“Ci sarà più controllo, più repressione del dissenso e dell’attivismo da parte del nuovo governo”. Intervista ad Hadi Ghaemi, Direttore esecutivo del Center of Human Rights in Iran (CHRI)

 

«Ho sempre difeso i diritti umani», ha dichiarato, questa mattina, nel corso della sua prima conferenza stampa da neo-Presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi, già capo della Magistratura, uscito vincitore dalle elezioni tenutesi venerdì scorso con il 61.9% dei voti. Un plebiscito, qualcuno potrebbe pensare senza considerare la partecipazione che, come era previsto, ha a mala pena sfiorato il 48%, il peggior dato dall’inizio della Rivoluzione Islamica. In realtà, un’elezione da molti definita una ‘farsa’ in quanto pilotata dalla Leaderhip Suprema, Ali Khamenei, che, tramite il Consiglio dei Guardiani, ha escluso tutti i competitor più problematici e ha costretto, di fatto, all’astensione anche i cittadini più impegnati e spianando la strada al candidato favorito, Raisi appunto.
Una «selezione», dunque, più che un’elezione, l’ha definita ieri, in un comunicato, Hadi Ghaemi, Direttore esecutivo del Center of Human Rights in Iran (CHRI), mettendo in luce quello che è apparso il primo diritto calpestato in questa elezione, cioè il diritto al voto, che, sebbene mai esercitato nella sua pienezza nella Repubblica Islamica, ha, tuttavia, sempre consentito agli iraniani di esprimersi, anche se solo sui candidati che il Consiglio dei Guardiani, e quindi la Guida Suprema, decidevano di far concorrere.
Ma la vittoria di Ebrahim Raisi alla guida del governo iraniano fa sorgere perplessità anche su un altro fronte, sul futuro dei diritti umani in Iran: «Come Presidente, Raisi ha il dovere di far rispettare la Costituzione e difendere i diritti dei cittadini, eppure come capo della magistratura, è stato responsabile di innumerevoli e gravi violazioni dei diritti umani da parte del potere giudiziario». «Il nuovo titolo non assolve Raisi dal lungo record di violazioni dei diritti umani», ha ricordato ieri nella nota Hadi Ghaemi.
Dubbi che il Presidente stesso ha cercato oggi di fugare: «Sono orgoglioso del fatto che da procuratore ho difeso i diritti, la sicurezza e il benessere della Nazione. Un procuratore o un giudice che protegge i diritti e la sicurezza della nazione deve essere elogiato perché ha protetto la sicurezza del Paese».
Parole controverse che si scontrano con ciò che è noto della sua biografia. Attualmente Presidente della Corte Costituzionale, è un religioso e un giurista 61enne, nato da una famiglia di chierici. Ha studiato nei seminari di Mashhad e successivamente di Qom, e ha iniziato la sua carriera all’età di 21 anni, nel 1989, come procuratore distrettuale della città di Karaj, e poco dopo, è diventato procuratore distrettuale di Hamedan, mentre, allo stesso tempo, continuava a prestare servizio come procuratore distrettuale di Karaj. Gli anni successivi sono quelli della scalata al successo, fino a quando è diventato vice procuratore distrettuale di Teheran, e successivamente procuratore distrettuale di Teheran fino al 1994. Nel 1988, però, alla fine della sanguinosa guerra di otto anni tra Iraq e Iran,  avrebbe fatto parte del cosiddetto ‘Comitato della morte’, un quartetto di religiosi che si sarebbe macchiato delle esecuzioni di migliaia di prigionieri politici per ordine dell’allora leader supremo, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Da qui le sanzioni della UE e degli Stati Uniti che ne fanno un ‘Presidente sanzionato’.

Secondo la ‘BBC‘, «dopo che l’allora leader supremo dell’Iran, Ruhollah Khomeini, ha accettato un cessate il fuoco mediato dalle Nazioni Unite, i membri del gruppo di opposizione iraniano Mujahedeen-e-Khalq, pesantemente armati da Saddam Hussein, hanno fatto irruzione attraverso il confine iraniano in un attacco a sorpresa. L’Iran alla fine ha fermato il loro assalto, ma l’attacco ha preparato il terreno per i falsi processi di prigionieri politici, militanti e altri. Ad alcuni che si sono presentati è stato chiesto di identificarsi. Secondo un rapporto del 1990 di Amnesty International, coloro che hanno risposto ‘mujaheddin’ sono stati mandati a morte, mentre altri sono stati interrogati sulla loro disponibilità a ‘ripulire i campi minati per l’esercito della Repubblica islamica’. I gruppi per i diritti internazionali stimano che siano state giustiziate fino a 5.000 persone, mentre il Mujahedeen-e-Khalq stima il numero in 30.000. L’Iran non ha mai riconosciuto pienamente le esecuzioni, apparentemente eseguite su ordine di Khomeini, anche se alcuni sostengono che altri alti funzionari fossero effettivamente in carica nei mesi prima della sua morte nel 1989. Raisi, allora vice procuratore a Teheran, avrebbe preso parte ad alcuni degli incontri nelle carceri di Evin e Gohardasht. Una registrazione di un incontro di Raisi e del suo capo che incontra il famoso Grande Ayatollah Hossein Ali Montazeri è trapelato nel 2016» nella quale si sentirebbe Montazeri affermare: «Credo che questo sia il più grande crimine commesso nella Repubblica islamica dal [1979] la rivoluzione e la storia ci condanneranno per questo…. La storia vi annoterà come criminali». Raisi non ha mai riconosciuto pubblicamente il suo ruolo nelle esecuzioni neanche durante la campagna per la presidenza nel 2017. Nessuno in Iran si è mai assunto la responsabilità di quanto accaduto,

«Sapevi che le vite di centinaia di donne come me sono state distrutte in assenza dei loro cari a causa dei verdetti di tuo marito? Dormi anche tu con la coscienza pulita, come tuo marito?» si legge in una straziante lettera aperta che, nel 2017, all’epoca della prima campagna presidenziale di Raisi, Effat Mahbaz, vedova di un prigioniero politico ucciso durante le esecuzioni di massa negli anni ’80 e lei stessa ex prigioniera politica, ha pubblicato una lettera aperta alla moglie del neo Presidente iraniano, Jamila Alam al-Hoda.

La richiesta di responsabilità degli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani in merito alle esecuzioni di massa del 1988 è stata comunicata al governo iraniano nel settembre 2020. «Siamo preoccupati che la situazione possa equivalere a crimini contro l’umanità», hanno affermato gli esperti delle Nazioni Unite, aggiungendo che se il governo iraniano ha continuato a rifiutarsi di indagare sui responsabili, la comunità internazionale dovrebbe «stabilire un’indagine internazionale».

Dal 2004 al 2014 è stato vice capo della magistratura e dal 2014 al 2016 è stato procuratore generale. Dal 2012 è anche capo del tribunale clericale speciale. Altresì, Raisi è stato anche nominato dall’ayatollah Khamenei, custode dell’Astan Quds Razavi (a Mashhad), la più ricca istituzione di beneficenza del Paese che non è tenuta a rivelare i suoi dati finanziari ed è gestita da funzionari e religiosi che riferiscono solo al leader supremo. In seguito, il 7 marzo 2019, Ebrahim Raisi è stato nominato Presidente della Corte suprema dell’Iran, mentre il suo nome era sulla lista delle sanzioni dell’UE e degli Stati Uniti per violazioni dei diritti umani. Negli ultimi due anni, da quando ha assunto la guida delle magistratura, ha diretto l’esecuzione di 251 persone nel 2019 e 267 persone nel 2020, e giù decine di esecuzioni nel 2021, sottolinea il National Council of Resistance of Iran. Amnesty International ha riferito anche che «la pena di morte è stata sempre più usata come arma di repressione politica contro manifestanti dissidenti e membri di minoranze etniche», durante il mandato di Raisi.

Secondo il CHRI, in tema di esecuzioni, negli ultimi due anni, «l’Iran è secondo solo alla Cina per numero assoluto di esecuzioni segnalate in tutto il mondo ed è stato responsabile di oltre la metà nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa; rimane tra una piccola minoranza di paesi che impongono la pena di morte contro i minorenni autori di reato è sempre in Iran sono stati giustiziati manifestanti e dissidenti, compreso il dissidente Ruhollah Zam, rapito dall’Iraq, così come a essere giustiziati in modo sproporzionato sono stati anche raniani di etnia non persiana, inclusi prigionieri politici arabi, baluci e curdi». Addirittura, sostiene il Centro diretto da Hadi Ghaemi, «per la prima volta negli ultimi due decenni, un uomo è stato giustiziato per consumo di alcol e le esecuzioni continuano ad essere eseguite di routine dopo procedimenti giudiziari privi di un giusto processo e processi non conformi agli standard internazionali sul giusto processo».

Per quanto concerne la persecuzione delle minoranze religiose – afferma il CHRI – «cristiani convertiti e membri della fede baha’i hanno continuato ad essere arrestati e condannati al carcere per il loro credo; ai  baha’i è continuato a essere negato l’accesso all’istruzione superiore».

Inoltre, denuncia il CHRI, «le forze di sicurezza dello Stato hanno ucciso impunemente almeno 300 manifestanti e passanti durante le manifestazioni di piazza di massa nel novembre 2019. Nessun funzionario di alto livello è stato ritenuto responsabile per l’abbattimento di un aereo passeggeri da parte delle Guardie rivoluzionarie, che ha ucciso 176 persone. Gli interrogatori hanno continuato ad abusare dei prigionieri impunemente, anche attraverso la tortura, la negazione delle cure mediche e l’estrazione forzata di false ‘confessioni’».

A proposito della condizione dei detenuti, il CHRI ricorda che una settimana prima che Ebrahim Raisi si candidasse alla presidenza, la famiglia di Navid Afkari, un pugile giustiziato con il benestare di Raisi, ha presentato una petizione alla corte suprema per chiedere una revisione giudiziaria dei casi contro di lui e i suoi due fratelli i quali, ancora detenuti, non avevano potuto accedere alle cure mediche adeguate nonostante abbiano subito gravi ferite durante la custodia dello Stato. Sono anche stati tenuti in isolamento per quasi nove mesi. «Secondo l’opinione del medico legale, mio ​​fratello Habib, durante la sua detenzione nell’ufficio dell’intelligence, ha riportato dita delle mani e dei piedi rotte, un polso rotto che non è guarito e una spalla rotta, e mio fratello Vahid soffre di ferite a il collo e la mano a causa di un tentato suicidio in segno di protesta contro le torture fisiche e psicologiche. Sono stati in isolamento per 279 giorni e continuano a essere loro negati il ​​trattamento», ha reso noto Saeed Afkari ricordando che anche sua madre, suo padre, altri parenti e attivisti sono stati violentemente arrestati (e poi rilasciati) da agenti in borghese mentre si radunavano il 12 giugno davanti alla prigione di Abdelabad a Shiraz, dove i fratelli sono detenuti per celebrare il 280° giorno di isolamento di Vahid e Habib.

Il 27enne campione di wrestling Navid Afkari, vincitore di diverse medaglie di lotta libera e greco-romana in tornei iraniani e internazionali, e suo fratello Vahid Afkari erano stati arrestati a Shiraz il 17 settembre 2018. Loro fratello Habib Afkari era stato arrestato tre mesi dopo. I primi erano stati accusati di «fare guerra contro lo Stato, corruzione sulla terra e formare un gruppo anti-rivoluzionario» per aver partecipato alle proteste di strada che hanno avuto luogo nella città in quel momento e per aver presumibilmente ucciso una guardia di sicurezza il 2 agosto, 2018. Niente affatto chiare sono state invece le accuse contro Habib Afkari, condannato a 27,3 anni di carcere, contro i 25 anni comminati a Vahid. Entrambi sono stati anche condannati a 74 frustate.

Nonostante, nel settembre 2020, il suo avvocato avesse dichiarato che i filmati delle telecamere di sicurezza dimostravano che il pugile non poteva aver commesso l’omicidio, Navid è stato impiccato nella prigione di Adelabad a Shiraz. In precedenza aveva presentato una denuncia alla magistratura il 13 settembre 2019, sostenendo di essere stato costretto a fornire false ‘confessioni’ mentre era sottoposto alle «più gravi torture fisiche e psicologiche» durante quasi 50 giorni di detenzione di polizia. Le pressioni erano così intense che l’altro fratello, Vahid, aveva tentato il suicidio dopo essere stato assistito dai funzionari della prigione di Adelabad che gli hanno dato una tazza di vetro per tagliargli la gola.

Numerose sono state, nell’ultimo biennio – sottolinea il CHRI – «le persone hanno continuato a essere processate per attivismo pacifico e i prigionieri politici, in particolare le donne, sono stati sottoposti a trattamenti più duri, tra cui: tortura fisica e psicologica; reclusione in isolamento prolungato; confessioni forzate; rifiuto di cure mediche; trasferimenti illeciti in carceri lontani dai propri familiari; assalto agli avvocati difensori indipendenti».

Secondo le indagini del CHRI, dal 2003 almeno 32 prigionieri politici, tutti detenuti in Iran dopo essere stati accusati di aver criticato le politiche statali, sono morti in custodia statale. Le morti sarebbero avvenute a causa di percosse durante la detenzione, negazione di cure mediche estremamente necessarie o altra negligenza grave o maltrattamenti da parte delle autorità.

Da quando il leader supremo Ali Khamenei ha nominato Raisi capo della magistratura nel marzo 2019, almeno tre prigionieri politici – Sassan Niknafs, Alireza Shirmohammadali Behnam Mahjoubi – sono morti in custodia statale, sebbene questo numero includa solo i decessi segnalati e non includa il numero significativamente più alto di morte per esecuzione o morte di prigionieri non politici.

Sassan Niknafs, in particolare, stava scontando, dal 27 luglio 2020, una pena detentiva di cinque anni con l’accusa di ‘assemblea e collusione contro la sicurezza nazionale’, ‘propaganda contro lo Stato’ e contro ‘il fondatore della Repubblica islamica e il leader supremo’. Era stato imprigionato nonostante mostrasse molteplici problemi di salute fisica e mentale, sarebbe morto nell’ospedale di Firouzabadi il 5 giugno dopo aver mostrato ‘perdita di coscienza’ mentre era sotto osservazione presso i medici del carcere. «La morte di Sassan Niknafs potrebbe essere un omicidio deliberato a causa della mancanza di attenzione da parte delle autorità per la sua incapacità di sopportare la detenzione» – ha twittato il 7 giugno l’avvocato iraniano per i diritti umani, Saeid Dehghan – «In base all’articolo 290 del codice penale islamico, sarebbe considerato omicidio intenzionale se una persona commette deliberatamente un atto che porta a un crimine non intenzionale ma commesso con la consapevolezza che l’azione potrebbe tradursi in un crimine».

Situazione altrettanto complessa – segnala il CHRI – vivono gli «avvocati difensori incentrati sui diritti umani hanno continuato a essere incarcerati e a impedire loro di svolgere il proprio lavoro. Almeno quattro avvocati per i diritti umani sono rimasti in carcere. Sono state imposte nuove norme per minare l’indipendenza dell’Ordine degli avvocati iraniano».

Una storia esemplare è quella dell’avvocata e attivista iraniana militante per i diritti umani Nasrin Sotoudeh. Nata nel 1963 a Teheran in una famiglia iraniana ‘religiosa, borghese’, iniziò a studiare diritto internazionale alla Shahid Beheshti University, rinunciando all’ispirazione ‘filosofica’ per mancanza dei voti alti necessari per l’ammissione. Dopo aver sostenuto e superato l’esame di avvocato nel ’95, ha dovuto aspettare 8 anni per esercitare la professione.

Sposatasi nel ’94 con il marito Reza Khandan, da cui ha avuto due figli, Mehraveh e Nima, Nasrin intraprende la sua professione legale, rappresentando in tribunale giornalisti e attivisti come Heshmat Tabarzadi, Nahid Keshavarz, Parvin Ardalan, Roya TolouiKourosh Zaim, Isa Saharkhiz e Omid Memarian. Nel 2010 è stata arrestata con l’accusa di aver diffuso menzogne contro lo stato e per aver cooperato con il Defenders of Human Rights Center ed è stata condannata a 11 anni di prigione e interdetta dai pubblici uffici. La sua pena è stata successivamente ridotta e Nasrin è poi tornata in libertà nel 2013. Nel 2018 è stata nuovamente arrestata con l’accusa di ‘reati di sicurezza nazionale’. La condanna ricevuta nel 2019 è stata di 38 anni di prigione e 148 frustrate per ‘incitamento alla corruzione e alla prostituzione’ e per atto peccaminoso perché non indossava il velo in una manifestazione. La pena è stata poi ridotta a 12 anni, ma a causa dei  problemi di salute conseguenti allo sciopero della fame fatto per il rilascio dei prigionieri politici nelle carceri iraniane, prive di alcun genere di protezione contro il Covid-19, l’8 novembre 2020 è stata rilasciata momentaneamente per facilitare le cure.

Ma la repressione nei confronti delle donne è aspra, anche al di là del loro impegno professionale e civile. Il regime iraniano detiene, infatti, il record mondiale di esecuzioni di donne: a fine 2020, stando a quanto denunciato dal Comitato delle donne del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran. Ma, sottolinea Cnri-Femmes, i numeri reali sarebbero ben più importanti in quanto la maggior parte delle esecuzioni avvengono di nascosto. Le accuse contro queste donne (la maggior parte madri), detenute soprattutto nel braccio della morte nella prigione di Qarchak, sarebbero da ricondurre per lo più all’essersi difese da mariti violenti. Quello che, peraltro, il 27 luglio 2019, la scrittrice iraniana, incarcerata per difendere i diritti umani, Golrokh Ebrahimi Iraee, aveva affermato in una lettera: «Quando ho incontrato donne condannate per omicidio, ho saputo che una grande percentuale di loro aveva ucciso il marito – sul posto o premeditatamente – dopo anni di umiliazioni, insulti, percosse e persino torture e perché erano state private del loro diritto al divorzio. Se una delle loro ripetute richieste di divorzio fosse stata concessa, queste donne non avrebbero commesso un crimine. »

A dicembre 2020, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, l’Iran deteneva almeno 15 giornalisti in prigione e aveva preso di mira giornalisti che lavoravano all’estero e molestato le loro famiglie a casa. Nel 2020, PEN America ha scoperto che l’Iran ha imprigionato il quarto numero più alto di scrittori e intellettuali pubblici nel mondo, con 19 incarcerati in tutto il paese. Professionisti creativi, come scrittori, musicisti, registi, fotografi e persino modelli di moda sono stati presi di mira per la loro espressione. Le donne e le persone LGBTQIA+ subiscono un’intensa persecuzione a causa della loro identità.

Sul tema dei diritti umani si è espresso, nelle ultime ore, anche il Ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, secondo il quale «l’Iran deve decidere che strada percorrere. Vuole che il popolo iraniano continui a soffrire per le sanzioni economiche? L’impressione che ricaviamo dai negoziati è che Teheran sia disponibile, di base, a incamminarsi su una strada costruttiva. Ma si vedrà dalla sua disponibilità a tornare insieme agli americani al rispetto degli accordi sul nucleare. La situazione dei diritti umani in Iran è inaccettabileMa non è affatto migliorata durante il periodo della massima pressione esercitata da Donald Trump. Anzi, all’epoca penso che abbiamo sprecato molte occasioni di influire su Teheran. Un ulteriore isolamento dell’Iran peggiorerebbe anche la situazione dei diritti umaniPerciò un ritorno all’accordo sul nucleare può essere un’opportunità anche da questo punto di vista».

Cosa dovrebbe fare allora la Comunità Internazionale, Stati Uniti in primis? «Gli sforzi per cercare di migliorare l’eccezionale situazione dei diritti umani in Iran dovrebbero avvenire parallelamente ai negoziati su questioni di sicurezza, riconoscendo pienamente che gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti non possono essere soddisfatti se la sicurezza umana del popolo iraniano non viene affrontata» – si legge nella lettera che alcune associazioni umanitarie tra cui il CHRI hanno inviato al Presidente americano, Joe Biden – «Gli Stati Uniti dovrebbero chiarire che un’attenzione focalizzata e persistente ai diritti umani sarà una componente chiave della politica estera americana nei confronti dell’Iran. I miglioramenti nella libertà di espressione e in altri diritti umani sono fondamentali per rafforzare la responsabilità del governo iraniano nei confronti dei suoi cittadini e a livello internazionale. Con la ripresa dei colloqui ad alto livello con l’Iran, dovrebbe essere sviluppato e portato avanti un forte pilastro dei diritti umani con richieste concrete e una strategia per raggiungerli». Il CHRI ed altre associazioni umanitarie suggeriscono, ad esempio, «la definizione di obiettivi e parametri di riferimento concreti in materia di diritti umani da perseguire in discussioni parallele al JCPOA e ad altre questioni di interesse con l’Iran; mantenere alta l’attenzione negli Stati Uniti sulle violazioni dei diritti all’interno dell’Iran, compresa la richiesta del rilascio immediato e incondizionato di scrittori, giornalisti e altri prigionieri detenuti illegalmente; richiamare l’attenzione sul sistema elettorale non democratico dell’Iran; e chiedendo riforme legali e giudiziarie che consentano la libertà di espressione, riunione e giusto processo; rafforzare l’agenda multilaterale sull’Iran presso il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, compreso il sostegno a un’indagine indipendente sulle proteste del novembre 2019 e sulle successive violenze; garantire la cooperazione dell’Iran con le procedure speciali delle Nazioni Unite e l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani, compreso l’ingresso nel paese del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, Javaid Rehman, e lavorare per l’istituzione di un ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani diritti nel paese; imposizione di sanzioni mirate ai violatori dei diritti umani iraniani fino a quando non saranno soddisfatte le condizioni verificabili dei diritti umani».

È, dunque, questo quello che dovrebbe la Comunità Internazionale per impedire all’Iran di Raisi di regredire nella salvaguardia dei diritti umani? E come cambierà, se cambierà,  la Repubblica Islamica nei confronti di questo dossier con Raisi alla presidenza? Hadi Ghaemi, Direttore esecutivo del Center of Human Rights in Iran (CHRI), ci ha chiarito le sue idee a riguardo.

 

Il CHRI sostiene che queste elezioni sono state più una ‘selezione’ che una elezioni. Il diritto di voto è la prima vera vittima dell’era ‘Raisi’?

Sì, queste elezioni potrebbero essere la fine delle elezioni competitive in Iran. Le elezioni in Iran non sono mai state libere o eque, ma prima c’era un certo grado di competizione. Ora il pilastro repubblicano dello stato è tutt’altro che uno spettacolo con risultati predeterminati in anticipo.

Voi affermate che “come Presidente, Raisi ha il dovere di far rispettare la Costituzione e difendere i diritti dei cittadini, eppure come capo della magistratura, è stato responsabile di innumerevoli e gravi violazioni dei diritti umani da parte del potere giudiziario”. “Il nuovo titolo” – aggiungi – “non assolve Raisi dal lungo record di violazioni dei diritti umani” : è nota la sua partecipazione, nel 1988, al ‘Comitato della morte’ e, dalla sua nomina a capo della magistratura nel 2019, la repressione violenta e le violazioni sono aumentate. Con Raisi, l’Iran regredirà sul fronte dei diritti umani? Ci sarà molta differenza rispetto a quando Rouhani era presidente?

Ci sarà più repressione del dissenso e dell’attivismo. È già abbastanza repressivo poiché Rouhani non ha mai sostenuto le libertà fondamentali. Sul fronte delle restrizioni culturali e sociali come la censura e il controllo del comportamento dell’individuo in pubblico, mi aspetto di vedere ancora più controllo e repressione da parte del nuovo governo.

Nello specifico, come cambierà la situazione per oppositori politici, attivisti, donne, giovani, comunità lgbt, detenuti, giornalisti? 

Se il record di Raisi come capo della magistratura è indicativo, dovremmo aspettarci più repressione e più incarcerazioni per critici e dissidenti di ogni ceto sociale.

Raisi ha dichiarato di voler ripristinare la Garsht Ershad, la polizia morale. È un brutto segno? Che ne pensi?

Sì, davvero un brutto segno e indica più repressione culturale e sociale dei comuni cittadini.

Le pene di morte e le esecuzioni aumenteranno con Raisi alla presidenza?

Molto probabilmente, ma bisogna vedere chi si assumerà la guida della Magistratura. Sulla base dei dati passati, c’è un grande potenziale per un aumento della violenza di stato attraverso esecuzioni e persino uccisioni di manifestanti nelle strade, proprio come nel novembre 2019.

Anche le repressioni violente delle proteste si intensificheranno?

Si

Il popolo iraniano è consapevole dei rischi per i diritti umani nel prossimo futuro?

Certamente lo sono e la bassa affluenza alle elezioni ne è un segno.

I conservatori detengono tutti i poteri dello Stato mentre i riformisti perdono anche il governo. Come le categorie più a rischio (oppositori politici, attivisti, donne, giovani, comunità lgbt, detenuti, giornalisti) potranno difendere i diritti umani? Con quali strumenti?

Avranno pochissimi strumenti all’interno del Paese. Ma man mano che il loro numero aumenta e se riemergono grandi proteste pubbliche, allora il confronto tra molti segmenti della società e lo stato diventerà la principale dinamica interna.

“Ora più che mai dobbiamo tenere i riflettori sull’Iran e sul nuovo presidente in modo che ulteriori violazioni dei diritti non passino inosservate”, hai dichiarato. Lo scorso 11 febbraio il Congresso statunitense ha approvato con il sostegno di 112 membri, una risoluzione in cui viene espresso vivo “sostegno al desiderio del popolo iraniano per una Repubblica dell’Iran democratica, laica e non nucleare” e la forte condanna per “le violazioni dei diritti umani e il terrorismo sponsorizzato dallo Stato, perpetrati dal governo iraniano”. L’amministrazione Biden è molto attenta al dossier dei diritti umani. Allora, cosa dovrebbe fare la Comunità Internazionale, USA ed Europa in primis? Bisognerebbe inserire i diritti umani nelle trattative sull’accordo nucleare? 

La comunità internazionale dovrebbe essere molto consapevole e vigile nei confronti del potenziale di aumento della violenza di stato in Iran e assumere una posizione forte nei suoi confronti. Gli Stati Uniti dovrebbero dare la priorità ai diritti umani in Iran e perseguire una politica globale su di esso parallelamente ai negoziati sul nucleare.

Quindi, riterrebbe opportuno il mantenimento delle sanzioni su Raisi, fermo restando la necessità di continuare a fare indagini?

Le sanzioni a Raisi e a tutte le violazioni dei diritti umani vanno certamente mantenute. Eliminarle manderebbe un messaggio assolutamente sbagliato al governo iraniano.