“Non è difficile immaginare che ci siano più interessi contingenti dettati dall’economia, a seguito della pandemia di COVID-19, piuttosto che un vero e proprio cambio di passo nei rapporti, a spingere questo riavvicinamento”. Intervista a Giuseppe Dentice (CeSI)
Dopo quasi quattro anni, la crisi diplomatica tra il Qatar e il cosiddetto ‘quartetto arabo’ formato da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Bahrein si avvia verso la sua conclusione. A sancire il disgelo, un video di pochi secondi del 5 gennaio scorso che ritrae l’abbraccio tra il Principe ereditario Mohammed Bin Salman e lo sceicco Tamim bin Hamad al-Thani, accolto con calore una volta sceso dall’aereo appena atterrato in Arabia Saudita in vista del 41esimo vertice del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) previsto ad Al Ula, il primo a cui l’emiro del Qatar partecipava da tre anni e mezzo.
Formalmente, l’embargo sul Qatar si è risolto con la firma da parte dei Paesi del CCG di un ‘Accordo di stabilità e solidarietà’, annunciato in pompa magna da Mohammed Bin Salman ringraziando il Kuwait e gli Stati Uniti per la mediazione officiata. In realtà, l’aria di ‘distensione’ sembrava nell’aria fin dal giorno prima quando Riad aveva reso nota la riapertura dei propri confini via terra, aria e mare con il Qatar.
Tutto era iniziato il 4 giugno 2017 quando Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Egitto, quattro ‘pesi massimi’ sunniti, avevano rotto le relazioni con il Qatar, altro Paese sunnita, dopo un ultimatum in tredici richieste alle quali Doha avrebbe dovuto accondiscendere per uscire dal blocco diplomatico, ma anche fisico, quindi aereo e marittimo, impostole. Tra le richieste, cancellare ogni legame con ‘organizzazioni terroristiche’; non dare più sostegno all’Islam politico, chiudere ‘Al Jazeera’, interrompere ogni relazione con l’Iran e rimodulare la cooperazione militare con la Turchia, chiudendo la base militare turca presente nel territorio dell’Emirato. Tali richieste erano state rigettate da Doha che le considerava un attacco alla sua sovranità e alla sua economia, minacciando cause legali per ottenere risarcimenti per i danni ingiustamente subiti.
Il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, da entrato in carica da pochi mesi, aveva inizialmente sposato la mossa saudita, per poi cambiare idea e offrirsi come mediatore anche perché il Qatar ospita circa 10.000 soldati statunitensi in una base militare ad al-Udeid.
A quasi quattro anni di distanza, molto sembra essere cambiato. L’anno scorso è scoppiata la pandemia di COVID-19 che ha messo in difficoltà sanitaria ed economica molti per non dire tutti i Paesi del mondo, compresi quelli del Golfo. E questo ha sicuramente avuto un grande ruolo nella decisione di riaprire le porte al Qatar, anche perché il presente e il futuro di molti Paesi del Medioriente, dipendenti in gran parte dal petrolio, in un momento di crollo dei prezzi delle materie energetiche, sono piuttosto precari.
Inoltre, dopo la sconfitta alle elezioni, Trump si accinge a lasciare lo Studio Ovale e l’arrivo del suo successore, Joe Biden, spinge anche i Paesi del Medioriente a cercare un riposizionamento tale da non essere penalizzati rispetto al recente passato. Una disponibilità al dialogo, nell’ottica saudita ed emiratina, potrebbe essere ben vista dal nuovo inquilino della Casa Bianca che, tuttavia, secondo molti osservatori, non potrà rivoluzionare, almeno in breve periodo, l’approccio americano alla regione.
Nella fine dell’embargo, hanno pesato anche gli assetti regionali, con tutti i distinguo del caso: per fare qualche esempio, la rivalità tra Paesi sunniti, come tra Emirati e Qatar, ma anche lo ‘spettro turco’ che, alleato di Doha, è rivale degli Emirati e dell’Egitto, nonostante nelle ultime settimane sembra star riavvicinandosi all’Arabia Saudita; rivalità tra Paesi sunniti e Paesi sciiti, quindi lo ‘spettro iraniano’, che condivide con Doha l’enorme giacimento di gas South Pars/North Dome, ma è rivale strategico di Arabia Saudita ed Emirati e che l’intesa danneggerà già subito a livello finanziario dato che Teheran aveva addebitato al Qatar circa 100 milioni di dollari all’anno per utilizzare il suo spazio aereo. C’è anche la questione della Fratellanza Musulmana sostenuta da Qatar e Turchia, ma malvista da Emirati ed Egitto. Senza dimenticare il riequilibrio in corso con gli ‘Accordi di Abramo’.
Insomma una matassa difficile da sbrogliare ed è ancora troppo presto stabilire se la distensione sarà di ampio o corto respiro. Va detto che il contenuto dell’intesa non è noto e che, sulla base di quanto è stato diffuso, Doha pare non essersi piegata a nessuna delle richieste. E se l’obiettivo era allentare i legami del Qatar con Turchia ed Iran, la missione può dirsi fallita, come ha lasciato intendere lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, Ministro degli esteri del Qatar, il quale ha poi precisato: “Ci vorranno alcuni passi tra i paesi per ricostruire il rapporto. . . ci saranno differenze, alcune questioni in sospeso che saranno discusse bilateralmente tra i paesi ”, ha detto. “Ogni paese ha una serie diversa di disaccordi con il Qatar”. Anwar Gargash, ministro degli Affari esteri degli Emirati Arabi Uniti, ha affermato che il suo paese è “estremamente favorevole” all’accordo, ma ha aggiunto che “qualsiasi crisi lascerà problemi di fiducia” e alcuni problemi richiederebbero più tempo per essere risolti rispetto ad altri. “Una delle grandi cose saranno le dimensioni geostrategiche, come vediamo le minacce regionali, come vediamo la presenza turca?” ha affermato Gargash. “La questione arriva alle stesse domande fondamentali. . . come affronterà il Qatar [con]l’interferenza nei nostri affari attraverso il sostegno dell’Islam politico? La presenza della Turchia nel Golfo sarà permanente?”. L’insoddisfazione emiratina è più o meno palese, al di là delle dichiarazioni, ma Egitto e Bahrein sono piuttosto freddi. Cautela è stata espressa anche dalla Turchia, grande alleato del Qatar.
Intanto, lo sceicco Mohammed, che è anche presidente della Qatar Investment Authority, ha accennato alla possibilità che il fondo sovrano investirà in Arabia Saudita e altri stati del Golfo se la crisi finirà. “Se ci sono opportunità che vediamo in futuro, e vediamo una continuazione della volontà politica dei paesi di impegnarsi, siamo molto aperti”. E queste parole, in piena pandemia, con le difficoltà economiche che ne conseguono, possono essere musica delle orecchie saudite, a fronte di un programma Vision 2030 dall’avvenire sempre più incerto, sebbene la diversificazione sia sempre più necessaria.
Come valutare l’intesa raggiunta? È tutto oro quello che luccica? Cosa ha favorito la fine della crisi? L’imminente arrivo di Joe Biden all’anno Casa Bianca ha avuto un ruolo? Cosa cambierà negli equilibri del Medioriente? A queste e a molte altre domande ha risposto Giuseppe Dentice, neo Responsabile del desk MENA per il Centro Studi Internazionali (CeSI).
Tre giorni fa, il ‘quartetto arabo’ costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Bahrein hanno sottoscritto un ‘accordo di solidarietà e stabilità’ con Doha che, sebbene sia sconosciuto nei contenuti, mette fine alla crisi diplomatica iniziata nel giugno 2017. Lei l’ha definita “una svolta non completa, né una totale riconciliazione, ma una situazione di graduale distensione che potrebbe avere un impatto notevole nei rapporti intra-Golfo e nelle dinamiche di sicurezza della Penisola arabica, ma anche in molte delle questioni conflittuali e/o critiche che attraversano l’intero Medio Oriente” e – si chiede – “l’intesa è un tentativo di andare oltre le beghe esistenti, lasciando inalterato il suo impianto di conflittualità e assumendo i contorni di una tregua tattica, o essa si presenta come una misura di compromesso che guarda ad una nuova forma di unità subregionale partendo da piccoli ma ben chiari step”? Secondo Lei? E condivide la diffusa sensazione che l’’abbraccio’ non faccia venire meno le cause all’origine della crisi che sembrano rimanere tutte sul tavolo?
La sensazione è proprio quella. Io credo che, dietro questo riavvicinamento, ci siano più situazioni dettate dalla contingenza che non un vero interesse a pacificare. Questo vuol dire che la situazione economica delle monarchie, la difficoltà a perseguire un’agenda, anche in politica estera, che sia lontanamente vicina a quelle che erano le aspettative di qualche anno fa, rendono di fatto la condizione molto mutevole e, oggettivamente, da riconsiderare in base a queste problematiche. In quest’ottica, non è difficile immaginare che ci siano più interessi contingenti dettati dall’economia che non un vero e proprio cambio di passo nei rapporti a spingere questo riavvicinamento. Anche sulla base delle poche dichiarazioni ufficiali, le questioni riguardanti i Fratelli Musulmani, le questioni riguardanti i rapporti con altri attori regionali, le differenze che ci sono, non sono state affrontate, ma semplicemente messe nel ‘congelatore’, in attesa di poter essere in seguito affrontate o, magari, esplodere nel momento in cui la situazione portasse delle novità. È più giusto, quindi, secondo me, dire che c’è una tregua tattica piuttosto che una svolta.
Di sicuro il pragmatismo ha avuto la meglio. Ma chi sono i vincitori e chi gli sconfitti di questa crisi durata quattro anni? Secondo molti, può essere annoverata tra i primi Doha che, in effetti, sembra non essersi piegata, nonostante, nelle intenzioni del quartetto arabo, il blocco doveva indebolire il piccolo Emirato al punto da accondiscendere alle note 13 richieste di cui era composto l’ultimatum. È dello stesso avviso?
Onestamente, penso che non si possano trovare dei veri propri vincitori in questa situazione perché, in fin dei conti, tutti hanno un po’ perso. È chiaro che io Qatar è, forse, quello che ha tratto il maggior vantaggio perché si è piegato, ma non spezzato, il Paese è comunque riuscito a mantenere la sua rotta, anche grazie alla convergenza con altri attori, come Turchia e Iran. Quindi, in realtà, non ci sono dei contraccolpi. Anzi, nello statement, non si parla dei rapporti con l’Iran né di quelli con la con la Turchia e forse questo suggerisce che anche il riavvicinamento tra la Turchia e l’Arabia Saudita delle ultime settimane, probabilmente, era anche mirato al patto con il Qatar. E da questo punto di vista, le due cose non credo siano così slegate. Ad aver perso in realtà sono un po’ tutti perché il “quartetto arabo“ non ne esce benissimo in termini di immagine perché la retromarcia è stata forte ed abbastanza netta che ha visto soprattutto Emirati Arabi Uniti ed Egitto prendere la posizione più duro: l’Arabia Saudita non stupisce nel suo riavvicinamento, anche per i motivi citati prima, ma l’Egitto, con le sue campagne contro Al-Jazeera e contro l’Islam politico, è quello che non è stato minimamente preso in considerazione, anzi, è stato trascurato nelle varie discussioni.
Questo ci porta alla questione delle 13 richieste contenute nell’ultimatum (rapporti con Fratellanza Musulmana e altri movimenti dell’Islam politico, sostegno al terrorismo, chiusura di Al Jazeera, relazioni con l’Iran, la chiusura di una base turca nell’Emirato e l’arresto della cooperazione con Ankara) delle quali non è ancora noto quali Doha si sia impegnata ad onorare, in cambio della cessazione del blocco.
Di fatto, sembra, appunto, che Doha non si sia impegnata su nessuna, anche se non è dato saperlo perché non si sa effettivamente nulla. Quello che si può dire, anche alla luce del discorso sull’Egitto, è che gli Emirati sono quelli maggiormente coinvolti nella diatriba, sono un diretto competitor del Qatar in termini proprio di modello, e, in più, bisogna aggiungere che, a differenza dell’Arabia Saudita la cui corona si sorregge sulla religione e sul petrolio, per gli emiratini la religione è importante, ma marginale perché la legittimità viene dall’economia, ma anche da questa sorta di discendenza dinastica tra le famiglie che hanno una loro forza e riescono a mantenere il potere anche al di fuori della sfera religiosa. Quindi, la prima obiezione è che il Qatar può essere annoverato come il vincitore, ma di sicuro c’è qualcuno che esce come sconfitto o come sconfitti maggiormente. La seconda obiezione è: questa intesa può portare delle svolte in altri quadranti? Forse sì, ma qui si potrebbero aprire tutti i contorni degli interessi regionali.
In quest’ottica, i rapporti con la Fratellanza Musulmana, sulla scorta di quanto si sa, sono del tutto inalterati.
Non se ne fa minimamente accenno quindi si presume che sia rimasto tutto come era. Ma non è detto che sia del tutto così. Il punto è che queste relazioni, così lunghe e volubili, dipendono da vari contesti e quindi bisogna aspettare e capire effettivamente quali sono i contorni dell’intesa e cosa verrà poi presentato. Da questo punto di vista, sarei molto cauto.
Se è vero che non si conoscono quali sono le richieste accettate da Doha, è altrettanto vero che non si conoscono, in generale, i termini dell’intesa, compreso quanto accetta di fare il quartetto arabo, oltre alla revoca del blocco. In quest’ottica, come Lei sottolinea, “il principale rischio per la sorte dell’intesa potrebbe essere rappresentata dai termini limitati e/o fumosi della stessa”.
Esattamente. L’intesa è fumosa e non chiarisce i punti, volutamente aggiungo io. Ad oggi non abbiamo chiarezza sui contenuti e forse non ne avremo ancora per molti giorni: i tempi della diplomazia e di questo tipo di relazioni sono decisamente più lunghi. Quello che, secondo me, è importante sottolineare è che la stessa intesa, in realtà, è figlia di contingenze esterne e di una serie di situazioni che portano a questa intesa. Il fattore USA, inteso come arrivo della nuova Amministrazione, da questo punto di vista, è importante, ma non determinante.
Se uno degli obiettivi del ‘quartetto arabo’ era esercitare pressione sull’Iran, si può dire che la missione è fallita?
Incidentalmente, sì e non ha portato i risultati sperati. E questo è un dato di fatto concreto. Però, anche qui, considerando il contesto, il cambio di Amministrazione, occorre avere pazienza, imparando ad osservare le mosse su un periodo molto più ampio rispetto a quello a cui siamo stati abituati.
A fronte della soddisfazione espressa pubblicamente dall’Arabia Saudita, sono dunque gli Emirati i più delusi dall’intesa?
Benché gli Emirati avessero favorito la risoluzione della questione aprendo il loro spazio aereo, il punto è che questa situazione sembrerebbe dirci che Dubai guarda all’economia, ma perché anche loro hanno problemi e, soprattutto, perché non restaureranno le relazioni diplomatiche con il Qatar. Questo significa che, di fondo, c’è un problema che non è stato affrontato.
Nel ruolo di mediatori gli Stati Uniti, guidati ancora da Trump che prima aveva sposato la rottura e poi aveva fatto marcia indietro, e che, peraltro, hanno una base in Qatar con diecimila uomini, sono stati determinanti per la ‘risoluzione’ della crisi? E può essere rivendicato come un proprio successo dall’Amministrazione uscente?
Il ruolo degli Stati Uniti così determinante, per vari motivi: innanzitutto, perché l’amministrazione in uscita e questo è un fattore che delegittima le varie controparti; in secondo luogo, c’è un’altra motivazione dettata dal fatto che per quanto gli Stati Uniti possano investire in un accordo, poi le parti in causa sono altre e seguono logiche differenti. Gli Stati Uniti hanno sempre chiesto ai sauditi di riconsiderare le proprie posizioni perché nella loro ottica è importante mantenere il Qatar all’interno di quello che è un sistema di sicurezza regionalizzato in funzione anti-iraniana. Però è anche vero che il Qatar non ha mai accettato di interrompere le proprie relazioni con l’Iran né, ad oggi, ha mai denunciato tutto ciò. Quindi, c’è da presupporre che il ruolo degli Stati Uniti sia stato importante ma, in realtà, abbia giocato un ruolo forte la parola degli attori che minori non sono quali Kuwait e Oman che, tradizionalmente, si muovono su queste linee soffuse e che fanno proprio della seconda fila il loro modus vivendi.
Proprio la mediazione di Kuwait e Oman è stata funzionale a ridimensionare, a rendere meno clamoroso e imbarazzante oltre che, forse, più facile da presentare a livello nazionale il passo indietro per attori più ingombranti.
Esattamente, attenuato o comunque attutito fortemente e, in questo, il ruolo fondamentale è stato del Kuwait e dell’Oman che, per motivi differenti, hanno rapporti importanti con i sauditi: il Kuwait ce l’ha in relazione all’Iraq e all’Iran mentre l’Oman li ha per via dello Yemen.
Anche il ruolo di Jared Kushner, genero e consigliere di Trump per gli affari mediorientali, ma importanti relazioni personali con Israele e con la famiglia reale saudita, è stato, per così dire, marginale in questa partita?
Sicuramente ha avuto un suo ruolo, anche perché ha strette relazioni con la famiglia reale saudita ed in particolare con Mohammed Bin Salman. Però, In questa dinamica, Kushner ha avuto un ruolo più marginale, o comunque non fondamentale come poteva essere negli Accordi di Abramo.
La pandemia di Covid-19, intesa in senso sanitario – con la spedizione di aiuti (dispositivi di protezione individuale, ventilatori, …) – ha aiutato le trattative?
Certamente, le ha favorite.
E poi, come prima ricordato, c’è l’aspetto economico. Si parla di tutti Stati che vivono di rendite ‘energetiche’ per mantenere la propria stabilità interna. E il crollo dei prezzi, unito alla necessità di immettere enormi quantità di denaro nelle economie, mette un’ipoteca sullo status quo, oltre che sul futuro.
La questione COVID-19 è stata un grande acceleratore e moltiplicatore di questioni già critiche, ma, allo stesso tempo, è stato un fattore dirimente perché la ‘questione Golfo’, tutt’altro che chiusa, probabilmente sarebbe rimasta ancora per un po’ in una situazione di forte rivalità. Invece, il fattore economico, purtroppo, ha creato una dipendenza tale che Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Oman, Kuwait hanno dovuto fare delle iniezioni di denaro estremamente importanti ed estremamente mai viste in passato. Per Paesi come questi che dipendono fortemente dai ricavi energetici e che vedono oggi un prezzo della materia energetica così basso, questo è un problema serio in quanto rischiano di esplodere se non riescono a trovare delle soluzioni. Gli Emirati sono quelli che hanno portato avanti un processo di diversificazione più ampio, però continuano a dipendere per il 70-80% dal petrolio e dal gas. Per un Paese come l’Arabia Saudita che è dipendente per oltre il 95%, la cosa è ancora più seria. Quindi, economia e contesto regionale in evoluzione hanno contribuito a ‘riformare’ il Golfo.
In che modo gli Accordi di Abramo hanno inciso, se hanno inciso, nella risoluzione di questa controversia?
Su questo argomento, credo non siamo ancora abbastanza chiari nel senso che ovviamente il tema è molto sentito, soprattutto nel Golfo, però non credo possa aver avuto un’incidenza nel riavvicinamento con il Qatar nel senso che, sicuramente, ha contribuito in un’ottica di alcuni attori, tra cui Stati Uniti e Israele che, tra l’altro, aveva rapporti più o o meno informali con il Qatar ancor prima di quello che è successo negli ultimi anni. Diciamo che il Qatar come l’Arabia Saudita sono alcuni dei nomi papabili per rientrare negli Accordi di Abramo anche se credo ci vorrà molto tempo. In realtà, gli Accordi sono stati più importanti in un’altra ottica, quella della sicurezza regionale e, in questo senso, hanno più interesse gli Stati Uniti a definire un sistema del genere nel quale poi si devono trovare coinvolti. Quindi credo che gli Accordi di Abramo abbiano inciso in minima parte rispetto ad altre questioni.
Come ricordato, gli Emirati sono, in fin dei conti, i più delusi da questa intesa perché vivono fortemente la competizione con il Qatar, ma anche per la rivalità che essi hanno con un altro Paese sunnita che ha accolto con cautela la notizia dell’accordo, cioè la Turchia, oltre che, ovviamente, con l’Iran. In che modo lo ‘spettro turco’ è stato cruciale nella decisione di superare l’impasse? Forse nel tentativo di allentare il forte legame che il Qatar ha con la Turchia e che comprende un forte sostegno alla Fratellanza Musulmana, oltre che rapporti politico-militari ed economici?
L’idea sarebbe quella, ma anche su questo, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, non sembrano esserci passi indietro nei rapporti tra Qatar e Turchia.
Tutt’altro: il Ministro degli Esteri qatarino ha rimarcato che l’intesa non indebolirà i solidi legami con la Turchia e l’Iran.
E non mi sembra che l’Arabia Saudita abbia smentito il suo riavvicinamento con la Turchia. A rimanere fermi nella loro posizione sono solo gli Emirati. Ma non è detto che questa situazione non possa portare a riconsiderare una strada più politica che militare in altri contesti, pensiamo alla Libia o alle tensioni nel Mediterraneo Orientale.
L’intesa per la risoluzione della crisi del Qatar potrebbe essere letta come un secondo step, come una conferma del processo di riavvicinamento tra Ankara e Riad?
Sicuramente sì, però questo riavvicinamento non va visto come un cambio di passo, ma come una mossa tattica e quindi potrebbe subire ulteriori deformazioni a seconda del contesto fluido. Va, infatti, ricordato che molti di questi accordi nascono e si sviluppano in situazioni che non definiscono in concreto qualcosa, ma che mostrano una volontà nel voler dirimere le tensioni.
Nonostante le rassicurazioni qatarine, dietro l’intesa appena raggiunta, c’è anche il tentativo di allentare i rapporti tra Doha e Teheran che, comunque, condividono un grande interesse economico? In molti sostengono che l’intesa sia necessaria per compattare il Golfo in vista di nuove tensioni con l’Iran che ha ricominciato l’arricchimento dell’uranio.
Da un lato c’è questo intento, poi non è detto che lo si raggiunga. È probabile, comunque, che i rapporti possano vedere un certo cambio di passo. Questo è un dato più plausibile che non con la Turchia perché, di fatto, si trova in una condizione di estrema difficoltà, dettata dal COVID-19, ma anche da questioni interne come l’uccisione del capo del programma nucleare iraniano e di Suleimani. Ci sono, quindi, condizioni che rendono il contesto iraniano più debole e questo accordo toglie una leva all’Iran per influenzare in maniera più divisiva il Golfo. In questo senso, è probabile che Riad e Doha possano avere fatto più leva su questo aspetto è anche il Qatar non è detto che non ne possa tenere conto.
Con questa intesa, Teheran è più isolata di prima?
Diciamo che si trova in una condizione di debolezza. Da questo punto di vista, l’Iran è un po’ più in difficoltà rispetto al recente passato.
A questo riguardo, Mohammed Bin Salman ha richiamato il Golfo alla necessità di creare un fronte unito anti-Iran.
Bisogna, secondo me, distinguere tra la retorica anti-iraniana e la politica. Il tentativo di comprare il fronte di sta tutto e l’accordo è nato anche in quest’ottica, però non è così preponderante il fattore iraniano rispetto ad altri problemi. Quindi l’Iran è sì più debole che in passato, ma si sarebbe comunque trovato in una posizione svantaggiosa perché, anche se il Qatar avesse giocato per la sua parte, si sarebbe ritrovato comunque l’intero Golfo, Israele, Stati Uniti – oltre che alcuni attori occidentali ambigui – contro.
È impossibile leggere questa intesa anche come un’eventuale mossa per lanciare un amo al dialogo con Teheran?
No, in realtà, in questa intesa io vedo più l’opportunità di iniziare a ripensare alla regione anche con l’Iran nel senso che, fino ad adesso, si è pensato che Teheran fosse quasi esclusa dal Medioriente. Invece, forse, il passo successivo potrebbe essere quello di iniziare a capire che la regione deve considerare l’Iran come parte del Golfo. Lo stesso discorso che non è stato fatto fino a vent’anni fa con Israele che non veniva percepito come un attore mediorientale, ma come una spia dell’Occidente. Non è detto che questo sia il passaggio effettivo, ma non è da escludere che ci possa essere anche questo tipo di step, magari anche con una nuova Amministrazione americana, certamente più tradizionalista negli approcci politici che faccia del dialogo con l’Iran un modo per creare la distensione necessaria anche ad una maggiore pacificazione regionale.
In molti l’imminente cambio di Amministrazione americana avrebbe giocato un ruolo importante in questa apertura verso Doha: a detta di molti osservatori, i sauditi in primis avrebbero iniziato a cambiare rotta per ingraziarsi la nuova Presidenza Biden. Che ne pensa?
Un ruolo ce l’ha sicuramente avuto, ma non è stato determinante come quello ricoperto dall’economia. Il mix prodotto ha portato al cambio di scenario, ma l’economia ha giocato il ruolo maggiore.
“Non insistiamo né abbiamo fretta che gli Stati Uniti tornino all’accordo, ma ciò che è logico è la nostra richiesta di revocare le sanzioni”, ha dichiarato, nelle ultime ore, la Guida Suprema iraniana, Ali Khamenei. La risoluzione di questa crisi diplomatica è prodromica alla ripresa di un dialogo costruttivo tra Stati Uniti, sotto la guida di Biden, e Iran, magari per riprendere o ridiscutere l’accordo nucleare?
Potrebbe aiutare, questo sì, ma non è detto che possa essere favorevole all’Iran nel senso che, sicuramente, una ripresa del dialogo ci potrà essere, ma bisognerà vedere in che termini e in che modalità.
Si è sempre detto scettico di grandi cambiamenti nell’approccio americano al Medioriente con l’arrivo di Biden alla Casa Bianca. Quindi non si indeboliranno le alleanze tra USA e Israele e tra USA e Arabia Saudita?
Non ci saranno grandissimi stravolgimenti, ma con un Presidente meno baldanzoso nella retorica di Trump, probabilmente ci aspetteremo un rapporto più contenuto.
Gli Emirati, si è prima ricordato, escono come i più insoddisfatti dall’intesa. Ed Egitto e Bahrein?
Anch’essi sono piuttosto insoddisfatti, sebbene per altri motivi rispetto agli Emirati. Il Bahrein ha in ballo le questioni territoriali, ma ha una forte dipendenza dall’Arabia Saudita che ha un ruolo egemone. L’Egitto, invece, è insoddisfatto perché non ha ottenuto nulla di quanto richiesto nel 2017.
E poi perché ha una forte rivalità con la Turchia, alleata del Qatar e sostenitrice della Fratellanza Musulmana.
Esattamente, ma ha una forte rivalità anche con lo stesso Qatar in Libia, in Nord Africa.
La delusione emiratina, dettata anche da interessi e rivalità specifiche, potrebbe allargare una faglia, riaccendere una competizione, sebbene questa non si sia mai spenta, tra Dubai e Riad?
La competizione esiste ed è molto presente. Quello che si può dire è che il ruolo degli Emirati sarà molto importante e Dubai potrebbe essere il vero ‘game changer’ in questo processo di riavvicinamento o meno. Quindi, prima di dire se c’è o meno una svolta, aspettiamo di vedere se effettivamente gli Emirati manterranno il gioco o creeranno le condizioni per aprire nuove situazioni di conflitto con il Qatar.
Due anni fa, il Qatar ha deciso di uscire dall’OPEC, anche se più in polemica per il carattere quasi esclusivamente petrolifero del cartello piuttosto che per motivi politici. Ciò detto, Doha potrebbe comunque decidere di rientrare a fare parte del cartello?
Difficile dirlo, ma, per il Qatar, l’OPEC non è mai stata una priorità qatarina visto che è un Paese che vive grazie al gas e, sopratutto, al GNL e al suo export. Quindi il suo ruolo nell’OPEC è stato sempre tendenzialmente marginale. Non credo che potrà incidere questo. Quello che sarà importante sarà, forse, contribuire a definire delle procedure o condizioni di mercato più favorevoli inteso come cartello energetico, quindi come petrolio e gas.
In altre parole, dare maggiore equilibrio ai due comparti.
Esattamente, quella, secondo me, è un’ipotesi da non trascurare.
L’Italia intrattiene solidi rapporti con il Qatar, che spaziano dall’economia alla difesa. Lo stesso ex Premier e oggi leader di Italia Viva, Matteo Renzi, che ha una grande consuetudine con l’Emirato, ha accolto con gioia la notizia dell’accordo. Nelle prossime ore il Ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, si recheranno in visita ufficiale in Giordania e Arabia Saudita. È, dunque, un bene anche per l’Italia questa svolta?
Assolutamente sì, ma è un vantaggio il Golfo in generale visto che l’Italia è molto presente in questi Paesi. Questa condizione a avvantaggia le capacità italiane, ma consente anche all’Italia di muoversi in un contesto che era già di per sé estremamente difficoltoso.
Il programma militare qatarino, negli ultimi anni, soprattutto per le tensioni esistenti, si era molto espanso anche grazie all’aiuto dell’alleato turco. Dopo la pandemia con i suoi risvolti economici e l’intesa appena sottoscritta, verrà ridimensionato?
Probabilmente no, perché questa è una situazione di apparente miglioramento e non è detto che le apparenze mostrino effettivamente una condizione reale di distensione. Quindi, i programmi di riarmo andranno avanti, ma non con quel peso che ci si aspettava, dato il contesto economico di fragilità.
Quali conseguenze questa intesa potrebbe avere su fronti caldi come Libia, Siria, Yemen?
Probabile che, al netto della retorica che rimarrà, ci potranno essere dei momenti di distensione non apparente nel senso che si andrà avanti con un piano diplomatico che favorirà, da questo punto di vista, una ripresa del dialogo non ufficiale. Quindi non aspettiamoci degli stravolgimenti, ma consideriamo l’opportunità di svolte parziali. Anche la visita del Ministro degli Esteri egiziano di qualche giorno fa rientra in questo processo. La diplomazia potrebbe tornare ad avere un ruolo e a fungere da volano per la pacificazione.
Sono da escludere colpi di coda di Trump in Medioriente nei prossimi dieci giorni prima dell’inauguration day di Biden?
Mai dire mai con Trump, ma i tempi mi sembrano stretti.
“Il calcio ha dimostrato durante questa crisi di essere una piattaforma di scambio unica per le persone del Golfo e sono sicuro che continuerà a unire la regione nel prossimo futuro”, ha detto Gianni Infantino, il Presidente della FIFA. Se sarà un’intesa strategica oppure no sarà il tempo a dircelo. Intanto, pandemia permettendo, sono, invece, forse, salvi i mondiali di calcio 2022.
Esatto!