Il boom dei nazionalisti rompe il duopolio delle forze tradizionali, Fine Gael e Fianna Fail, aprendo scenari preoccupanti per Londra

 

È ancora in corso, dopo due giorni, lo spoglio dei voti dei per il rinnovo del Parlamento in Irlanda. A primeggiare con il 24,5% dei suffragi, stando ai risultati parziali, la sinistra nazionalista dello Sinn Fein. Una «rivoluzione» l’ha definita la sua leader Mary Lou McDonald considerato che, per la prima volta nella storia del Paese, l’ex organo politico dell’Irish Republican Army(IRA) durante i ‘troubles’ contro il dominio britannico e marcatamente a favore della riunificazione con l’Ulster, è riuscito a squarciare il duopolio formato dai due partiti di centro-destra, Fine Gael e Fianna Fail che, in alternanza, hanno preso le redini del governo nell’ultimo secolo.

A favorire l’exploit dello Sinn Fein, a scapito del partito di governo Fine Gael (20,9%) del Premier uscente Leo Varadkar che aveva indetto le elezioni per rafforzare il suo partito alla guida di un governo di minoranza, e di Fianna Fail (22,2%),  un programma economico e sociale radicale, capace di riscuotere il consenso di buona parte delle generazioni più giovani. Dato che conferma la grande affluenza registrata alle urne, pari al 62,9% e che si spiega anche con la richiesta di risposte da parte delle fasce di più basse dell’elettorato rispetto agli ‘effetti collaterali’ dell’austerity, conseguente alla crisi del 2008 e fatta di tagli alla spesa pubblica oltre ad aumenti delle imposte, che hanno colpito soprattutto il welfare, l’assistenza sanitaria e hanno causato un’emergenza abitativa senza precedenti.

Questi duri sacrifici hanno rimesso l’economia in carreggiata (la crescita viaggia al 5% mentre la disoccupazione è al 4,8%), ma hanno penalizzato il Fine Gael a scapito dei nazionalisti. Un risultato, questo, che, nonostante l’assenza di una maggioranza definita, dona nuovo vigore alle istanze nazionaliste e, per questo, in modo ufficioso per il momento, preoccupa il governo di Londra, alle prese con le trattative con l’Unione Europea, in seguito alla Brexit, vista l’accelerazione che l’uscita dall’UE sembra aver impresso alle forze centrifughe. Appare evidente il rischio dell’ingovernabilità, visto che in campagna elettorale sia il leader del Fine Gael Varadkar che quello di Fianna Fail, Michel Martin hanno scartato qualunque idea di dialogo con lo Sinn Fein che, a sua volta, ha posto come condizione per un suo ingresso in una compagine di governo l’indizione di un referendum sulla riunificazione entro il 2025.

E’ solo l’inizio dei giochi di alleanze per la formazione del governo e oggi si sono registrati già i primi sviluppi: «Lo Sinn Fein ha vinto le elezioni, abbiamo vinto il voto popolare. Abbiamo registrato una vittoria storica per il nostro partito» ha dichiarato McDonald, aggiungendo che «potrei essere la prossima Taoiseach» (anche di un governo di minoranza con i partiti minori) e aprendo a possibili inedite alleanze. Apertura confermata anche da Martin, capo del Fianna Fail, che, ha dichiarato, in quanto «democratico» e rispettoso «del voto del popolo» non ha escluso una coalizione con i nazionalisti.

«Queste elezioni sono come una linea di demarcazione sulla sabbia. É un messaggio molto chiaro ai due vecchi establishment politici, i loro giorni di dominio sono finiti», ha concluso McDonald. Concetto ribadito su Twitter anche dal vecchio leader di Sinn Fein Jerry Adams che in un fotomontaggio mostra Varadkar e Martin in vesti di neonati tenuti saldamente fra le braccia dalla leader nazionalista Mary Lou, con la didascalia irriverente: »È tempo di mettere a nanna i pupi».

Sarà veramente così, posto che, nel sistema locale proporzionale trasferibile con conteggio delle prime preferenze e poi di quelle successive, queste ultime potrebbero penalizzare il partito di McDonald a vantaggio di quelli di Martin e Varadkar? E, ancor più importante, quali conseguenze avrà per il Regno Unito e per le sue trattative con l’UE? Lo abbiamo chiesto a Fabio Parola, ricercatore ISPI per il programma Europa e governance globale.

 

È ancora in corso lo spoglio delle schede elettorali irlandesi, ma il partito nazionalista di sinistra, Sinn Fein, sembra in vantaggio. Come si spiega, anche rispetto alle elezioni europee dello scorso anno, l’exploit dell’ex organo politico dell’Irish Republic Army (IRA) durante i ‘troubles’ contro il dominio britannico, in questa tornata elettorale? Quali sono stati i suoi punti di forza?
È sicuramente vero che Sinn Fein viene da un passato di braccio politico di un gruppo para-militare. Quindi il peso della storia si è fatto sentire, ma per chi quella storia l’ha vissuta, cioè le generazioni più anziane: infatti le generazioni ‘over 65’ hanno votato in maggioranza per i partiti di centro, centro-destra. Per i più giovani, invece, questa eredità storica non è più così forte ormai e, in questo senso, anche la dirigenza dello Sinn Fein ha saputo leggere bene un cambio di sensibilità nell’elettorato, soprattutto quello più giovane e ha saputo intelligentemente ridefinire il messaggio politico, oltre ad andare a marcare il proseguo dell’impegno a favore dell’unificazione dell’isola: è andato a toccare temi di politiche sociali ed economiche, molto sentiti dalla parte più giovane della popolazione e che dopo la crisi sono diventati centrali nel dibattito pubblico.
Quindi è stata centrale, secondo Lei, l’assenza della vecchia dirigenza, dei padri storici, Jerry Adams e prima Martin McGuinness, nella capacità di Sinn Fein di leggere in modo più ampio, la realtà irlandese contemporanea?
Uscendo piano piano di scena i protagonisti storici dei ‘troubles’ e di tutti gli anni più intensi di lotta anche armata, sono arrivati nuovi leader che quella lotta non l’hanno vissuta e hanno potuto concentrarsi su lati più pragmatici della piattaforma politica, andando a vedere ciò di cui la società irlandese ha bisogno, al di là della lotta all’indipendenza. L’ideologia comunque resta perché la dirigenza ha commentato la vittoria dicendo che la sinistra, alla fine, non è vero che non può vincere né che un messaggio a favore del welfare state non ha più credito in Europa, ma che bisogna farlo con dignità. Rimane il fatto che Sinn Fein non ha mai governato.
Se Sinn Fein pare vincere, il Labour Party inglese due mesi fa ha perso. Dunque quello del partito nazionalista irlandese è destinato a rimanere un caso isolato nel panorama delle sinistre europee?
Credo che il tema della ridistribuzione e della giustizia sociale ci fosse anche nelle elezioni inglesi. Nel Regno Unito, però, questo tema era intrecciato con quello di Brexit, dove la periferia ha fatto sentire la propria voce contro l’élite urbana che beneficiava della globalizzazione e che aveva un forte accentramento di risorse e di capitali. Quindi un tema di ridistribuzione legato, anche intelligentemente dai conservatori di Johnson, a quello della Brexit. In questo senso, la povera performance dei laburisti era stata dovuta al fatto che la dirigenza non aveva avuto una posizione chiara su Brexit che era stata la principale tematica del dibattito pubblico degli ultimi anni. La Brexit, però, era una questione di politica estera ed era stata gestita dal Primo Ministro e poi dai funzionari dei ministeri.
Ha contato nel successo elettorale dello Sinn Fein una dirigenza tutta al femminile con Mary Lou Mcdonald a Dublino e Michelle O’Neill a Belfast?
È difficile dire sì o no perché non abbiamo la contro-prova. Sicuramente il fatto che abbiamo delle nuove dirigenze che sono giovani, relativamente meno ‘radicalizzate’ dal punto di vista ideologico rispetto ai predecessori, ed anche leadership femminili, sicuramente tutto questo va a beneficio di un’immagine progressista, di rottura con il passato. Di certo, quindi, è stato un elemento coerente rispetto al messaggio politico, di freschezza.
Dal punto di vista del programma politico, dopo l’abbandono delle armi in seguito all’Accordo del Venerdì Santo, come si è evoluto lo Sinn Fein? 
Certamente sui temi di politica economica, Sinn Fein si configura come un partito progressista, rispetto ad un Paese che ha registrato fortissimi tassi di crescita negli ultimi anni, ma anche a costi molto alti.
Stop alle agevolazioni fiscali, no alla speculazione edilizia, maggiore retribuzione e più spesa sociale per scuole e ospedali pubblici: questo è il programma economico lo Sinn Fein. Ma è sostenibile per le finanze della Tigre celtica?
Bisognerebbe tornare al 2008 e vedere cosa sarebbe successo se il governo irlandese non avesse deciso di scendere in qualche modo a patti con le esigenze delle grandi multinazionali informatiche e del web. È una spinta che si è trovata a convivere con un’altra esigenza del governo che era quella di pareggiare i conti per poter continuare a ricevere il sostegno finanziario dall’Unione Europea. Anche agli occhi dell’elettorato ci si trovava di fronte ad un governo che agiva apparentemente più a favore delle imprese che non dei cittadini nel senso che portava avanti delle politiche di austerità e di controllo della spesa pubblica che andavano a pesare su sanità, infrastrutture, ecc.. e dall’altro facevano accordi per la riduzione del cuneo fiscale per attrarre quelle aziende che davano una spinta enorme alla crescita del PIL, ma, ad esempio, facevano crescere a dismisura il costo delle case soprattutto a Dublino dove avevano sedé queste multinazionali e dove vivevano i dipendenti. Un’immagine difficile da giustificare agli occhi degli irlandesi. Per quanto riguarda la sostenibilità, molto dipenderà dal contesto europeo e dal mercato del digitale nel senso che la scelta da parte di Apple e altre grandi aziende informatiche di Dublino come sede fiscale favorisse la crescita irlandese derivava dal fatto che all’epoca c’era la possibilità politica di stringere questo tipo di accordi con i giganti del web. Adesso che tutto il mondo, e anche tutti i 27 Paesi membri discutono di coordinamento per evitare una corsa al ribasso delle condizioni fiscali, le cose non è detto che cambino. La domanda è: dove andrebbero queste aziende per usufruire del mercato unico europeo? Non vedo, da questo punto di vista, un esodo del digitale dall’Irlanda. Come non se ne è andata Apple quando l’UE aveva imposto governo irlandese di recuperare 13 miliardi di euro di tasse non riscosse, la multa più grande mai comminata ad un gigante del web.
Quindi più propaganda che altro caratterizza il programma politico di Sinn Fein?
Dipende dalla volontà politica e, soprattutto, da chi starà al governo, se ci sarà Sinn Fein oppure no. 
Sinn Fein, per certi versi, è riuscito anche ad intercettare parte dell’elettorato dei laburisti?
Sì, probabilmente è riuscito ad intercettarlo grazie a dei messaggi di rottura, di rinnovamento oltre che all’istanza indipendentista. Tra i vari partiti della sinistra, i laburisti erano forse quelli con il messaggio meno innovativo e, quindi, meno incisivo. 
A cosa è dovuto il calo del Fine Gael, il partito di centro-destra del Premier uscente Leo Varadkar che ha indetto queste elezioni per rafforzare la sua forza politica, alla guida di un governo di minoranza, ma che ora si trova alle prese con una diminuzione di consensi, anche rispetto alle elezioni europee del 2019?
Sul lato interno, da un lato politiche di austerità, dall’altro esplosione delle disuguaglianze anche dovuta a questa mole di investimenti dall’estero; sul lato esterno, c’è stata una grande concentrazione del governo sulle negoziazioni per Brexit, ottima cosa anche per facilitare il lavoro dell’Unione Europea, che però ha tolto attenzioni ai problemi economici interni al Paese.
Messi sul piatto della bilancia dall’elettorato, gli ‘effetti collaterali’ delle politiche economiche del governo del Fine Gael, nonostante gli ottimi risultati -tasso di crescita al 5% e disoccupazione al 4,8%- hanno pesato di più, penalizzando il partito di centro-destra al governo?
Si, ma dipende sempre, da quella che è la strada tracciata dal governo per uscire dalla crisi. Qui, a differenza, per esempio, del Portogallo che, però, ha un problema enorme di spesa in infrastrutture, c’è stata forse una scommessa molto veloce, ma trainata da molti investimenti esteri e poco valore aggiunto per l’economia locale, quindi un po’ squilibrata. 
Perché, secondo Lei, il negoziato di Varadkar contro l’ipotesi di un Hard Brexit che avrebbe danneggiato l’Irlanda, non ha aiutato Fine Gael e quindi il Premier uscente?
Potremmo provare a dare una risposta partendo da un dato di fatto: le conseguenze di una Hard Brexit rientrano nell’alveo delle ipotesi. Dall’altra parte c’è cosa sta facendo il problema irlandese oggi per rispondere ai problemi della società. Inoltre Brexit era un problema a cui veniva data importanza, ma, probabilmente, essendo anche una tematica su cui c’era unità di intenti da parte di tutte le forze politiche del Paese, non era divisivo e quindi centrale per le campagne elettorali dei partiti.
In quest’ottica, dunque, Brexit non è stata così rilevante nella scelta di voto dei cittadini?
Sì. Sicuramente è stata gestita in modo responsabile, anche nell’interesse dell’Unione Europea, e non era scontato che tutti partiti fossero dalla stessa parte per tre anni.
Come si spiega lo scarto, anche minimo, tra i due partiti di centro-destra, Fine Gael e Fianna Fail? 
Lo scarto è abbastanza ridotto. In un sistema che fino a Sabato era stato praticamente bipartitico, i pesi erano più o meno equivalenti nel senso che, essendoci stata un’alternanza di governo piuttosto stabile, anche la forza dei due elettorati si era relativamente cristallizzata.
Il boom di Sinn Fein, marcatamente a favore della riunificazione dell’Irlanda, come già accaduto a Dicembre nell’Ulster dove il consenso dei nazionalisti è esploso, conferisce nuova linfa alle istanze degli unionisti irlandesi, a scapito degli unionisti britannici (DUP e UUP)?
Sì e questo si è visto sia a Westminster, quando è stato accolto molto male, quasi come un tradimento, dagli unionisti nordirlandesi l’accordo di Johnson che rendeva l’Irlanda del Nord una zona speciale, con una doppia legislazione sulle merci, con un doppio regime dei dazi, con delle prospettive complicate sulla gestione concreta di questi regimi, di questi controlli alle frontiere, sul Mare d’Irlanda. Una situazione che nemmeno oggi è chiara e di cui non si conosce l’impatto sull’economia nordirlandese. Alle elezioni politiche del Regno Unito, in Irlanda del Nord, per la prima volta, i nazionalisti, quelli a favore della riunificazione dell’isola, hanno pareggiato i seggi con gli unionisti. C’è quindi una spinta che è stata gonfiata da come è stata gestita Brexit da Londra: Theresa May aveva provato a fare un accordo che era irricevibile perché teneva insieme due opposte esigenze, sganciarsi dall’Unione Europea e dal mercato unico, ma mantenere un confine unico tra le due Irlande; Johnson ha trovato una soluzione, ma sacrificando l’Irlanda del Nord.  Chiaramente il caso degli unionisti che si dicono fedeli alla permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito è stato indebolito, ma dall’altra parte quelli a cui bisogna restare fedeli non hanno mostrato pari fedeltà al momento della decisione.
Viene letta con preoccupazione questa ascesa dello Sinn Fein a Londra visto che queste elezioni confermano, dopo l’uscita ufficiale dall’UE, l’accelerazione che la Brexit ha impresso alle forze centrifughe delle nazioni del Regno Unito? 
Tutte e tre le assemblee legislative di Scozia, Galles e Irlanda del Nord hanno votato contro l’accordo Brexit. Normalmente, per una legge portata avanti dal Parlamento centrale, affinché passi, c’è bisogno dell’assenso di queste tre assemblee. In questo caso, sebbene l’assenso fosse mancato, Johnson ha deciso comunque di andare avanti per la ‘circostanza speciale’ che non permetteva di aspettare. Il problema è che Johnson parla al suo elettorato inglese, non del Regno Unito, quindi a solo uno dei quattro Stati che fanno parti del Regno Unito. Degli altri tre, la Scozia ha già annunciato un referendum; l’Irlanda del Nord ha risposto eleggendo per la prima volta un Parlamento che per metà è composto da una  forza politica che vuole la riunificazione dell’isola; il Galles ha già bocciato l’accordo per le incertezze future sui loro porti quando si tratterà di fare i controlli sulle merci. Sarebbe paradossale se, in un futuro più o meno lontano, la Brexit, che si diceva avrebbe portato pian piano, con un effetto domino, alla dissoluzione dell’Unione Europea, portasse invece ad una fuga delle altre tre nazioni del Regno Unito. Ci sarebbe sicuramente di che preoccuparsi: bisogna vedere quanto peso avranno le voci degli elettori gallesi, scozzesi e nord-irlandesi nelle considerazioni politiche di Boris Johnson.
L’esito di queste elezioni irlandesi può influire sulle trattative tra Regno Unito e UE, dopo la Brexit?
C’è il rischio che influisca soprattutto se, ora che la prima e più cruciale di Brexit è stata raggiunta, ci fosse un rilassamento dell’opinione pubblica rispetto al tema di Brexit, venendosi a perdere l’unità che c’era stata durante i negoziati portati avanti finora, con l’opposizione piuttosto silenziosa, senza mettere in discussione la legittimità del governo nel condurre le trattative. Se adesso passasse il messaggio che ormai la Brexit è fatta e che si può tornare a fare politica come prima, il rischio è che, da un lato, si abbia un’Unione Europea molto più unita nei negoziati rispetto ad un Regno Unito in cui tre Paesi su quattro hanno manifestato il loro malcontento. Qui sarà una questione di forza negoziale e bisognerà vedere sia quali saranno le alternative dal punto di vista internazionale e poi quale sarà l’evoluzione politica interna.
Posto che ancora non si conosce l’esito definitivo del voto e non si sa se Sinn Fein entrerà a far parte della coalizione di governo visto che ha posto come conditio sine qua non l’indizione di un referendum sulla riunificazione entro il 2025, qual’è oggi l’effettiva presa delle istanze unioniste nelle due Irlande?
Bisognerebbe avere dei sondaggi per dirlo. Se, però, si guarda alle ultime due elezioni nelle due Irlande, nelle elezioni di Sabato il tema dell’indipendenza c’era, ma non era così dominante come i temi economico-sociali, portate avanti, però, da una forza da sempre a favore della riunificazione. Questo tema è stato però cruciale nelle elezioni di Dicembre nel determinare la performance dei nazionalisti in Irlanda del Nord, dove invece si stava giocando un voto che era tutto incentrato sui rapporti tra Londra e periferia del Regno Unito. Un segnale così forte dei nazionalisti irlandesi va certamente nella direzione di una nuova attenzione per i temi della riunificazione più che al Sud.
Peraltro, a differenza del caso catalano, Londra non potrebbe impedire un referendum visto che è riconosciuto anche dagli Accordi del Venerdì santo.
Esatto. Una differenza sottilissima, ma abissale. 
La crescita delle forze nazionaliste anche nel Sud rischia di rafforzare il processo di indebolimento degli unionisti lealisti dell’Ulster, come già si è visto nelle elezioni di dicembre?
Sì, dipenderà molto da come si porrà l’Ulster rispetto ai negoziati per Brexit. Già un primo ‘tradimento’ c’è stato ed è stato visto come tale in Irlanda del Nord. Se questo è l’atteggiamento, è possibile che si prosegua così. 
La leader di Sinn Fein, Mary Lou McDonald, prima del voto, aveva dichiarato che il suo partito entrerebbe a far parte di una coalizione di governo a patto che entro il 2025 si tenga un referendum per l’unificazione dell’isola. Ma questa istanza che caratterizza il partito da sempre, a fronte delle odierne aperture della leader nazionalista alla formazione di un governo, potrebbe essere oggetto di compromesso con le altre forze politiche?
Secondo me il tema dell’unificazione rimarrà sul tavolo. È difficile che Sinn Fein possa tacere su un punto così fondamentale. Difficile possa essere messo da parte. Se dovessi ipotizzare, penso che qualche tipo di consultazione si farà anche perché la coincidenza storica di uno Sinn Fein così forte sia a Belfast che a Dublino è molto raro si ripeta in futuro. Quindi c’è pressione su entrambi i lati affinché questo accada. Dopodiché fanno un referendum, ma poi dovranno fare l’indipendenza quindi la vera partita sarebbe su cosa fare dopo il voto. 
L’intransigenza sul referendum non rischia di tagliare fuori Sinn Fein dalle trattative di governo?
Chiaramente sì, ma la domanda è cosa succederebbe se si facesse ancora una volta un governo senza Sinn Fein: sarebbe un segnale abbastanza negativo per l’elettorato e potrebbe aprire la probabilità di una nuova elezione a breve in cui Sinn Fein potrebbe fare un pieno di voti, ben superiore a quello che ha fatto Sabato. Se venisse tagliato fuori un altra volta, sarebbe segno di un’assurdità piuttosto difficile da spiegare agli elettori da parte delle forze storiche. Insomma, soprassedere su tutte le istanze di Sinn Fein mi sembra difficile.
Crede possibile un’alleanza tra i due partiti di centro-destra, Fine Gael e Fianna Fail,  prima rispettivamente al governo e all’opposizione, magari con Premier Martin?
È stato possibile, anche se informalmente, in questi anni di governo di minoranza. Il voto è comunque un segnale abbastanza forte con Varadkar. Gli stessi dirigenti di Fine Gael dicevano che un periodo all’opposizione potrebbe fargli anche bene. Certo non si può escludere che ci sia una coalizione che formalizzi quel sostegno esterno reciproco che c’era stato fino adesso. Ma questo vorrebbe dire passare sopra un segnale di questa forza da parte dell’elettorato.
Il leader di Fianna Fail, Michel Martin, oggi, ha affermato di non escludere un governo di coalizione con i nazionalisti in quanto – ha dichiarato – “sono un democratico e rispetto il verdetto del popolo”. Esistono i margini dal punto di vista di elettorato, dirigenze e programmi perché un accordo possa essere stretto?
Ormai siamo abituati a vedere, dall’Italia alla Germania, le alleanze più strane. Si è un po’ rotto il tabù delle alleanze tra estremi. Dipende da quanto saranno disposte a scendere a patti le due parti. L’esigenza di rispondere a quei problemi di equità sociale e di politica di welfare mi sembra che sia abbastanza evidente perché anche un partito di centro-destra possa vederne l’utilità politica. Probabilmente, se c’è abbastanza volontà politica per farlo, un accordo può essere trovato sicuramente.
Un governo di minoranza di Sinn Fein con i partiti minori può essere possibile?
Bisogna vedere i numeri.
E i Verdi che, tra l’altro, hanno avuto un balzo in avanti?
Potrebbero diventare un terzo kingmaker non per essere autonomi, ma abbastanza grandi da determinare la coalizione di governo in un senso o nell’altro.