Teheran prova ad impedire la degenerazione del conflitto, mantenendosi, possibilmente, equidistante da Erevan e Baku. I suoi timori sono più interni che esterni

 

“Ripristinare la stabilità” nella regione, è la speranza che, ieri, Hassan Rouhani, il Presidente dell’Iran, che condivide i confini sia con l’Armeniache con l’Azerbaigian, ha espresso, dopo pochi giorni di pesanti scontri, i più accesi degli ultimi anni (anche dell’ultima grande escalation risalente al 2016, quando l’Azerbaigian ha reclamato il villaggio strategico di Çocuq Mərcanlı) – per la cui cessazione si erano già appellati, tra gli altri, Unione Europea, Russia, Stati Uniti –  sulla contesa enclave del Nagorno-Karabakh, enclave ufficialmente parte dell’Azerbaigian, ma è gestita da armeni, in seguito ad una guerra tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, che l’ha portata a staccarsene ufficiosamente, pur non venendo riconosciuta, insieme all’autoproclamato governo della ‘Repubblica dell’Artsakh’, come Paese indipendente da nessuna Nazione, tranne l’Armenia. “Dobbiamo stare attenti che la guerra tra Armenia e Azerbaigian non diventi una guerra regionale”, ha avvertito il leader iraniano, sottolineando che “la pace è la base del nostro lavoro e speriamo di ripristinare la stabilità nella regione in modo pacifico”.

La presa di posizione del Presidente ha fatto seguito alle notizie diffuse sul finire della scorsa settimana dall’agenzia statale Mehr News Agency (MNA) secondo cui “oltre venti colpi di mortaio del conflitto militare tra Armenia e Azerbaigian sulla regione del Nagorno-Karabakh hanno colpito la regione iraniana di Aslandoz nella provincia nord-occidentale di Ardabil”.

“Totalmente inaccettabile” ha affermato Rouhani, chiarendo che “la nostra priorità è la sicurezza delle nostre città e dei nostri villaggi”. Ma già giovedì, il ferimento di un bambino di sei anni a causa di questi colpi vaganti aveva spinto il  Portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh a reagire duramente: la Repubblica Islamica “non tollererà” che il conflitto si estenda ai suoi confini e, mediante lettere di protesta ai due Paesi, “abbiamo chiesto che venga rispettata la sovranità della Repubblica Islamica (…) per prevenire la ripetizione di tali incidenti inaccettabili”.

Anche il Ministro della Difesa iraniano, il brigadiere generale Amir Hatami, era intervenuto avvisando che l’esercito è pronto a intervenire “con azioni più forti” e poche ore fa il Comandante delle guardie di frontiera iraniane, Qasem Rezaei, ha reso noto che le sue forze sono” vigili e sono entrate nella formazione necessaria. Stanno monitorando e controllando completamente i confini”.

Ciononostante, la parola chiave dell’Iran in questo frangente rimane mediazione, chiedendo un cessate il fuoco e un dialogo immediati, anche perché Teheran rispetta le quattro risoluzioni ONU (822 del 30 aprile del 1993 a cui seguirono le 853, 874, 884) che stabiliscono che il Nagorno-Karabakh, sotto il controllo di armeni di etnia armena sostenuti dall’Armenia, è parte dell’Azerbaigian e, dunque, che le terre azere occupate devono essere restituite.

A motivo di ciò, Rouhani, dopo una telefonata con il Primo Ministro armeno Nikol Pashynianper chiedere la risoluzione del conflitto “attraverso il discorso politico e le leggi internazionali”, è stato costretto a ribadire in una conversazione con l’omologo azero Ilham Aliyevil sostegno all’integrità territoriale dell’Azerbaigian: “La sicurezza, la stabilità e la calma nella regione, in particolare lungo i confini settentrionali (dell’Iran), sono molto importanti per noi”, ha detto il Presidente iraniano, sottolineando che un tale conflitto e la persistenza dell’insicurezza al confine non dovrebbero preparare il terreno per attività di gruppi terroristici. “Consideriamo la sicurezza dell’Iran come la sicurezza dell’Azerbaigian, e non consentiremo alla controversia di creare insicurezza negli stati vicini”, gli ha risposto Alyev nel tentativo di rassicurare il suo interlocutore, convinto che “la pace nella regione è molto significativa. Tuttavia, anche l’integrità territoriale dei vicini è molto importante per noi”.

Pleonastico? Per niente se si considera il vespaio che hanno suscitato alcuni video circolanti sui social media che mostravano il trasferimento di armi e attrezzature militari in Armenia su camion che passavano attraverso un valico di confine iraniano. Questo aveva dato adito alle accuse contro l’Iran, colpevole di appoggiare l’Armenia, che a sua volta è sostenuta dalla Russia. In riferimento a queste sospette spedizioni, un articolo del 28 settembre su un sito web collegato ai servizi di sicurezza azeri aveva chiesto “Chi è il nostro amico e chi è il nostro nemico?” esortando “una posizione più intelligibile e decisiva” da parte iraniana

Teheran aveva immediatamente negato tali accuse mercoledì 30 settembre, tramite il capo di stato maggiore del Presidente Rouhani, Mahmoud Vaezi, bollandole come “voci infondate” volte a “distruggere le relazioni fraterne e amichevoli tra Iran e Azerbaigian”. “Il transito di articoli non militari convenzionali attraverso l’Iran verso i paesi vicini è sempre stato in corso”, aveva tenuto il portavoce in una dichiarazione martedì “I camion menzionati stanno attraversando l’Iran semplicemente nello stesso quadro”, afferma la dichiarazione. Il portavoce ha anche aggiunto: “La Repubblica Islamica dell’Iran monitora e controlla attentamente l’andamento del trasporto e del transito di merci verso altri paesi [attraverso il suo suolo]e non consente che il suolo del nostro paese venga utilizzato per il trasferimento di armi e munizioni di sorta. “

Anche l’ambasciata iraniana in Azerbaigian ha negato i trasferimenti di armi all’Armenia: “L’ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran a Baku nega fermamente la pubblicazione e la ripetizione di notizie infondate riguardanti il ​​trasferimento di armi o forze affiliate a gruppi terroristici dal territorio della Repubblica islamica dell’Iran all’Armenia”, ha reagito la sede diplomatica in un comunicato , accusando “terze parti” di cercare di offuscare l’immagine dell’Iran in Azerbaigian.

Inoltre, mettendo apertamente in dubbio l’autenticità delle immagini incriminate, la televisione di stato iraniana aveva trasmesso altri filmati, questa volta dal terminal di confine di Nordooz dove si trovavano gli automezzi in questione, che trasportavano pezzi di ricambio per veicoli e non armi. Queste riprese hanno dimostrato che si trattava di camion russi Kamaz, che un funzionario locale ha detto erano stati acquistati dall’Armenia prima del conflitto e venivano trasportati attraverso l’Iran.

Come se non bastasse, gli imam Hassan Alemi, Mohammad Ali Al-i Hashem, Ali Khatami e Mehdi Qoreishi, rappresentanti della Guida Suprema iraniana, l’Ayatollah Ali Khamenei(anch’egli di etnia azera), rispettivamente nelle province di lingua turca Ardabil, East Azerbaijan, West Azerbaijan e Zanjan, hanno poi rilasciato una dichiarazione congiunta a sostegno della Repubblica dell’Azerbaijan.

“Non c’è dubbio che il Nagorno-Karabakh appartenga all’Azerbaigian e la mossa del suo governo per riconquistare la regione è completamente legale, secondo la Shari’a, e in linea con quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, si legge nel documento, ammettendo che “il governo azero ha agito in modo completamente legale e religioso nel riconquistare queste terre e ha implementato quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU” e definendo i soldati azerbaigiani uccisi nel conflitto del Nagorno-Karabakh come “martiri della grande nazione dell’Azerbaigian” che meritano “alti ranghi celesti”.

“Sfortunatamente, i nemici del rapporto tra i due Paesi amici (Iran e Azerbaijan) hanno recentemente sollevato clamore con pretesti e accusato la Repubblica islamica di tradimento (contro l’Azerbaigian)”, viene evidenziato nel comunicato, mettendo in guardia contro la “guerra psicologica dei nemici”. . “

Il Ministero degli Esteri iraniano guidato da Mohammad Javad Zarif ha esortato i Paesi in guerra a “interrompere immediatamente gli scontri e avviare un dialogo” e ha precisato che “la Repubblica islamica dell’Iran sta osservando in modo preoccupante e da vicino gli scontri tra la Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica di Armenia e, mentre sollecita la moderazione, esorta i due Paesi a interrompere immediatamente gli scontri e avviare un dialogo”.

In questo sforzo per mediare un cessate il fuoco, Teheran si era già impegnata nel 1992 per vederlo violato dalle milizie armene entro poche ore. Sebbene un altro cessate il fuoco sia stato poi mediato nel 1994 dopo numerosi cicli di negoziati, nonché la mediazione regionale e internazionale, in particolare da parte del gruppo OSCE di Minsk, presieduto da Stati Uniti, Francia e Russia, il conflitto ha continuato a covare sotto la brace.

Come noto, l’area del Caucaso meridionale teatro di questo conflitto è racchiuso tra la Russia a nord, l’Iran a sud e la Turchia a ovest. Se Mosca, da sempre importante mediatore in questo conflitto, è vicina all’Armenia nell’ambito di un’alleanza per la sicurezza regionale, la Collective Security Treaty Organization (CSTO – che riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) grazie alla quale ha una base a Gumri, dove sono schierati 3.000 soldati e che è dotata di missili antiaerei S-300, e una base area ad Erebuni dove vi sono 18 Mig -29, Ankara, storicamente (sono circa 1,5 milioni gli armeni uccisi sotto il dominio ottomano negli otto anni tra il 1915 e il 1923, genocidio negato dalla Turchia sia nelle cifre sia nell’organizzazione sistematica, ma riconosciuto ufficialmente da oltre trenta governi, come USA, Russia e Germania), tra i più estremi rivali dell’Armenia, ha offerto il suo deciso appoggio all’Azerbaigian. Come? Inviando, qualche settimana fa, consiglieri militari e ben 4mila mercenari siriani da Afrin, truppe facenti parte del gruppo islamista filo-ottomano dal nome ‘Brigata del Sultano Murad’, al soldo di Ankara; impiegando un F-16 per distruggere un drone armeno.

E stando a quanto rivelato dal Presidente siriano Bashar Assad, è “certo” che la Turchia stia traghettando jihadisti siriani per combattere nel conflitto in Nagorno-Karabakh “istigato da Erdogan”. Dello stesso avviso il Presidente francese Emmanuel Macron che venerdì ha denunciato l’invio turco di combattenti siriani appartenenti a “gruppi jihadisti” e che aveva “oltrepassato la linea rossa”. A questo riguardo, senza chiarire a quale Paese si riferisse, Rouhani ha rimarcato che che è “inaccettabile” che “alcune persone vogliano trasferire alcuni terroristi dalla Siria e da altri luoghi nella regione [del Caucaso meridionale]e vicino ai nostri confini”. Anche il capo dell’intelligence straniera russa ha affermato che il conflitto sta attirando quelli che ha definito mercenari e terroristi e che il Nagorno-Karabakh potrebbe diventare un trampolino di lancio per i militanti islamisti per entrare in Russia e in altri Stati.

D’altra parte, secondo un rapporto del quotidiano turco ‘Yeni Şafak’, citando i media azeri, molti uomini dell’YPG / PKK che hanno ricevuto addestramento in Iraq e Siria sono stati trasferiti nella regione del Nagorno-Karabakh per addestrare le milizie armene contro l’Azerbaigian e alla fine aprire un nuovo fronte contro la Turchia. Contattati, seguendo il resoconto turco, dall’ambasciatore armeno in Iraq, Hrachya Poladian, questi uomini, sulla base anche di un accordo con l’Unione patriottica del Kurdistan del nord dell’Iraq (PUK), dovrebbero fornire addestramento alle milizie di volontari armene, nella regione di Tovuz, in materia di sabotaggio, raid e ordigni esplosivi improvvisati. E per raggiungere il Nagorno-Karabakh, avrebbero seguito diverse rotte, dalla Sulaymaniyah irachena a Sabis per poi passare a Kermanshah in Iran o dal monte Qandil in Iraq attraverso l’Urmiya iraniana. In questo trasferimento, l’Armenia, ha affermato il capo della Fondazione per l’amicizia e la solidarietà Turchia-Azerbaigian, il professor Aygün Atta, sarebbe stata aiutata anche dalla Francia, negli ultimi tempi sempre più ai ferri corti con Ankara.

A tali sospetti si è aggiunto quello Presidente della Istanbul Azerbaijan Cultural Home Association, Hikmet Elp, che ha dichiarato al quotidiano turco che il PKK mira a stabilirsi in Nagorno-Karabakh e che l’amministrazione di Yerevan sta cercando di cambiare la demografia dell’area trasferendo i terroristi e gli armeni in Libano nella regione contesa: “In tal modo, l’Armenia mira ad aprire la guerra all’Azerbaigian e ad addestrare le milizie in Karabakh, mentre l’organizzazione terroristica sarà in grado di aprire un nuovo fronte e attaccare la Turchia dall’Armenia o dalla Georgia“.

Difficile stabilire dove sia la verità in questo continuo rilancio di fendenti a mezzo stampa. Il Presidente russo Vladimir Putin ha ammesso che Mosca è profondamente preoccupata per la ‘tragedia’ in atto e ha tenuto telefonate separate con i leader azero e armeno. Il primo, Ilham Aliyev, ha affermato che il suo Paese terrà colloqui con l’Armenia solo dopo la fine della fase acuta del conflitto militare – per questo l’Armenia deve fissare un calendario per il ritiro dal Nagorno-Karabakh e dai territori azeri circostanti – e ha chiesto che lo stretto alleato, la Turchia, abbia un ruolo di mediazione. Di contro, il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, ha posto come condizioni di cessate il fuoco l’interruzione dell’impegno turco e “il ritiro di mercenari e terroristi o la loro eliminazione”. “Per me non c’è dubbio che questa sia una politica per continuare il genocidio armeno e una politica per ripristinare l’impero turco”, ha aggiunto Pashinyan a ‘Sky News’.

Indirettamente, ancora una volta, quindi, Mosca e Ankara tornano a confrontarsi. Non è la prima occasione di attrito tra Russia e Turchia che, tuttavia, quand’anche su fronti opposti come in Siria e Libia, riescono, seppur a fatica, sempre a superare i contrasti. Non è difficile immaginare che la stessa dinamica possa ripetersi anche nel Nagorno-Karabakh, nonostante, in un’intervista a ‘Rossia1’, la principale rete della TV pubblica russa, Putin abbia dichiarato che se la guerra nel Nagorno-Karabakh non cesserà in breve tempo, la Russia interverrà a fianco dell’alleato armeno. “Le ostilità, con nostro grande rammarico, continuano ancora oggi […] Per quanto riguarda il trattato firmato con l’Armenia, abbiamo sempre adempiuto, e continueremo ad adempiere ai nostri obblighi”. Dichiarazione poi ridimensionata dal portavoce del Cremlino Dmitry Peskov per il quale questi obblighi “non coprono la Repubblica non riconosciuta del Nagorno-Karabakh”. Se gli scontri, si legge tra le righe, si spostassero in Armenia, l’intervento russo sarebbe detto dal CSTO. Meno certo sarebbe l’intervento di altri Paesi del CSTO, quali Kazakistan e Bielorussia, che con l’Azerbaigian mantengono buone relazioni.

Quello turco è da molti interpretato come un tentativo di ottenere concessioni dalla Russia, tanto in Libia quanto Siria, ma è anche un modo per aumentare la propria influenza sulle risorse energetiche dell’Azerbaigian, a cui sta offrendo il suo supporto, a scapito di Mosca, con cui, più o meno direttamente, dovrà ridiscutere i termini del suo contratto con Gazprom, in scadenza nel 2021.

Nel settore energetico azero, il peso russo è sempre stato di prim’ordine, anche dopo la fine dell’URSS: la Russia esercita un’influenza nella società energetica statale dell’Azerbaigian SOCAR, che, a sua volta, detiene una quota di quasi il 10% nella raffineria di petrolio russa Antipinsky. Inoltre i principali colossi dell’energia della Federazione Russa operano in Azerbaigian.

L’economia azera risulta fortemente legata alla produzione e all’esportazione di energia. Del resto, il Paese può contare su circa 991 miliardi di metri cubi di riserve di gas naturale (la 25a più grande del mondo) e 7 miliardi di barili di riserve petrolifere (18esimo nel mondo). La produzione di gas tocca, in un anno, i 17 miliardi di metri cubimentre quella petrolifera si attesta a 800.000 barili al giorno.

Le esportazioni dell’Azerbaigian, dominate dall’energia, valgono circa 15 miliardi di dollari all’anno, con la Turchia seconda solo all’Italia tra i principali acquirenti. Le importazioni dell’Azerbaigian, invece, ammontano a circa 10 miliardi di dollari, con la Russia che detiene la quota maggiore. Gli attuali scontri, al confine internazionale armeno-azero, sono divampati in prossimità di oleodotti geopoliticamente essenziali. La compagnia petrolifera BP ha affermato di aver rafforzato la sicurezza nelle sue strutture in Azerbaigian e di star lavorando a stretto contatto con le autorità per prendere misure per proteggere il suo ‘personale, operazioni e beni’.

L’Armenia, con una popolazione due volte più piccola, è economicamente debole e può contare sul sostegno della Russia e di un’influente diaspora armena in Europa e negli Stati Uniti per reggersi in piedi, aggravata dalla chiusura del confine con la Turchia che quest’ultima ha imposto dal 1993 come gesto di solidarietà con l’Azerbaigian dopo che le forze armene si impadronirono del Nagorno-Karabakh.

L’obiettivo di Baku è ridurre la sua dipendenza dalla Russia, quindi la Turchia torna molto utile, ma l’aspetto economico dei loro legami è stato finora relativamente poco brillante: minime le esportazioni della Turchia in Azerbaigian e le importazioni turche, non solo di energia, dall’Azerbaigian, con valori più bassi rispetto alle dai valori del suo export verso Baku.

Se gli investimenti diretti turchi in Azerbaigian sono crollati a 325 milioni di dollari l’anno scorso, quelli diretti azeri in Turchia si sono attestati a quasi 6 miliardi di dollari nel 2019, molti da ricondurre a SOCAR che ha debuttato in Turchia nel 2008, quando la sua filiale turca, SOCAR Turkey Enerji, ha acquisito una partecipazione del 51% nella società petrolchimica turca Petkim. La compagnia energetica azera è l’azionista principale del gasdotto Transanatolico, un importante progetto completato lo scorso anno per trasportare, mediante il gasdotto Trans-Adriatico che sarà presto completato, il gas azero in Europa attraverso la Turchia, componente importante degli sforzi turchi ed europei per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, con la soddisfazione di Washington e della NATO.

Da questo punto di vista, la predominanza dell’Islam sciita in Azerbaigian potrebbe non essere un problema insormontabile per Erdogan se è vero che l’area di Tavush è la porta dell’Azerbaigian verso la Turchia in termini di energia, ferrovia e vie di transito. Oltre al gasdotto transanatolico e il gasdotto Baku-Tblisi-Erzurum che ha consentito la fornitura di gas azero alla Georgia e alla Turchia, l’area è centrale anche per l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan e per la ferrovia Baku-Tblisi-Kars, due importanti progetti congiunti che Azerbaigian, Georgia e Turchia hanno realizzato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

In totale, i tre gasdotti non russi che passano dalle vicinanze di Tavush potrebbero coprire circa la metà della domanda turca e il 15% di quella europea, tentando di aggiudicarsi una parte della quota di mercato di Gazprom. Ipotesi che la Russia non può permettersi di far avverare.

Non è difficile immaginare che il Presidente Recep Tayyip Erdoğan stia usando il conflitto anche per rafforzare la sua leadership interna, soprattutto rispetto all’elettorato più nazionalista, e a distrarre l’opinione pubblica dalla sempre peggiore, a causa del COVID-19, crisi economica in patria, già appesantita da una grave crisi del debito.

C’ è poi da ricordare che l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan fornisce a Israele il 40% del suo petrolio. La preoccupazione è tale da aver spinto l’ambasciatore dell’Azerbaigian negli Stati Uniti, Elin Suleymanov, ad avvertire che la fornitura di petrolio di Israele potrebbe essere messa in pericolo dagli scontri. Cosa che impone allo Stato Ebraico di pretendere e mostrare cautela, ma  dimostra perché, in modo quasi anomalo, in questa fase, Gerusalemme e Ankara sembrano trovarsi dalla stessa parte.

Ciò detto, un colpo a questo sistema di oleodotti, oltre a ferire dei rivali come Israele e quei Paesi europei così ambigui sull’accordo nucleare, di conseguenza anche gli Stati Uniti e la NATO, potrebbe consentire a Teheran di tornare a giocare un ruolo nella partita energetica.

Quel che sembra certo è che, in tale contesto, Teheran, che ha annunciato di stare approntando un piano di pace – il Portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh, ha taciuto sui dettagli, ma ha detto che saranno coinvolti tutti i paesi della regione – si ritrova in una posizione tutt’altro che semplice per mediare ora, in particolare date le sue altalenanti (ma comunque fruttuose) relazioni con Baku, così come la sensibilità internazionale sulla crescente influenza regionale dell’Iran.

Di religione sciita e, come si approfondirà tra poco, un passato in parte condiviso, non sarebbe difficile per Teheran trovare punti di contatto con l’Azerbaigian, soprattutto perché l’Armenia è un Paese non musulmano. A frenare il rafforzamento delle relazioni, che sono comunque buone, secondo molti osservatori, ci sarebbe il costante approccio espansionista di Baku verso i territori iraniani sin dalla sua indipendenza. Tendenza che si è tradotta anche in investimenti significativi nella promozione delle idee separatiste tra gli iraniani azeri e nelle province iraniane dell’Azarbaijan orientale e occidentale nella repubblica. A ciò vanno aggiunte le partnership azere con gli Stati Uniti e con Israele, acerrimi rivali della Repubblica Islamica. In particolare lo Stato Ebraico ha sviluppato stretti legami con l’Azerbaigian: oltre all’energia cui sopra si è accennato, stando a quanto riporta il quotidiano turco ‘Cumhuriyet’, «George Deek, uno dei diplomatici più talentuosi di Israele, è il nuovo ambasciatore di Israele in Azerbaigian. Tel Aviv realizza anche scambi di difesa con Baku. L’Azerbaigian è un Paese musulmano e uno dei più aperti a Israele, ma queste relazioni sono molto complesse. Israele non ha alcun interesse storico nei conflitti tra Armenia e Azerbaigian».

Ad avvicinare Gerusalemme e Baku, ad esempio sulla questione iraniana, tanto che nel 2016, venne diffusa la notizia per cui tra i due Stati vi era un accordo affinché l’aviazione israeliana potesse appoggiarsi agli aeroporti azeri per sferrare un attacco alle installazioni nucleari iraniane. Inoltre Israele vende equipaggiamento militare di Baku. L’assistente del Presidente dell’Azerbaigian, Hikmet Hajiyev, ha detto la scorsa settimana che le forze azere hanno utilizzato droni d’attacco di fabbricazione israeliana nel conflitto. In risposta, l’Armenia, che ha recentemente inaugurato la sua sede diplomatica a Tel Aviv, ha richiamato il suo ambasciatore in Israele. Il ‘Times of Israel’ ha stimato che oltre il 60% delle forniture di armi all’Azerbaijan provengono da Israele, confermando la tendenza rivelata dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), per cui tra il 2006 e il 2019 lo Stato Ebraico avrebbe venduto a Baku circa 825 milioni di dollari di attrezzature militari, come l’ultima versione del missile balistico della IAI, il LORA da 300 km di gittata e i droni Kamikaze Harop.

L’Armenia, invece, non ha mostrato alcuna politica espansionistica nei confronti dei territori iraniani nè, tanto meno, ha dato troppo impulso alle relazioni con gli avversari dell’Iran, pur rimanendo cauta nei suoi rapporti con la Repubblica Islamica la quale, ciò nonostante, ha rafforzato, per esempio, i legami energetici, senza far pendere la bilancia da una parte o dall’altra del Caucaso meridionale.

Teheran – ha confermato il Portavoce del governo, Ali Rabiei – “sottolinea la preservazione dell’integrità territoriale dell’Azerbaigian e il rispetto della carta delle Nazioni Unite e chiede all’Armenia di ritirare le sue forze dalle terre occupate dell’Azerbaigian, dopo giorni di conflitto militare sulla regione contesa del Nagorno Karabakh”, ma “non c’è una soluzione militare al conflitto e ogni interferenza di terze parti risulterà non costruttiva e dannosa”.

Impedire la degenerazione del conflitto è il primo obiettivo di Teheran e, di sicuro, il coinvolgimento di altri Paesi nel conflitto e le loro relazioni con l’Iran rendono la questione ancora più complicata. Per questi motivi, è la convinzione di Mohammad Javad Jamali, ex membro della commissione per la sicurezza nazionale e la politica estera del parlamento iraniano, “coloro che fomentano gli scontri, in particolare gli Stati Uniti e Israele, vorrebbero che i fuochi del conflitto rimangano accesi”. Ma il nuovo aumento delle tensioni conferma, dice Jamali, il fallimento del Gruppo di Minsk dell’OSCE e la necessità di uno sforzo dell’ONU.

Opinione simile è stata espressa anche da Mahmoud Ahmadi Bighash, attuale membro della commissione parlamentare per la sicurezza nazionale e la politica estera iraniana: “I due Paesi devono porre fine alla lotta con mezzi pacifici e negoziati che non includano altri paesi, come gli Stati Uniti e Israele, che non vogliono che la regione sia pacifica. Combattere nella regione andrà sicuramente a scapito anche del nostro Paese, e credo che dobbiamo lavorare per porre fine al conflitto”.

Una delle ragioni cruciali per cui l’Iran ripete la sua offerta di mediazione è confermare all’Armenia, all’Azerbaigian e alle loro rispettive minoranze etniche e sostenitori all’interno della Repubblica Islamica, che Teheran intende rimanere neutrale. Tale neutralità sarebbe decisiva anche per la stabilità interna dell’Iran.

“Il Karabakh ci appartiene e continuerà ad appartenere a noi”, si sente cantare in diversi video pubblicati pochi giorni fa sui social network. Lo sfondo sono alcune manifestazioni a sostegno dell’Azerbaigian in almeno quattro città iraniane, tra cui Tabriz e Teheran.

La scorsa settimana, come sopra ricordato, gli imam delle preghiere del venerdì in quattro province prevalentemente azere, l’Azerbaigian occidentale, l’Azerbaigian orientale, Ardebil e Zanjan, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta a sostegno di Baku, riconoscendo là conformità dell’azione azera rispetto alla legge, la legge islamica e quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e accusando la Turchia di gettare benzina sul fuoco. Una posizione che, ha affermato l’ex parlamentare Jimali, “non diplomatica e non amministrativa”: “in effetti rispettiamo entrambi i nostri Paesi vicini, soprattutto perché abbiamo sia popolo azero-turco che armeno nel nostro Paese”.

Fino all’inizio del XIX secolo, la Georgia, l’Armenia e i territori dell’attuale Repubblica dell’Azerbaigian, che allora prendeva il nome di ‘Arran’, erano sotto il controllo persiano. L’Iran ha poi perso questi territori conquistati dalla Russia in seguito alle sue sconfitte in due guerre: nel 1813 il trattato di Gulistan pose infatti fine alla guerra Russo-Persiana, dividendo gli azeri in due parti, una sotto l’Iran e l’altra sotto la Russia

Il crollo del 1918 dell’impero zarista russo e l’indebolimento della presa di Mosca su Arran hanno fornito l’opportunità ai partiti nazionalisti. Supportati dall’Impero Ottomano, hanno creato la Repubblica Democratica dell’Azerbaigian, che è stata integrata nell’Unione Sovietica nel 1920.

Mentre, prima del 1918, non esisteva un’entità politica a nord del fiume Aras con il nome Azerbaigian, il popolo di Arran condivideva l’etnia e la lingua turca con quelle delle province nord-occidentali dell’Iran, storicamente chiamate Azarbaijan orientale e occidentale .

Ciò rende i 9 milioni di abitanti attuali dell’Azerbaigian fratelli del 16% della popolazione dell’Iran, altri 20 milioni di persone. L’Iran ospita anche più di 100.000 armeni altamente rispettati e ben integrati. Hanno legami forti e talvolta utili con la diaspora armena globale, che ha influenti lobby nei paesi occidentali, in particolare negli Stati Uniti, dove prende il nome di ANCA.

Con un tale mix etnico, qualsiasi sostegno ufficiale da parte di Teheran per l’Armenia o l’Azerbaijan nel conflitto del Nagorno-Karabach potrebbe approfondire le faglie sociali fino al punto di conflitto. Si aggiungerebbe anche ai vari dilemmi sociali che lo Stato iraniano sta già affrontando, derivanti dalle difficoltà economiche causate dal COVID-19 e dalle sanzioni statunitensi, dalla corruzione dilagante e dalla cattiva gestione, nonché dall’insoddisfazione pubblica per le politiche repressive dello Stato.

In un momento in cui la coesione sociale è a pezzi, schierarsi potrebbe facilmente portare ad un ampliamento delle divisioni etniche che potrebbero mettere a rischio l’integrità politica e territoriale dell’Iran. La stabilità della Repubblica Islamica sarebbe comunque a repentaglio se si ritrovasse a ridosso dei confini centinaia di migliaia di sfollati. E questo timore lo si può rintracciare anche nelle dichiarazioni pronunciate ieri dal Presidente Rouhani: “Spero che la guerra e gli scontri non porterebbero a guerre sulle città, che si tradurranno in sfollamenti di persone e uccisioni di civili, che molto doloroso e pericoloso”.

I bombardamenti intermittenti delle forze dell’Azerbaigian hanno trasformato nelle ultime ore Stepanakert in una città fantasma punteggiata di munizioni inesplose e crateri di granate. Gran parte della popolazione di Stepanakert, pari a 50.000 abitanti, è scappata. “Secondo le nostre stime preliminari, circa il 50% della popolazione del Karabakh e il 90% delle donne e dei bambini – o circa 70.000-75.000 persone – sono sfollati”, ha fatto sapere all’Afp il difensore civico per i diritti del Karabakh, Artak Beglaryan. L’Azerbaigian, dal canto suo, ha accusato le forze armene di bombardare obiettivi civili nelle aree urbane, inclusa la sua seconda città più grande di Ganja.

Nel medio termine, ci sono poi le elezioni presidenziali iraniane che si terranno, in base a quanto stabilito dal Consiglio dei guardiani della rivoluzione, il prossimo 18 giugno. I candidati che sperano di presentarsi alle prossime elezioni dovranno farne domanda entro l’inizio di aprile del prossimo anno, ma l’elenco definitivo sarà annunciato dal Consiglio dei guardiani della rivoluzione all’inizio di giugno. A fronte della vittoria dei conservatori alle elezioni legislative per il Parlamento (Majles) dove la scarsa affluenza si è rivelata decisiva, alle critiche suscitate per le conseguenze finanziarie delle sanzioni americane e per la cattiva gestione, sanitaria ed economica, della pandemia di COVID-19, il Nagorno-Karabakh potrebbe peggiorare la situazione. È vero che alle prossime elezioni presidenziali l’attuale Presidente Hassan Rouhani non potrà candidarsi per un terzo mandato dopo due consecutivi. Ma è altrettanto vero che nei mesi che gli restano, Rouhani dovrà provare a gestire i già complicati dossier che ha sul tavolo, dalla pandemia ai rapporti con la nuova Amministrazione USA, pena la sconfitta del fronte moderato tra dieci mesi. Un’escalation e un coinvolgimento nel conflitto in Nagorno Karabakh spaccherebbe l’elettorato, oltre a far precipitare il Paese in una crisi sociale, economica e politico-diplomatica.

Schierandosi anche l’Iran, le tensioni potrebbero aumentare rapidamente, facendo degenerare il conflitto, mai risolto da trent’anni, e la Repubblica Islamica perderebbe per sempre quel ruolo super partes che, con alterne fortune, gli ha sempre evitato problemi ai confini. Inoltre, finirebbe per guastare con la Russia e con la Turchia.

Ma fino a quando Teheran riuscirà a rimanere neutrale? Più a lungo possibile sarebbe auspicabile, ma molto dipenderà da tutti gli attori coinvolti e da quale sarà la linea rossa per l’Iran. Con i combattimenti che sembrano non attenuarsi nonostante i ripetuti appelli internazionali oltre 360 persone morti, mtra cui 320 militari e 19 civili nel Nagorno-Karabakh, e 28 civili azeri, il gruppo di Minsk ha tenuto oggi dei colloqui m a Ginevra. Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha detto che anche i rappresentanti russi, francesi e statunitensi si incontreranno lunedì a Mosca per esaminare i modi per persuadere le parti in guerra a negoziare un cessate il fuoco. La Turchia ha accusato il gruppo di trascurare il conflitto e ha detto che non dovrebbe essere coinvolto nella mediazione. Le Drian ha replicato, ribadendo le accuse – smentite da Ankara – di essere coinvolta militarmente e dicendo che questo ha alimentato l ‘“internazionalizzazione” del conflitto. “Vogliamo che tutti capiscano che è nel loro interesse fermare immediatamente le ostilità senza condizioni e che iniziamo una trattativa”, ha detto Le Drian alla commissione per gli affari esteri del parlamento francese. Teheran, che ha rivelato di star preparando una sua proposta di pace, si prende del tempo, riaffermando la sua neutralità, forse una scelta necessaria nel contesto attuale e non prova di debolezza, come sosteneva il giurista ungherese Louis Kossuth, in caso di principio durevole.