Espulsione delle truppe e dei mercenari stranieri, elezioni il prossimo 24 dicembre: è da questo sentiero che passa la rinascita, ma le ‘riserve’ non mancano

 

Ha avuto luogo ieri, a Berlino, la seconda Conferenza sulla Libia, organizzata e co-presieduta dalle Nazioni Unite e dalla Germania: al tavolo, sono stati invitati solo i ministri degli Esteri dei Paesi coinvolti, quali Egitto, Francia, Germania, Italia, Libia, Marocco, Paesi Bassi, Svizzera, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, oltre ai rappresentanti dell’Onu, dell’Ua, dell’Ue e della Lega Araba. Non mancano tutti gli alti rappresentanti dei governi di Algeria, Cina, Russia e Repubblica Democratica del Congo (Rdc), l’ultimo dei quali presiede il Comitato dell’Unione Africana sulla Libia. Ma, ancor più importante, tra i partecipanti, è presente per la prima volta un rappresentante della nuova amministrazione americana guidata dal presidente Joe Biden, ossia il segretario di Stato Antony Blinken.

Un parterre di tutto rispetto che era chiamato a dibattere su quella che Heiko Maas, il ministro degli esteri tedesco, ha chiamato la “stabilizzazione sostenibile del paese”, un processo di transizione graduale verso le elezioni generali che si terranno nel Paese il 24 dicembre. In particolare in agenda c’era come far rispettare il cessate-il-fuoco, dell’embargo sulle armi e di una roadmap per l’uscita delle forze militari straniere dal Paese nordafricano, a partire da quelle di Turchia e Russia.

“La Libia è un esempio positivo del fatto che siamo nella situazione di attenuare i conflitti attraverso soluzioni politiche” – ha detto il ministro tedesco Heiko Maas, arrivando alla conferenza – “Oggi vogliamo mettere i presupposti per andare avanti nel percorso iniziato”, ha spiegato il ministro, sottolineando che “bisogna rendere operativa l’uscita delle forze politiche straniere e che questo deve iniziare ad accadere”. Maas ha poi rimarcato l’importanza “della preparazione delle elezioni che dovrebbero tenersi il 24 dicembre”. “Si tratta di grandi sfide ed è importante che tutti i paesi presenti qui contribuiscano a questi obiettivi e che i libici possano riprendere il destino del paese nelle loro mani”.

Con la Conferenza di oggi – ha sottolineato il capo della diplomazia tedesca – si avvia una nuova fase “in cui non parliamo più solo della Libia, ma in cui ora parliamo con uomini e donne libici del futuro del loro Paese”. Infatti, ha voluto specificare, negli ultimi due anni, dalla prima Conferenza del gennaio 2020, in cui i leader hanno concordato di rispettare un embargo sulle armi e di spingere le parti belligeranti del paese a raggiungere un completo cessate il fuoco, si è fatto molto: una tregua tra il GNA con sede a Tripoli e l’Esercito nazionale libico (LNA) con sede a Bengasi sotto il generale Khalifa Haftar lo scorso agosto è diventata un cessate il fuoco formale a ottobre. Tale accordo di cessate il fuoco includeva la richiesta che tutti i combattenti stranieri e i mercenari lascino la Libia entro 90 giorni ha portato a un accordo sulle elezioni, che si terranno il 24 dicembre, e un governo di transizione che si è insediato a febbraio. Ciò ha spianato la strada alla formazione guidata dalle Nazioni Unite di un governo ad interim sotto Dbeibah, che partecipa alla Conferenza.

L’ambasciatore tedesco in Libia, Oliver Owcza, ha affermato oggi che ci sono tre ragioni dietro l’appello del suo Paese e delle Nazioni Unite per la convocazione della Seconda Conferenza di Berlino sulla Libia. Intervenendo in un videoclip registrato nella sala conferenze dove si è svolta oggi la Seconda Conferenza di Berlino sulla Libia, ha affermato: “Vogliamo valutare ciò che è stato realizzato alla prima conferenza di Berlino, che è in primo luogo un cessate il fuoco permanente, un’autorità esecutiva temporanea, il la ripresa della produzione petrolifera e la ripresa dell’economia, il che è encomiabile”. “Accogliamo” – ha aggiunto –  anche la Libia come membro a pieno titolo della Conferenza di Berlino, dove è rappresentata dal Primo Ministro del governo ad interim di unità nazionale, Abd Alhamid Aldabaiba, e dal Ministro degli Affari Esteri, Najla Al-Mangoushz. Infine, attendiamo con impazienza di realizzare le questioni aperte nella road map, in particolare le elezioni nazionali che devono essere preparate alla fine dell’anno, nonché il ritiro delle forze straniere e dei combattenti al fine di migliorare l’attuazione del cessate il fuoco obiettivi».

Il nuovo governo ad interim, eletto a febbraio, deve guidare il Paese fino alle elezioni del 24 dicembre, quando i libici dovranno eleggere liberamente la prossima amministrazione. Fino ad allora, il governo Dbeibah, oltre a preparare la tornata elettorale, dovrà lavorare all’unificazione delle istituzioni e delle forze di sicurezza divise della Libia e avviare gli sforzi di ricostruzione nel Paese devastato dalla guerra: la capitale Tripoli ha avuto il crollo maggiore con l’escalation del conflitto dello scorso anno; rovine si ammassano anche a Bengasi, la seconda città più popolosa; anche sulla costa, lo stato delle città è disastroso. Tale devastazione fa sì che oggi, un quarto di milione di libici rimangono sfollati e quasi 300.000 libici vivono in case danneggiate o scadenti che non possono permettersi di ricostruire. Oltre un milione di persone ha bisogno dei servizi primari come l’assistenza sanitaria, l’istruzione e l’acqua, ma non vi possono accedere, anche perché meno della metà delle strutture sanitarie funziona. Questo spiega perché, secondo i dati disponibili, una persona su cinque in Libia ha bisogno di assistenza umanitaria.

È la crisi economica, che si accompagna a quella umanitaria e fisica, che ha portato i prezzi del cibo ad aumentare del 12%, con lo scoppio della pandemia. Il paese rimane una calamita per i trafficanti di esseri umani mentre spostano migranti disperati attraverso il Mar Mediterraneo e verso l’Europa.

Dal canto suo, la Guardia costiera libica, che opera con il sostegno finanziario dell’UE, ha intercettato quest’anno più di 14.000 persone che tentavano di attraversare il mare, un numero superiore a quello dell’intero 2020. Quello che attende i migranti rientrati in Libia è più miseria. L’organizzazione benefica medica Medici Senza Frontiere ha sospeso le sue operazioni in due centri di detenzione per migranti a Tripoli martedì per quelli che ha descritto come “recidivi di violenza nei confronti di rifugiati e migranti”. Dax Roque, il direttore nazionale del Consiglio norvegese per i rifugiati in Libia, ha messo in guardia dal lasciare lo sviluppo della Libia legato ai punti all’ordine del giorno di oggi.

Ma cosa si è deciso a Berlino? Lo si legge in un documento di 58 punti diviso in sei sezioni (introduzione, processo politico, sicurezza, riforme economiche e finanziarie, rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, seguiti). Tre i punti fondamentali: espellere dal Paese tutte le forze militari straniere, senza tralasciare lo smantellamento delle varie fazioni armate locali per creare dei contingenti unitari; riunificare tutte le istituzioni, a partire dalla Banca centrale libica (CBL) e procedere a un’equa ripartizione dei proventi petroliferi; proseguire lungo l’iter diretto alle elezioni.

Tutto come previsto senonché la necessità sottesa alla Conferenza era quella di ribadire la pressione internazionale sugli obiettivi da raggiungere. Innanzitutto sul fronte del ritiro delle truppe e dei mercenari stranieri. “Se tutto va per il verso giusto” il ritiro dei mercenari e delle forze straniere dalla Libia potrebbe iniziare già ‘nei prossimi giorni’”, ha dichiarato la vice ministra degli Esteri libica, Najla al-Mangoush, nel corso della conferenza stampa congiunta. Stando agli auspici espressi anche dal Ministro degli Esteri tedesco Maas, “i mercenari stranieri in Libia devono ritirarsi tutti contemporaneamente”, perché “non serve a nulla che se ne vadano solo alcuni e che altri restino, (il ritiro) deve essere fatto in modo equilibrato, passo dopo passo. Vi sono già stati dei primi sviluppi per questo ritiro e credo che sia la parte russa che quella turca siano consapevoli che il ritiro debba essere fatto passo dopo passo” per garantire un “equilibrio di forze” e che nessuna delle parti in causa, in particolare Russia e Turchia, possa avvantaggiarsi “militarmente”.  “Questo non significa che tutti riporteranno indietro i loro mercenari durante la notte”, ha precisato Maas.

Ma, sostiene un alto funzionario del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti,  Turchia e Russia avrebbero già raggiunto un’intesa iniziale per lavorare verso l’obiettivo di estrarre 300 mercenari siriani da ciascuna parte del conflitto. Ulteriori dettagli sulle modalità, però, non sono stati comunicati così come non sarebbe stato previsto un meccanismo sanzionatorio per rendere effettivo il ritiro. Certo è che, senza la volontà politica dei singoli attori, Turchia e Russia, è impossibile ottenere nulla. Egitto ed Emirati Arabi Uniti però avrebbero preteso l’inserimento nel documento finale della postilla riferita anche alle truppe regolari mentre Ankara, stando alle fonti diplomatiche, ha espresso una ‘riserva’ sulla richiesta del ritiro immediato di quelli che, nel suo caso, sono miliziani siriani filo-turchi e addestratori turchi.

Circolano indiscrezioni per cui la Turchia  starebbe addirittura lavorando con il governo di Tripoli per istituzionalizzare la presenza turca in Libia. Erdogan è un dittatore, come ha affermato Draghi un paio di mesi fa, ma, forte dell’accordo con il governo dell’ONU, è anche colui che lo ha sorretto, mettendo a perdere, di fatto, Haftar, così come è colui al quale l’Europa, in virtù del cosiddetto ‘metodo Turchia’, si prepara a dare 6 miliardi di euro per rinnovare l’accordo sui migranti ed evitare il flusso migratorio lungo la rotta balcanica, tanto cara alla Germania che si prepara alle elezioni federali del prossimo settembre. Quindi, non ci sarebbe niente di male, forse, neanche in ottica europea, nel riconoscere la situazione e, dopo aver fatto rimuovere dalla Libia tutti i mercenari siriani, dare al governo turco la possibilità di lasciare nel Paese solo le unità regolari.

Sta di fatto che anche la NATO, al vertice del 14 giugno scorso, ha riportato, dopo diverso tempo, tra le priorità della sua agenda la crisi in Libia che, si sottolinea nel documento finale del summit, «ha implicazioni dirette per la stabilità regionale e la sicurezza di tutti gli alleati». Per rimuovere gli ostacoli alla risoluzione, si è quindi tornati a fare pressing perché l’alleato Erdogan esca dal teatro libico, nella consapevolezza, tuttavia, che il problema non è solo la Turchia, ma anche la Russia e le sue ambizioni nel Mediterraneo.

Va detto che, secondo l’accordo raggiunto sul cessate il fuoco, le truppe straniere sarebbero dovute uscire dal Paese già lo scorso 23 gennaio. Eppure, recenti report dell’ONU stimano la loro presenza in Libia ancora attorno alle 20mila unità comprendenti i combattenti provenienti da Turchia, Russia, Sudan e Ciad. Come è noto, nel conflitto fatto deflagrare dal Generale Khalifa Haftar, tra aprile 2019 e ottobre 2020, il GNA e LNA, le due fazioni libiche, sono stati supportate rispettivamente dalla Turchia – con la quale il governo Al-Sarraj aveva stretto un accordo di cooperazione militare (anche in cambio di gas) – e, sul fronte opposto, da Emirati Arabi, Egitto, Russia la quale si è avvalsa di contractor della Wagner, stanziati nella base di Al Jufra, non lontano da Sirte, oltre che del Ciad e del Sudan.

“Sottolineiamo la necessità che truppe e mercenari stranieri lascino la Libia perchè nuociono alla Libia e alla regione”, ha detto Rosemary Dicarlo, vicesegretario generale Onu, ma ha riconosciuto che il processo di pace “richiederà un certo tempo”. Secondo Jalel Harchaoui, un membro della Global Initiative Against Transnational Organised Crime con sede a Ginevra che segue da vicino la Libia, tuttavia, è “la presenza di mercenari stranieri, che agiscono come una sorta di deterrente, che ha portato all’attuale, anche se inquieta, pace”. Questo spiegherebbe perché, finora, non sembrano essersi fatti passi avanti nel trasferire i combattenti nei loro paesi d’origine, o nel mantenere l’embargo sulle armi.

Embargo che è durato solo pochi giorni, ma era limitato ai trasporti attraverso il Mar Mediterraneo. Gli esperti ritengono che ciò fosse direttamente collegato alla migrazione verso l’Europa: le navi che osservano l’embargo sarebbero responsabili dei rifugiati in pericolo. Sono stati esclusi i trasporti dai paesi limitrofi, come Tunisia, Algeria, Niger, Sudan o Egitto. Non a caso, il Presidente della Camera dei rappresentanti (il Parlamento libico) Aguila Saleh Issa, uomo della Cirenaica, ha, a questo proposito, chiesto l’imposizione di sanzioni a chi non rispetta l’embargo. E l’Unione Europea si è detta d’accordo.

Un altro problema spinoso, che, però, sembra essere venuto meno, riguarda la Francia e le posizioni contrastanti dell’UE sulla Libia: la contraddizione schizofrenica vedeva Parigi sostenere Haftar e, di contro, in quanto membro dell’UE, sostenere anche il governo di Tripoli. Il Presidente francese Emmanuel Macron ha ripetutamente negato questa circostanza e, per dimostrare il suo allineamento con la posizione dell’UE, ha incontrato il primo ministro libico a Parigi per colloqui bilaterali a giugno. “Dobbiamo porre fine a tutte le interferenze straniere, che comportano il ritiro di tutte le forze mercenarie straniere sul suolo libico: i russi, i turchi, i mercenari siriani e tutti gli altri”, ha dichiarato Macron. E già nel marzo di quest’anno, la Francia aveva riaperto la propria ambasciata a Tripoli dopo sette anni, un chiaro segnale di sostegno al GNA. Macron ha anche sottolineato che la Francia “ha un debito con la Libia e i libici per un decennio di disordini”, memore del disastro causato dal Presidente Nicolas Sarcozy. Ma il cambio di passo più eclatante è stato sottolineato ieri dal Premier italiano, Mario Draghi, nel corso del suo discorso al Senato: “Vi ricordate anni fa quando c’erano altri Paesi europei che ritenevano di avere una strategia nazionale e gli interessi del Paese da difendere in Libia? Non ne parlano piu’, anzi, stanno cercando di rivedere la loro presenza nel Sahel, stanno cercando in un certo senso di ridurre la presenza per affidarsi di piu’ ad un’azione collettiva e concordata. E qui c’e’ l’altra evoluzione che, secondo me, e’ positiva: prima giravamo in ordine sparso, ci danneggiavamo, eravamo concorrenti. Oggi non si parla piu’ di posizioni diverse, ma si discute e si marcia sulla stessa linea”, ha spiegato

Il riferimento implicito era alla Francia con il cui Presidente Macron, il Presidente del Consiglio italiano ha avuto, a fine maggio, un bilaterale a fine maggio per rinsaldare un forte legame, già confermato dalla visita del ministro della Difesa Lorenzo Guerini a Bamako due settimane prima, quando ha annunciato l’invio di duecento militari italiani nell’ambito dell’accordo bilaterale di difesa tra Italia e il Mali, insieme alla conferma della presenza di 290 militari italiani in Niger, già presenti dal 2018, senza dimenticare, ha ricordato in Parlamento, che nel 2020 l’Italia ha speso 16 milioni di euro per missioni militari. Parigi, peraltro, tiene in grande considerazione il sostegno militare delle forze speciali dell’Italia nella missione Takuba, all’interno della quale l’Italia sarà il primo contingente al di là di quello francese. Ovviamente Roma è al fianco di Parigi nel Sahel, come dimostra l’apertura di ambasciate italiane in Mali, in Niger, in Guinea, in Burkina Faso, in attesa di aprirla anche in Ciad. Per quanto concerne il dossier libico, l’asse Italia-Francia è una pietra angolare per ccompagnare economicamente e politicamente la stabilizzazione del Paese dato che a gennaio 2022 la Francia sarà presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea mentre l’Italia terminerà la presidenza del G20.

“Ringrazio l’Italia che ha avviato molte iniziative per una soluzione politica in Libia. L’Italia ha investito molte forze” nel dossier libico, ha detto la cancelliera Angela Merkel in conferenza stampa con il premier Mario Draghi. Sulla Libia “dopo un anno e mezzo di lavoro, l’Italia ci ha creduto ed abbiamo messo attorno ad un tavolo tutti quelli coinvolti: ora abbiamo un governo di transizione e un cessate il fuoco”. Lo ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “A Berlino abbiamo concordato che deve iniziare il ritiro dei mercenari e delle truppe che hanno combattuto in Libia, e abbiamo stabilito che il 24 dicembre ci saranno le elezioni”, ha aggiunto trionfalmente il titolare della Farnesina che, tuttavia, di recente si è visto contestare il forum di riconciliazione tra le tribù del sud della Libia, che sarebbe in preparazione in Italia, dal Presidente del Consiglio presidenziale libico, Mohamed Menfi (giunto a Roma qualche giorno fa per incontrare Draghi e Mattarella) con il tramite della Ministra degli Affari esteri nel governo di unità nazionale, Najla al Mangoush, e del primo ministro, Abdul Hamid Dbeibah. Secondo quanto riportato dal quotidiano libico ‘Al Wasat’, nel suo messaggio Menfi avrebbe scritto: “Abbiamo appreso che il ministero degli Esteri si prepara a inviare una delegazione di componenti del sud della Libia per tenere un forum di riconciliazione in Italia, su invito della Farnesina, senza previo coordinamento con il Consiglio presidenziale”. Tale forum, si legge nel messaggio, va “annullato” tenendo conto “della necessità di rispettare i principi di sovranità interna, di osservare rapporti di buon vicinato e non intromettersi negli affari interni del Paese”. Infatti, ha tenuto a precisare il capo del Consiglio presidenziale libico, gli esiti del Foro di dialogo politico libico hanno affidato al Consiglio stesso il compito di avviare il percorso di riconciliazione nazionale, formando un’Alta commissione a tale scopo.

La Farnesina ha smentito qualsiasi ruolo del ministero degli Esteri nell’organizzazione della Conferenza di riconciliazione delle tribù del Fezzan che secondo fonti diplomatiche “è stata promossa e organizzata dalla organizzazione no-profit italiana Ara Pacis, impegnata da anni nella riconciliazione post-conflitto della regione meridionale del Paese”. L’ambasciata d’Italia a Tripoli sarebbe stata coinvolta, quindi, unicamente “per il rilascio dei visti di ingresso ai delegati libici”.

L’Italia, peraltro, anche dal punto di vista dell’intelligence, si è molto portata avanti sul dossier libico, con una nuova guida del DIS,Elisabetta Belloni, che da segretaria generale della Farnesina, ha gestito il dossier libico col direttore dell’Aise Gianni Caravelli. Ad affiancarne Belloni, anche Pasquale Ferrara che ha assunto la direzione degli Affari politici del ministero degli Esteri, ma già ambasciatore in Algeria e recentemente nominato inviato speciale per la Libia. Come se non bastasse, anche Nicola Orlando, già in missione in Afghanistan e vice capo missione dell’ambasciata italiana di Tripoli, poi capo a Pistrina, ora tornerà come inviato speciale.

Ma l’Italia, per via del suo storico legame con la Libia, è un partner ideale per avviare la sua ricostruzione, il cui valore è stimato in 450 miliardi di euro. Ed è quello che, a dieci anni dalla caduta di Muammar Gheddafi, un premier italiano, Mario Draghi, è andato a ribadire a Tripoli, lo scorso aprile, peraltro correndo il rischio di esporsi alle critiche di chi gli contestava un approccio troppo orientato al business e poco al rispetto dei diritti umani e all’immigrazione. “La questione più importante è la riattivazione dell’accordo” di amicizia del 2008 tra Italia e Libia “in tutti i suoi aspetti, in particolare per quanto riguarda l’autostrada” dal confine egiziano a quello tunisino, cioè l’autostrada litoranea Bengasi-Tripoli, di 1.750 km che dovrebbe collegare la parte est del Paese alla parte ovest, o quella delll’aeroporto internazionale di Tripoli.

Come sostiene il capo dei consiglieri del ministero dell’Economia libico, Ali Mansour al Salh, L’Italia rappresenta per il nuovo governo di unità nazionale libico “un trampolino di lancio per la sua economia. Tripoli punta sulla penisola italiana come piattaforma di partenza per il commercio in Europa oltre che sul fatto che il vostro paese è un nostro importante partner economico”. Tutto questo a partire dal rilancio del settore petrolifero libico, che il governo ambisce a portare a 3 milioni di barili al giorno, ma anche con grande attenzione all’ambito edile, con la ricostruzione delle reti di comunicazione e delle infrastrutture, talmente fragili che, oggi, in alcune zone, i blackout dell’energia elettrica possono durare oltre 20 ore al giorno, e l’approvvigionamento dell’acqua è a rischio. Tutte questioni su cui le aziende italiane hanno un grande potenziale.

L’Italia può anche essere di supporto dal punto di vista amministrativo. “Porteremo in Libia il modello che abbiamo sperimentato con le città del Kurdistan iracheno e siriano”, ha detto il presidente del Consiglio nazionale Anci, Enzo Bianco, rendendo noto che alcuni primi cittadini italiani, da quello di Padova a quello di Palermo, insegneranno agli omologhi della ‘Quarta Sponda’ come rendere efficiente l’anagrafe, il patrimonio immobiliare e l’amministrazione dei bilanci.

Ma l’Italia non è la sola che, a livello europeo, prova a giocare un ruolo nell’ambito della ricostruzione libica, come dimostra il recente incontro tra l’ambasciatore tedesco Oliver Owcza e Sadiq Al-Kabir, il Presidente della Central Bank of Libya, nel quale è stato sottoscritto un accordo composto di programmi di collaborazione con le banche tedesche e formazione del personale della Banca Centrale libica da parte della Bundesbank. Un po’ quello che ha fatto il Regno Unito che, sebbene in disparte (non dall’inizio) sul campo, tramite il Foreign Office, ha preso i contatti con la Libyan Investment Authority, il fondo creato nel 2006 per farvi confluire i proventi dalla vendita del petrolio, e che agisce nel quadro dell’International Forum of Sovereign Wealth Fund, ma vorrebbe rientrare nel codice ‘Santiago Principles’, motivo per cui ha annunciato un piano per la redazione del bilancio consolidato. La LLA vuole tornare attore a livello internazionale, ma per farlo, dovrebbe far fronte alle cause legali aperte, sopratutto a Londra, e vedersi abolite le sanzioni ONU: “Eliminare le sanzioni per poter realizzare utili in futuro”, ha affermato il Ministro dell’Economia, Salama al Ghweil. La LIA, a causa delle sanzioni, ha asset liquidi congelati per un valore pari a circa il cinquanta percento del portafoglio da 68,4 miliardi di dollari, ovvero 33,5 miliardi che non solo non possono essere reinvestiti nel Paese, ma hanno addirittura tassi negativi.

“Molte sfide ci aspettano ancora”, ha detto il Ministro degli Esteri tedesco Maas. “Per l’ulteriore stabilizzazione del Paese, è fondamentale che le elezioni si svolgano come previsto e che i combattenti stranieri e i mercenari lascino davvero la Libia”. Già lunedì scorso, Maas aveva dichiarato al quotidiano ‘Die Welt’ di aver parlato di questo in una conversazione con Dbeibah. “Mi ha assicurato che stanno lavorando molto intensamente alla preparazione delle elezioni. Comprendiamo che, dopo tutto quello che è successo in passato in Libia, non è così facile organizzare elezioni. Ma per quanto difficile possa essere, non ho l’impressione dai miei interlocutori libici che vogliano rimandare o addirittura annullare più le elezioni». Rivolgendosi all’incontro di Berlino, il primo ministro libico Abdulhamid Dbeibeh, nominato a marzo, ha chiesto al parlamento libico di approvare una legge elettorale per consentire lo svolgimento delle elezioni di dicembre e di approvare il bilancio del suo governo. “Purtroppo non abbiamo ancora visto la necessaria serietà da parte degli organi legislativi”, ha detto. Un accordo sulla base costituzionale che dovrebbe inaugurare lo svolgimento delle elezioni il 24 dicembre 2021, insieme alla mancata intesa sulla decisione di eleggere il prossimo Presidente del paese in via diretta o indiretta o se svolgere il referendum sulla costituzione prima o dopo le elezioni oppure ancora sulla nomina delle cariche sovrane tra parlamento e Consiglio di Stato, non è stato ancora trovato e questo getta delle ombre di ambiguità sul processo politico in corso in Libia, fermo restando che il primo luglio prossimo è la scadenza ultima fissata per il completamento della legge elettorale. A creare incertezza è anche la possibilità che lo stesso Primo Ministro ad interim Abdullamid Dbeibah possa rimanere in carica anche dopo le elezioni di dicembre, senza tralasciare l’eventualità che l’esito elettorale non venga riconosciuto da tutte le componenti libiche.

“Nel caso in cui le leggi necessarie non vengano approvate entro l’inizio del prossimo luglio, cambieremo il nostro piano per attuare il diritto al voto a causa dell’insufficienza di tempo richiesta per organizzare le elezioni”, ha assicurato il capo dell’Organizzazione per le elezioni nazionali, Imad al-Sayeh, ponendo l’accento sulla necessità della creazione, in tempi rapidi, di un ambiente giuridico che favorisca l’accordo costituzionale entro luglio. Del resto, ha ricordato, la sua commissione si è già portata avanti, avendo quasi del tutto ultimato i preparativi tecnici per le elezioni che dovrebbero chiamare alle urne, secondo le stime, circa tre milioni di libici. La Sezione di supporto logistico della commissione elettorale libica ha già ricevuto due lotti di materiale necessario alla registrazione degli elettori, ma fondamentale è quindi l’approvazione del bilancio dello Stato da parte del parlamento di Tobruk.

Ciò nonostante, la campagna elettorale, tuttavia, sembra essere già iniziata con Fathi Bashagha, il ministro degli Interni dell’ex Governo di Accordo Nazionale libico, in prima fila. Bashaga, legato ai Fratelli musulmani, dopo essere uscito sconfitto, in alleanza col Presidente Aguilah Saleh, nel tentativo di guidare il governo unitario in questa fase di transizione in sede di Forum di Dialogo politico a Tunisi, ha iniziato a girare le principali capitali europee e a rilasciare le prime interviste come quella al quotidiano francese “L’Opinion”, in cui ha attaccato “l’attuale governo non intende attuare la road map per uscire dalla crisi”, e, ribadendo l’assenza di contrasti tra il presidente del Consiglio presidenziale, Muhammad al-Menfi e il premier Abdulhamid al-Dabaiba, “anche se quest’ultimo cerca di garantire il suo governo, sebbene ci sia la pressione popolare e il sostegno della comunità internazionale per attuare la road map”, ha aggiunto che “l’istituzione di una nuova autorità frutto delle elezioni è l’unica in grado di imporre il ritiro dei combattenti stranieri dalla Libia”.

A contendere a Bashaga la guida del futuro governo libico, l’ex vicepresidente del Consiglio di presidenza libico, Ahmed Maitiq, da molti visto come il competitor più temibile per Bashaga essendo l’unico che pur essendo di Misurata, dell’ovest, sembra avere un discreto seguito anche nell’est del paese. “Noi libici ci chiediamo dove sia il problema oggi nel nostro Paese: nei suoi organi esecutivi o legislativi?”, si è chiesto in un post su Facebook, temendo che siano proprio i membri del parlamento e del Consiglio di Stato a non volere il voto per garantire i loro seggi.

Più nelle retrovie, ma comunque ben visibile, il capo del blocco “Ihya Libia”, Aref Al-Nayed, ex ambasciatore libico negli Emirati Arabi Uniti da giugno 2011 a ottobre 2016, e quindi, tenuto in buona considerazione ad Abu Dhabi, che finora ha sostenuto Haftar.

Alcuni come Maiteeg hanno compiuto questa scelta intenzionalmente per potersi candidare alle elezioni di dicembre 2021. Il 4 febbraio scorso infatti, il politico di Misurata ha ritirato la sua candidatura durante il Forum di dialogo politico di Tunisi per consentire il giorno dopo la vittoria della lista di al-Dabaiba, consapevole del fatto che se fosse stato eletto non avrebbe potuto poi presentarsi alle elezioni del 2021, come promesso in sede di presentazione delle liste al dialogo di Tunisi sponsorizzato dall’Onu.

In rampa di lancio, secondo alcuni rumors, ci sarebbe anche Saddam Haftar, figlio del  generale Khalifa, che, come vedremo tra breve, non sembra ancora aver rinunciato alle sue ambizioni di egemonia sulla Libia. E, della serie ‘a volte ritornano’, o meglio, i loro figli, è diventate sempre più accreditata l’ipotesi della candidatura del figlio del colonnello Muammar Gheddafi, Saif al-Islam, il quale, nascosto o dai domiciliari, soprattutto dai social media e dai media libici che lo sostengono, come l’emittente satellitare “Libya al-Ghad”, è dato in corsa per le elezioni di dicembre.

L’attore che avrebbe più carte da giocare non vuole essere coinvolto” ha detto Draghi ieri al Senato, facendo un implicito riferimento agli Stati Uniti, ricordando inoltre come tale dinamica sia stato oggetto delle discussioni in Cornovaglia. Gli Stati Uniti, e questa è la novità dell’amministrazione Biden rispetto a quella Trump, tornano sulla scena libica. Blinken, che ha partecipato alla Conferenza, ha affermato che “condividiamo l’obiettivo di una Libia sovrana, stabile, unificata e sicura, libera da interferenze straniere: è ciò che il popolo libico merita, è fondamentale anche per la sicurezza regionale”. “Affinché ciò accada” – ha chiarito Blinken “le elezioni nazionali devono andare avanti a dicembre e ciò significa che è necessario un accordo urgente su questioni costituzionali e legali che sosterrebbero quelle elezioni”. “E l’accordo di cessate il fuoco del 23 ottobre deve essere pienamente attuato, anche ritirando tutte le forze straniere dalla Libia”, ha concluso.

A nove anni dall’uccisione del console USA di Bengasi, Chris Stevens (sulla quale i repubblicani hanno avviato nuove indagini al Congresso) e a sette dalla chiusura dell’ambasciata di Tripoli, gli Stati Uniti hanno ricominciato a muovere i primi passi con la nomina di un inviato speciale, l’ambasciatore già operante da Tunisi Richard Norland, il primo dopo Jonathan Winer sotto Barack Obama e con la visita del vice segretario di Stato americano per gli affari del Vicino Oriente, Joey Hood, il più alto funzionario a recarsi a Tripoli dal 2014. Contemporaneamente, hanno avviato i preparativi per la riapertura dell’ambasciata a Tripoli.

“Il nostro intento è quello di iniziare a riprendere le operazioni in Libia non appena la situazione di sicurezza lo consentirà e abbiamo le misure di sicurezza necessarie in atto”, ha detto un portavoce del dipartimento di Stato alla NBC. “Il processo affinché ciò avvenga, tuttavia, richiede un’attenta pianificazione logistica e di sicurezza, oltre al coordinamento tra agenzie per soddisfare i requisiti di sicurezza e legali”. L’idea sottostante è che “è imbarazzante che non ci siamo”, ha detto quel funzionario: “È un male per la politica estera degli Stati Uniti. È un male per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. È un male per il paese ospitante. È un male per la regione”.

L’obiettivo, neanche poi tanto nascosto, è, anzitutto, quello di non commettere l’errore trumpiano di permettere che altri attori possano avvantaggiarsi del disimpegno USA: occorre quindi contenere l’avanzata della nel Mediterraneo, ma anche rimodulare quella turca. Certamente l’effetto Biden è alla base di questo nuovo impegno americano, ma anche della prosecuzione della strada di Berlino: solo una settimana fa, i Presidenti americano e russo erano a Ginevra e la Libia, sebbene non sia centrale nello scacchiere tra le due superpotenze, non è difficile immaginare che sia tornata come dossier nella più ampia agenda bilaterale. Convincere la Russia, che non ha mai ammesso che lo schieramento della Wagner ricada nelle responsabilità del Cremlino, potrebbe non essere poi così ostico. Ed anche per questo, oggi, in sede di Consiglio europeo, Francia e Germania hanno sottoposto agli altri Paesi membri, la proposta di un vertice UE-Russia.

E il Generale Haftar che, in occasione della Conferenza di Berlino, bloccava i giacimenti petroliferi e l’export libico? L’uomo forte della Cirenaica rimane un attore imprescindibile, soprattutto nell’ottica militare – almeno così pare se si guarda alla recente parata militare indetta a Bengasi- ma il suo peso politico è sempre meno importante. Di fatto, il suo supporto Internazionale si è molto ridimensionato. La sua principale minaccia, da questo punto di vista, potrebbe essere il ritiro dei sostegni esterni. Pur essendo presente nel governo di unità nazionale, non è detto che questo, alla lunga, possa bastargli. Pochi giorni fa, le sue forze hanno chiuso un valico di passaggio al confine algerino, hanno bloccato i lavori di riapertura della strada costiera Misurata-Sirte e hanno lanciato una campagna militare nel Fezzan, dove cellule dello Stato islamico sono tornate a farsi sentire tra il bacino di Murzuq e l’area che va da Umm al-Aranib a Tigrahi. Il 2 giugno scorso brigata Tariq bin Ziyad hanno arrestato tre importanti esponenti della cellula  dell’organizzazione terroristica Al-Qaeda nella regione di Tarut, nel sud-ovest della Libia, a 30 chilometri dalla città di Brak Al-Shati. Dei tre arrestati, uno era un mauritano, ex socio e scorta del terrorista Abdel Moneim Al-Hasnawi, noto come “Abu Talha”, il leader dell’organizzazione terroristica Al-Qaeda in Libia, ucciso dalle forze di Haftar nel 2019, anno in cui le forze di Haftar avevano già lanciato un’operazione simile, la Law Enforcement.

Nel Fezzan, mafie e gruppi terroristici portano avanti loschi traffici, di carburante in primis, verso i Paesi a Sud della Libia. Il carburante, proveniente da Misurata, arriva al deposito petrolifero di Sebha e da lì non finisce ai libici, che sono costretti a pagarlo quattro volte tanto, ma ai contrabbandieri, come confermato dal Presidente della compagnia petrolifera libica National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanallah.

Parlare di stabilizzazione della Libia non è una questione collaterale perché, come sappiamo, lì si gioca anche una difficile partita legata all’immigrazione. A livello di Consiglio europeo, si starebbe lavorando per formalizzare, alla Commissione una proposta per rafforzare i partneriati con il Paese africano e (suoi vicini) da cui provengono i migranti. Di questo però si riparlerebbe in autunno visto che, il mese prossimo la presidenza di turno dell’UE sarà assunta dalla Slovenia, guidata dal nazionalista Janez Jansa, e, a settembre, ci sono le elezioni federali in Germania, mentre nella primavera del 2022 ci sono le presidenziali in Francia.

Ma è al momento solo una proposta, mentre il rinnovo dell’intesa con Erdogan, fortemente voluta da Angela Merkel 6 anni fa per fermare i flussi dai Balcani diretti prevalentemente in Germania, avverrà in tempi più corti. Questo anche perché, finché non c’è un governo con cui dialogare, il ‘metodo Turchia’ è impraticabile, visto anche che si tratta di un confine marittimo. Ma applicare l’accordo ‘modello Turchia’ alla Libia sarebbe un errore perché i diritti dei migranti vengono garantiti nel primo Paese, nel secondo “le persone recuperate in mare vengono sbattute in centri di detenzione con un trattamento disumano. Non è accettabile”. Ad affermarlo è l’ Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi, a detta del quale “bisogna essere chiari ci sono persone che arrivano in Europa e non possono essere considerate rifugiati perché non sono minacciate in patria e dunque non hanno bisogno di protezione. Queste persone, in assenza di ostacoli, devono tornare nei loro Paesi. Sarebbe meglio che ad occuparsene fosse l’Europa, ma, giacché così non è, vanno bene anche gli accordi bilaterali di riammissione come quello tra Italia e Tunisia”. “Tra Turchia e Libia” – precisa Grandi – “ci sono molte differenze. La gente viene rimpatriata in Turchia con dei rischi, ma lì, in generale, c’è un buon sistema di accoglienza e protezione. In Libia non c’è nulla di tutto ciò e noi ne siamo fuori. Avere un accordo con Tripoli per limitare gli arrivi rafforzando la Guardia costiera libica non è di per sé una cattiva soluzione, ma bisogna rinforzare tutte le istituzioni, soprattutto quelle che si occupano dei migranti. Recuperare le persone in mare per sbatterle in quei centri di detenzione con un trattamento disumano non è accettabile. Se ci fosse un accordo che garantisce il rispetto dei diritti sarebbe un’altra cosa”.

Inoltre, rispetto al ‘metodo Turchia’, la differenza, stando alle voci di corridoio, potrebbe essere anche in termini di denaro da destinare all’Africa per fermare i flussi illegali e costruire corridori umanitari. Al momento, la Commissione è rimasta al Trust Fund per l’Africa, già prorogato di un anno nel 2020 e in scadenza a fine 2021, con il ‘Neighbourhood, Development and International Cooperation (NDICI)’. Un fondo di 79,5 miliardi di euro, di cui solo il 10 per cento, quindi 8 miliardi, finalizzato a tutte le rotte migratorie. Se ad Ankara ne sono destinati 6, sarebbero circa 2 quelli che l’UE potrebbe stanziare per i Paesi africani.

Ciò detto, non bisogna illudersi che la Conferenza di Berlino ‘bis’ sia la panacea, è solo il secondo passo, e forse neanche così sconvolgente, stando alle sue conclusioni che ribadisce intenzioni, ma lascia al terreno la maggior importanza. Eppure, dal dialogo non si può prescindere e, in questo senso, la vera stabilità può essere ottenuta solo se ogni attore fa la sua parte.