannare. Roma può fare molto: sicuramente, l’ attuale politica migratoria non è particolarmente di aiuto per la stabilizzazione della Libia e apre nuovi capitoli riguardanti, per esempio, il mancato rispetto del diritto internazionale. Bisogna capire anche cosa Trump ha in mente, oltre le parole: se “lavorare per il Mediterraneo” vuol dire rispedire indietro centinaia di migranti oppure fare in modo tale che la Libia si doti di un governo e di strutture istituzionali solide che, come già scritto nella roadmap delle Nazioni Unite, si impegnino per dotarsi di poteri e leggi per gestire nella maniera più idonea le migrazioni e dei flussi che attraversano anche il proprio territorio, nel tentativo di risolvere non solo i problemi della Libia di oggi, ma anche quelli del Mediterraneo di domani.
Quale sarà la reazione degli altri attori regionali, come Egitto e Tunisia?
Ci sono quelli che si sono sempre più legati alla parte dell’ Italia e vedono. in questo senso, una forte continuità rispetto al ruolo che Roma avuto fino ad oggi oltre ad un riconoscimento importante da parte di Trump. Quelli che hanno intrattenuto rapporti non particolarmente buoni con l’ Italia sul dossier libico, chiaramente, si tratta di qualcosa di negativo. Anche se credo che oggi ci sia una larga convergenza sul tentativo di trovare la strada giusta ed anche l’ Egitto partecipa e sostiene lo sforzo delle Nazioni Unite: in quest’ ottica, non c’è quella posizione di contrapposizione nei confronti dell’ Italia che ci poteva essere un paio di anni fa.
E quella degli attori interni al panorama libico?
Io non ho letto grandi reazioni da parte dei protagonisti libici rispetto a questa cosa: innanzitutto perché Trump non ha una grande nomea e un gran ruolo in Libia, è visto come un attore lontano che usa, per esempio, i droni per attaccare lo Stato Islamico, ma, in fondo, gli Stati Uniti non si sono mai veramente impegnati in una stabilizzazione dopo l’ intervento della NATO nel Paese. Quindi è visto come un attore distante e, francamente, rispetto a quello che l’ Italia può fare, non è certo un cambiamento significativo quello emerso dall’ ultimo incontro con Trump. Penso il governo di Al Serraj sia stato sollevato da questo passaggio perché l’ Italia lo ha sempre appoggiato in maniera convinta e flessibile. Però è anche vero che da molto tempo l’ Italia aveva aperto le porte anche ad Haftar e, visto che siamo in una fase di forte frammentazione del potere che va ben oltre la divisione est-ovest, la dicotomia Haftar-Serraj non è più così netta. A questo proposito, sottolineerei il ruolo futuro della Fratellanza Musulmana: molti attori non solo di Misurata, ma anche di altri centri, si stanno organizzando, anche politicamente, per formare dei blocchi di futuri parlamentari intorno a quest’ appartenenza. Fratellanza Musulmana che nelle elezioni precedenti, sia del 2012 che del 2014, non avevano avuto grande peso, ma che avevano introdotto una forte spaccatura, pur nei loro numeri limitati. Questo sarà un punto chiave da gestire e sul quale l’ Italia può dare un importante contributo dato che, con molti di questi attori, ha un canale aperto così come con le milizie e con le tribù locali.
Il governo Conte ha le idee chiare su cosa fare per stabilizzare il Paese oltre la conferenza a Roma?
La linea di questo governo non è chiara rispetto alla Libia: Salvini ha ingranato la quinta, ma la questione libica è finita nel vortice agitato dal problema dell’ immigrazione. Ma la vicenda libica è ben più complicata. L’ approccio di Minniti, pur con tutti i suoi limiti, partiva da una conoscenza e da un’ analisi molto più approfondita. Che poi le soluzioni proposte, sebbene con le opportune differenze, rimandassero ad un’ idea simile di contenimento, questo non vuol dire che siano la stessa cosa. Al momento non c’è una vera strategia per quello che riguarda la Libia. Il Ministero degli Affari Esteri è particolarmente silente su questo fronte e, forse, l’ Italia vivrà un po’ di continuità con quello che è stato precedentemente.
Rimarrà invariato il dialogo con le tribù, con le milizie e con gli esponenti della politica locale?
I canali sono comunque aperti e non sono certo prerogative solo di Minniti. Ci sono le persone all’ interno dei punti chiave che mantengono questi contatti. Continueranno a sfruttare i canali già esistenti e, in questo senso, l’ Italia vivrà un po’ di rendita: pensiamo, ad esempio, alla grande svolta data da Minniti nel corso del governo precedente. Salvini, chiaramente, cercherà di dare un’ impronta ben più marcata rispetto a quella che è la sua priorità, però non penso che si arriverà a definire una vera e propria strategia per la Libia che tenga conto delle varie dimensioni del conflitto, nell’ ottica di un interesse che non sia solo a stretto raggio, ma che guardi anche al domani.
Pensa che si assisterà ad una dilatazione temporale della roadmap indicata dalle Nazioni Unite?
Sicuramente sì perché una roadmap di un anno, come era stata concepita all’ inizio, con elezioni presidenziali e parlamentari entro il 2018 non aveva senso. E un po’ tutti lo sostenevano. E’ necessario prendere più tempo. Gli stessi recenti ‘incidenti di percorso’ sono fisiologici e non devono far perdere di vista quello che è l’ obiettivo finale perché la roadmap, in sé, è un buon progetto per porre fine al conflitto in Libia o comunque iniziare il processo di stabilizzazione. Cosa che è già iniziata perché comunque c’è un processo in atto. Ci sono dei ritardi: infatti, tutti hanno deciso di posticipare le elezioni al 2019, ma bisogna mantenere l’ obiettivo. Perciò si pensa che l’ Italia, che molto si è prodigata affinché l’ iniziativa dell’ ONU, ben prima che la roadmap potesse avere un peso in Libia e sostenendo non solo il governo riconosciuto a livello internazionale, ma anche tutti gli sponsor, adesso debba continuare su questa strada, altrimenti corre il rischio di venirne tagliata fuori man mano che ci si avvicina ai momenti cruciali.
Anche perché in Libia si giocano delle partite decisive di portata quasi globale: oltre all’ immigrazione, c’è, per esempio, la lotta all’ ISIS, al terrorismo, una piaga non ancora del tutto debellata nel Paese.
Ecco perché l’ Italia ha interesse a che ci sia una condivisione da parte della Comunità Internazionale. Quindi, ben venga che Trump abbia riposto la Libia come fattore di interesse. Ma, allo stesso tempo, penso che ciò non debba distrarre l’ Italia da quello che è il proprio interesse nazionale e quello della Libia. E’ buona cosa che ci sia di nuovo interesse da parte degli Stati Uniti sulla Libia e che venga riconosciuto il ruolo dell’ Italia, ma, a partire da questo, occorre lavorare affinché non siano solo parole.
E’ una situazione in divenire, dunque?
Assolutamente sì. L’ importante è che l’ Italia, che ha ricevuto questo endorsement, si impegni a fondo su questo dossier molto significativo e che se la giochi nel modo giusto, altrimenti è un’ occasione persa.
Il ruolo e, potremmo dire, il supporto degli Stati Uniti come si potrebbe tradurre?
Non volendo essere coinvolti in prima linea, per quel che riguarda, ad esempio, la lotta al terrorismo, credo che ci potrebbe essere un coordinamento e quindi un contributo più sostanzioso da parte degli Stati Uniti. Per tutto il resto, sono convinta che l’ Italia debba fare sponda con la Francia, in primis, che è molto attiva e sarebbe molto deleterio se Parigi e Roma continuassero a gestire le politiche su binari paralleli, quando non in rotta di collisione, facendo il gioco degli Stati Uniti. Non so quanto il governo italiano attuale sia pronto a condividere con i francesi e penso che Trump questo lo abbia capito e lo abbia cercato di sfruttare a suo vantaggio. Il governo Conte ha ben poco di rallegrarsi di questo endorsement. Bisogna capire se Salvini, in questi due mesi, abbia voluto solo sfruttare l’ insediamento del nuovo governo per dare sfogo alle proprie idee o se, in un secondo momento, questo governo sarà in grado di trovare una linea rispetto alla Libia che sia più moderata e di più lungo respiro, non legata alla quotidianità.