La firma dell’accordo di Doha segna la vittoria dei talebani che si preparano a riprendere il potere e la sconfitta di Washington

 

Era solo una questione di giorni dopo l’intesa sulla riduzione delle violenze. E alla fine il momento tanto atteso è giunto: il 29 febbraio, a Doha, gli Stati Uniti e i talebani hanno siglato l’accordo per mettere fine alla guerra che si protrae da oltre diciotto anni in Afghanistan. A firmare il documento, di fronte al rappresentante statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, e al Segretario di Stato Mike Pompeo, il segretario alla Difesa americano, Mark Esper e il delegato talebano Abdul Ghani Baradar.

Le trattative avevano preso avvio nel 2007 dall’allora Presidente afghano Ahmid Karzai, poi subirono un arresto e ripresero nel 2012 con i dialoghi di Doha, più volte interrotti come nel Settembre del 2019, quando una delegazione talebana si sarebbe dovuta recare a Washington. Se l’accordo sancisce la fine della guerra tra Stati Uniti e talebani, rimane tuttavia in atto quella tra i talebani e il governo di Kabul, che è stato di fatto estromesso dalle trattative, insieme alla società civile, le donne in particolare, che rischiano di vedere messi di nuovo in discussione quelle poche conquiste sono riuscite a conseguire. Il timore del Presidente afghano Ghani, a questo punto, è di fare la fine del 1996 quando i talebani conquistarono Kabul e uccisero l’ex presidente filo-russo Mohammad Najibullah, anche con l’appoggio di Osama bin Laden.

Il futuro si deciderà nelle trattative intra afghane il cui inizio, stando all’accordo appena firmato, è previsto per il prossimo 10 Marzo, a cui parteciperanno anche la società civile e l’opposizione parlamentare per «stabilire un permanente e duraturo cessate il fuoco» e  «concordare una road map per il futuro politico» del Paese. Il governo afghano parteciperà a tale vertice se avrà rilasciato 5.000 talebani detenuti, ottenendo, in cambio, la liberazione di 1.000 prigionieri. Un nodo, questo, che potrebbe rivelarsi la prima mina nella solidità dell’accordo tra le diverse parti afghane.

Gli Stati Uniti, oltre a cancellare le sanzioni contro i leader talebani, si sono impegnati a ridurre le proprie truppe, passando nei prossimi 135 giorni dalle attuali 13.000 alle previste 8.600, per poi azzerarsi entro i prossimi 14 mesi se i patti saranno rispettati, tra cui quello di troncare i rapporti con i gruppi terroristici internazionali come Al Qaeda. «Se i Talebani e il governo dell’Afghanistan terranno fede agli impegni, si aprirà un efficace percorso verso la fine della guerra e potremo portare le nostre truppe a casa. Questi impegni rappresentano un passo importante verso una pace duratura nel nuovo Afghanistan, liberato da Al Qaeda, dall’Isis e da altri gruppi terroristi che vorrebbero farci del male» ha dichiarato Donald Trump, convinto, tuttavia, della necessità di «andarcene da conflitti lontani, che non ci riguardano».

Piuttosto cauto è stato il suo Segretario di Stato, Mike Pompeo, secondo cui «questo accordo non significherà nulla e la buona sensazione di oggi non durerà se non adotteremo misure concrete per tenere fede alle promesse. Toccherà agli afghani determinare il futuro del loro Paese. L’intesa Stati Uniti-Talebani crea solo le condizioni per andare avanti». In caso di mancato rispetto da parte talebana, ha detto Esper, l’accordo diventerebbe “carta straccia”.

Il leader degli studenti coranici, l’emiro Hibatullah Akhundzada ha garantito, dal canto suo,  che “uomini e donne” dell’Afghanistan “godranno dei loro rispettivi diritti ed ha ordinato la sospensione immediata di tutti gli attacchi contro le forze di sicurezza afghane”. Il negoziatore capo Baradar ha però precisato che l’obiettivo è l’ ‘emirato islamico’, parole che sanno tanto di ‘restaurazione’, con buona pace delle conquiste sul piano dei diritti.

Questa guerra è costata la vita a 2440 soldati americani (oltre 3500 considerata tutta la coalizione) caduti sul campo, oltre a circa 20mila feriti (anche l’Italia ha perso 54 uomini e 650 sono rimasti feriti). 38mila i morti, invece, tra la popolazione civile locale. In termini economici, sulla base delle stime dello studio Costs of War della Brown University, l’America ha spesso ben 2 trilioni di dollari: per dare qualche cifra, circa il 60 percento della spesa annuale è andato in addestramento, carburante, veicoli e strutture; i costi di trasporti aerei o marittimi hanno occupato circa l’8%, ovvero dai 3 miliardi ai 4 miliardi di dollari all’anno; 87 miliardi di dollari sono stati destinati  ad addestrare le forze militari e di polizia afghane; 24 miliardi di dollari per lo sviluppo economico afghano; 30 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese; oltre 10 miliardi di dollari nella lotta contro il traffico di oppio; più di 500 miliardi in interessi sui finanziamenti a debito.

La storia di questo conflitto inizia poche ore dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 Settembre 2001: Washington accusa Osama Bin Laden, richiedendo la sua estradizione all’emirato dell’Afghanistan dove  può contare su una rete di basi. I talebani, però, rigettano la richiesta americana, memori di quanto il leader di Al Qaeda aveva fatto per supportare la lotta contro gli invasori sovietici. Con l’operazione ‘Enduring Freedom’ inizia una guerra di oltre 18 anni, la più lunga nella storia d’America. Stati Uniti e Regno Unito supportano i guerriglieri afghani dell’Alleanza del Nord e, dopo neanche un mese e mezzo, Kabul è presa. L’ONU intraprende l’operazione internazionale Isaf per rafforzare il governo di Kabul.

Inizia il lavoro diplomatico: la Conferenza di Bonn designa Hamid Karzai come Presidente ad interim, una figura non molto vicina ai talebani. Una designazione confermata nel 2002 da una Loya Jirga. Il Segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, annuncia la fine delle azioni il 1 marzo 2003, ma la realtà è ben diversa da quella presentata: l’Afghanistan è ancora in balia dei talebani, nonostante si inizi a pensare ad una nuova Costituzione. Tuttavia, sta per cominciare l’offensiva in Iraq contro Saddam Hussein e il destino di Kabul pare non essere preoccupante.

Karzai riceve investitura ufficiale dalle urne nel 2004 e nel Parlamento si fanno strada le figure più note della guerra, che vivono della guerra e dei traffici di oppio che iniziano ad avere un ritmo sostenuto. La NATO, che intanto si è assunta il compito di garantire la sicurezza del Paese, subisce attacchi in misura sempre maggiore. Aumenta il contingente schierato che arriva a sfiorare le 150mila unità (di cui 110mila solo americane). Le opinioni pubbliche dei vari Paesi coinvolti sembrano sempre più colpite dalle perdite e, al summit di Lisbona, su pressione dell’amministrazione Obama, l’Alleanza Atlantica decide di trasferire l’impegno della sicurezza alle forze afghane locali entro il 2014, anno al termine del quale si conclude anche la missione Isaf, sostituita dalla Resolute Support, avente lo scopo di assistere e addestrare le truppe afghane.

Dopo 18 anni di scontri, l’Afghanistan resta un Paese in grandi difficoltà economiche (nonostante le grandi potenzialità sul piano dell’agricoltura e dei minerali), con istituzioni deboli e colpite dalla corruzione, diritti civili precari. I talebani invece controllano buona parte del territorio, oltre ad avere in mano in prevalenza il settore ad oggi più remunerativo dell’economia afghana, la produzione dell’oppio. E l’uscita di scena americana potrebbe spianargli la strada alla riconquista del potere. Ecco spiegata la loro soddisfazione per quella che, nei fatti, è una vittoria: «Questo è l’albergo che d’ora in poi diventerà un hotel storico», si poteva leggere Venerdì 28 Febbraio sull’account Twitter del capo multimedia dei talebani, «Qui sarà annunciata la sconfitta dell’arroganza della Casa Bianca di fronte al turbante bianco».

Chi sono, dunque, i vincitori e i vinti dell’accordo di Doha? Quali conseguenze avrà sul futuro dell’Afghanistan? Cosa faranno, alla fine, gli Stati Uniti? Ne abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, Direttore di Start Insight e analista dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).

 

L’accordo siglato da Stati Uniti e talebani a Doha è sembrato a molti esperti alquanto debole, ambiguo. Perché? E chi sono i vincitori e i vinti?
Tra i vincitori, ci sono in primis i talebani che si vedono riconosciuti un ruolo ufficiale, anche sul piano delle relazioni internazionali, benché non come Stato stando al documento, però come realtà. I talebani sono dunque un interlocutore, se non l’unico vero interlocutore al tavolo negoziale. Questo perché, passando ai vinti, il governo afghano è stato volutamente escluso dai talebani che non lo considerano legittimo e che hanno subordinato il suo coinvolgimento ad un accordo diretto con gli Stati Uniti. I quali, quindi, perdono la guerra come la perde la NATO a fianco di Washington, benché con un ruolo diverso. Forse un accordo negoziale era l’unico modo per concludere davvero una guerra ormai persa. Un accordo negoziale, non una pace, per il ritiro delle truppe statunitensi, certamente vincolato ad alcuni paletti che sono stati imposti più per forma che per necessità nell’accordo quale, ad esempio, la riduzione della violenza. Un altro vincitore, invece, è Donald Trump che presenterà questo jolly conquistato al tavolo negoziale a Doha nella campagna elettorale per le presidenziali e i tempi stessi dell’accordo seguono i ritmi elettorali di Trump: la grande decisione del ritiro di tutte le truppe avverrà nel secondo mandato o sarà responsabilità del prossimo Presidente.
In molti sostengono che, anche in virtù della necessità di stringere i tempi con le elezioni alle porte, Washington abbia giocato al ribasso nel fare le sue richieste. È così? Poteva fare di meglio?
Washington ha fatto le richieste che riteneva opportune in virtù della necessità di dover andare via dall’Afghanistan, quindi nulla che i talebani non avrebbero accettato, o meglio tutto ciò che i talebani non hanno accettato non è stato inserito in quell’accordo: in primo luogo, il prerequisito dell’accordo di pace che era un po’ la bandiera dei tentativi di dialogo fino ad un paio di anni fa; il dialogo intra-afghano, in secondo piano, che dovrebbe iniziare il prossimo 10 Marzo, ma è tutto da vedere; il rispetto della Costituzione afghana. Non c’è alcun riferimento al rispetto della Costituzione afghana, i talebani stessi hanno dichiarato che il futuro dell’Afghanistan è l’ ‘emirato islamico’, ciò che i talebani hanno cercato di imporre dal 2001 in avanti da quando gli Stati Uniti hanno battuto il primo emirato dell’Afghanistan guidato dai talebani. E, per quanto riguarda i famosi diritti, non si fa riferimento alla carta costituzionale e quindi tutta la questione che è stata bandiera dell’Occidente in Afghanistan con la famosa ‘esportazione della democrazia’ e dei diritti dei cittadini, in primis per le donne, è stata accantonata, archiviata. Tutto ciò che verrà mantenuto sarà una concessione da parte dei talebani.
Nessuno vuole terminare guerre senza fine più di coloro che le hanno sperimentate in prima persona e ne hanno compreso il prezzo. Ma dobbiamo terminarle nel modo giusto o, come abbiamo imparato in passato, potremmo dover tornare” ha dichiarato il Generale Petreus, ex comandante delle truppe americane in Afghanistan ed ex direttore della CIA. È così? E cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti per terminare “nel modo giusto” la guerra in Afghanistan?
Quello che poteva fare lo ha fatto: dal punto di vista militare, ha schierato il massimo numero di truppe negli anni 2010-2012, 140mila unità comprese quelle della NATO, all’interno di una strategia controinsurrezionale che è fallita perché è tutto dettato dai ritmi della politica interna statunitense. Dalla contro-insurrezione non conclusa si è passati alla Security Forces Assistance cioè al supporto alle forze di sicurezza locali dichiarate autonome e indipendenti sul campo di battaglia prima ancora che queste avessero raggiunto realmente i requisiti minimi per poter essere impiegate sul terreno a livello autonomo. Oggi abbiamo oltre il 50 per cento delle forze di sicurezza afghane che non sono in grado di poter operare, ma perché mancano di equipaggiamenti base, perché manca la capacità di manutenere i veicoli che gli americani gli hanno lasciato in dotazione. E poi i talebani hanno ormai conquistato quasi la metà del Paese e sono in grado di muoversi su tutte le vie di comunicazione, riuscendo ad attaccare anche il cuore del Paese. Da quel punto di vista, gli americani hanno fatto tutto quello che potevano fare: lo hanno fatto malissimo, a singhiozzo, cambiando continuamente sia la strategia che l’obiettivo. Si passava dall’abbattimento di un regime e basta al tentativo di costruzione di uno Stato al supporto a quello Stato nonostante manchino gli elementi base per poterlo mandare avanti, in primis l’economia. Ecco sull’economia gli americani avrebbero potuto e potrebbero fare ancora molto in futuro, ma non attraverso lo strumento militare. Ci dobbiamo ricordare che l’Afghanistan si trova in un’area geografica e geopolitica fondamentale sia per gli Stati Uniti sia per i Paesi che confinano con l’Afghanistan, come la Cina.
Se i talebani ottengono un riconoscimento politico, dall’altra parte, però, il governo di Kabul subisce un colpo, uscendone indebolito anche in funzione delle imminenti trattative inter afghane?
Il governo afghano è stato mortificato sul piano delle relazioni internazionali dagli Stati Uniti che hanno accettato questa marginalizzazione dietro la volontà dei talebani che hanno deciso di contestare il ruolo stesso del governo di Kabul. Bisogna però considerare che il governo afghano è incapace di governare da circa cinque anni, da quel famoso 2014 quando si adottò una soluzione di compromesso perché i due contendenti non si mettevano d’accordo. Motivo per cui si creò questa posizione da Chief executive officier, da Primo Ministro esecutivo, non prevista dall’ordinamento costituzionale afghano, per Abdullah Abdullah che ha dovuto dividere il potere al 50 per cento con Ashraf Ghani, Presidente dell’Afghanistan. Questo ha impedito di imporre una linea politica unitaria e oggi ci ritroviamo nella stessa situazione, dove uno non riconosce l’altro, benché ci sia questo risultato del 50,68 per cento a favore di Ashraf Ghani. Abdullah Abdullah ha annunciato di formare un proprio governo, ma entrambi, soprattutto Ashraf Ghani, sono stati bloccati nell’insediamento da Presidente della Repubblica Islamica dell’Afghanistan dai talebani, se prima non fosse avvenuta la firma dell’accordo con gli Stati Uniti. Quindi il dialogo intra afghano il 10 di Marzo altro non sarà che l’avvio di un processo negoziale in cui il governo afghano sarà ulteriormente marginalizzato. Pochi hanno fatto caso al fatto che l’annuncio dell’accordo prevede il rilascio di 5mila prigionieri da parte delle forze di sicurezza afghane, in cambio i talebani rilasceranno mille prigionieri. Ma nessuno lo aveva al governo afghano.
Anche il popolo afghano, le donne in particolare, la società civile nel suo complesso sono stati tagliati fuori dal dialogo tra Stati Uniti e talebani?
Sì, esatto. L’obiettivo principale dei talebani era togliere fuori dai giochi gli Stati Uniti in modo tale da doversi interfacciare direttamente con il governo afghano. Questo vuol dire anche combattere contro il governo afghano oltre a dialogare su un tavolo negoziale. E il fatto che a quel tavolo sia stato invitato il governo afghano, l’opposizione parlamentare, la società civile e rappresentanti di alcune associazioni, tra cui alcune femminili, pone sullo stesso livello tutti questi attori nei confronti dei talebani, togliendo ulteriore legittimità al governo, come se fosse un semplice interlocutore rappresentante di una parte dell’Afghanistan e non dell’unità del Paese.
Nella spartizione delle risorse, i talebani partono avvantaggiati rispetto al governo di Kabul?
Sì, in 18 anni sono accadute molte cose, fra cui l’aumentata capacità organizzativa e parastatale dei talebani, la forte economia, costituita soprattutto dagli oppiacei, in mano prevalentemente ai talebani che alimentano e sono alimentati da questa economia di guerra, in una sorta di circolo virtuoso che li ha rafforzati sempre di più con il passare del tempo. E questo gli ha dato la consapevolezza di poter proseguire senza fissare una data futura. Quello che emerge tra la società civile è che la popolazione sia disposta a qualunque cosa, ad accettare qualunque compromesso pur di avere un livello di conflittualità più basso di quello attuale.
Il muallah Baradar ha parlato di ‘emirato islamico’ riferendosi al futuro dell’Afghanistan. Una volta usciti di scena gli Stati Uniti (e gli alleati) che, peraltro, gli hanno dato riconoscimento politico, i talebani hanno intenzione di prendere il potere?
Questo hanno dichiarato. Hanno detto che il futuro dell’Afghanistan è l’ ‘emirato islamico’ e siccome in questo momento c’è la Repubblica Islamica dell’Afghanistan con una propria costituzione, l’ ‘emirato islamico’ è l’antagonista, è l’alternativa. Loro propongono un’alternativa, non vogliono un compromesso e la costituzione così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, benché poco applicata, verrà sostituita dall’emirato o forse ci ritroveremo in una situazione intermedia, con alcune concessioni che, appunto, saranno concessioni e non diritti. Lo stesso Hibatullah Akhundzada, proprio ieri, in riferimento alle donne, ha ricordato che le donne saranno libere solo se il marito glielo consentirà, non sarà la Costituzione a garantirglielo. Sarà il diritto consuetudinario, il codice comportamentale pashtun. Ecco perché sarei molto cauto nei confronti dell’apertura dei talebani. L’unica ragione di entusiasmo è che diminuisce l’impegno statunitense e, di conseguenza, della NATO e quindi sarà una riduzione dei costi per la comunità internazionale, ma gli effetti sul campo di battaglia rimarranno devastanti.
Quindi ci saranno concessioni da parte dei talebani e non condivisione del potere?
Sì. Il compromesso tipicamente afghano è un compromesso che non rende soddisfatto nessuno, ma rende insoddisfatti equamente tutti gli interlocutori. Quindi, a parità di insoddisfazione, si trova l’equilibrio. E noi avremo questa situazione che potrebbe aprire e probabilmente aprirà nel breve e medio periodo ad un’altra fase della guerra civile: dopo l’avanzata talebana e l’imposizione di fatto dell’ ‘emirato islamico’, ci sarà una componente tagika, composta da altri gruppi minoritari, che non accetterà questo compromesso e si tornerà ad una situazione che abbiamo conosciuto nel 1996-2001, quella dell’ ‘emirato islamico’ dell’Afghanistan dove i talebani dominavamo tre quarti del Paese e quarto era in mano ai tagiki e alle altre minoranze. Nel frattempo, però, sono arrivati una serie di attori esterni che possono dare un contributo economico per risollevare l’Afghanistan.
Un esempio?
Tutti quegli attori, in primis la Cina, che guardano alla ricchezza mineraria dell’Afghanistan. C’è poi il petrolio, non facile da trasportare, benché la Cina lo faccia da almeno cinque anni. I cinesi hanno ottenuto l’80 per cento dei diritti estrattivi dal territorio afghano per dieci, ma per problemi di sicurezza non riescono trasportare quello che vorrebbero fuori dal Paese. Questo li ha spinti nel 2015 ad invitare ufficialmente i talebani in Cina, come delegazione talebana, con l’intento di trovare una soluzione mediata con loro. La Cina ha avuto da questo punto di vista un ruolo importante.
Stando agli accordi, entro i prossimi 135 giorni, 8600 uomini dovrebbero lasciare l’Afghanistan e, se i talebani rispetteranno gli impegni, entro i prossimi 14 mesi, tutti gli uomini americani (e alleati) se ne andranno. Quali garanzie rimarrebbero alla popolazione per un rispetto dell’accordo da parte talebana visto che è molto difficile che Trump o un suo successore possa decidere di impegnarsi nuovamente in un conflitto così estenuante, nonostante Mark Esper abbia dichiarato che l’accordo potrebbe divenire “carta straccia” in caso di violazione degli impegni e lo stesso Presidente americano abbia minacciato che “potrebbero tornare indietro”?
Se gli americani, e di conseguenza la NATO, tra 14 mesi, dovessero ritirare il loro ultimo uomo, non ci sarebbe alcuna garanzia. È più verosimile che, a fronte di un’incapacità dei talebani di garantire una riduzione della violenza dell’80 per cento, così come ha chiesto Khalilzad, rispetto agli incidenti registrati, una componente militare potrebbe rimanere in Afghanistan, magari all’interno delle basi strategiche che gli americani hanno ottenuto in utilizzo esclusivo fino a tutto il 2024, con un accordo firmato nel 2012 all’epoca dal Presidente Obama e da Kharzai e poi ufficializzato nel 2014 da Obama e da Ghani, un accordo poi rinnovato da un’intesa tra Ministeri della Difesa. In questo senso, gli americani potrebbero avere un ulteriore opportunità di aumentare i propri contingenti a supporto di uno Stato che dovesse trovarsi in difficoltà. Io non credo, però, che questo rientri nelle intenzioni di questa amministrazione. Non credo che Trump abbia interesse a difendere questo governo quando può trovare una soluzione di compromesso direttamente con i talebani. Non vedo impossibile, ma anzi altamente probabile che gli americani possano mantenere poche centinaia di uomini nel Paese anche alla scadenza dell’accordo. Questo sarà un problema che dovrà sbrigare la prossima amministrazione statunitense, non questa, perché Trump guarda al brevissimo periodo.
Come è stato accolto l’accordo dal Congresso americano? I Repubblicani non sono sembrati molto contenti: «i talebani spesso ottengono concessioni in cambio di false promesse» avrebbero scritto al Presidente Trump.
La questione è proprio la forma con cui è stato presentato. Non è un disimpegno, ma un passo indietro rispetto ai risultati ottenuti. I Repubblicani non vogliono che si vada via dall’Afghanistan, o meglio, tutti concordano col fatto che in Afghanistan non si debba più combattere contro la minaccia dei talebani, ma la presenza in quel Paese è necessaria perché le basi strategiche garantiscono una capacità di intervento regionale anche in funzione di contenimento anti-cinese. Iran, Repubbliche centro asiatiche, Cina, Russia, Pakistan e tre quarti di India sono tutti a portata di drone o di F-16.
Anche i Democratici sono molto perplessi?
Sono molto perplessi, ma la butteranno sul rispetto dei diritti, sottolineando che questo accordo costituisce una ritirata dall’Afghanistan che, di fatto, è, sebbene ‘ordinata’.
Queste perplessità sono dunque comuni anche al Pentagono, per i motivi di cui sopra, e al Dipartimento di Stato, il cui Segretario di Stato, Mike Pompeo, si è mostrato molto cauto sull’accordo con i talebani?
Sì. Pompeo fa buon viso a cattivo gioco. Il sottosegretario alla Difesa ha invece firmato l’accordo, che non è stato siglato né da Trump né da Pompeo. Il che ha inserito l’accordo nella cornice della difesa. Il Pentagono, tuttavia, è molto contrario al disimpegno totale dall’Afghanistan tanto è vero che auspica una presenza di 3/5mila uomini.
Si è visto in altri casi della storia, in Vietnam o in Afghanistan nel ‘91, che il sostenimento finanziario alle forze di sicurezza locali è cruciale per conservare i risultati raggiunti sul campo. Gli Stati Uniti manterranno questo impegno rispetto alle forze locali afghane, come ribadito da Esper?
Sì, fin quando sarà possibile, lo faranno perché gli costerà meno rispetto a quanto non sia costato in passato gestire le truppe a sostegno del governo afghano o impegnate in azioni combattimento, benché ultimamente soltanto per operazioni speciali. In realtà è la storia che si ripete: con i sovietici e poi con i russi, la ritirata e il crollo dell’URSS nei confronti dello Stato di Najibullah che, nel 1994, cadde sotto la spinta dei gruppi di mujaheddin impegnati nella guerra civile, a loro volta sconfitti dai talebani nel 1996.
In questo sforzo, come ha già preannunciato il Segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, ci sarà una condivisione anche con gli altri alleati della NATO?
Sì perché la NATO è in linea con gli Stati Uniti su questa azione di supporto, come confermato ieri da Stoltenberg. Però non dobbiamo dimenticare che in questo momento la NATO non supporta le forze locali afghane con istruttori a livello tattico, ma a livello operativo. Questo significa che i nostri istruttori si affiancano ai comandati maggiori a livello di corpo d’armata. Si chiama ‘pianificazione operativa’.
All’interno della NATO, tutti gli alleati hanno condiviso l’accordo USA-talebani?
Sì, anche perché nessuno ha più voglia di essere impegnato in una guerra di cui si sono perse le motivazioni da parte dell’opinione pubblica. Le opinioni pubbliche, da ormai dieci anni, sono sempre più distaccate dalla guerra in Afghanistan ed è anche una questione generazionale.
Sui prigionieri, il Presidente Ghani ha dichiarato che “non c’è impegno a liberarli, ma potrebbe entrare in agenda nei colloqui intra afghani, ma non può essere un pre-requisito per i negoziati”. Rischia di essere questo l’elemento che può far crollare il dialogo intra afghano?
Esattamente.
Nell’accordo con gli Stati Uniti, i talebani si impegnano ad interrompere i rapporti con i gruppi terroristici islamici, in particolare con Al Qaeda, promettendo di non offrire più l’Afghanistan come base per queste forze. Quale è lo stato dei rapporti con Al Qaeda e i talebani sono pronti a troncarli?
No, i talebani sono in ottimi rapporti di collaborazione e supporto reciproco con Al Qaeda. Non direttamente, o non solo direttamente, ma per tramite della rete Haqqani, guidata da Sirajuddin Haqqani, figlio di Djalâlouddine Haqqani, famoso capo mujaheddin che contribuì alla cacciata dei sovietici. La rete Haqqani, che opera a Kabul con attacchi suicidi spettacolari o con la guerriglia convenzionale, devono molto ad Al Qaeda da un punto di vista addestrativo e dal punto di vista dei legami che vengono creati tra gruppi terroristici a livello regionale. Quindi i legami con Al Qaeda è difficile che possano essere recidibili, ma non è questo il punto. La questione è che gli americani volevano che i talebani dichiarassero di voler rinunciare ad aver rapporti con Al Qaeda. Non bisogna dimenticare, però, che gli afghani, nel corso degli ultimi tre secoli e mezzo, non hanno mai rispettato alcun accordo firmato con nessuna forza armata straniera. In questo senso, non credo che i talebani siano diversi dagli afghani che li hanno preceduti: hanno solo colto l’occasione, per il resto non rispetteranno nessun accordo.
Alcune minacce come lo Stato Islamico sono tali sia per i talebani che per gli Stati Uniti. Washington è pronta a collaborare con un governo dei talebani? E viceversa?
Ritengo proprio di sì. I talebani combattono contro lo Stato islamico, anche se nel 2017 aveva destabilizzato quando Akunzdeda, il capo dei talebani, aveva detto, con la shura di Kandahar, che i talebani e lo Stato islamico hanno gli stessi obiettivi. Vero e cioè la cacciata del nemico. Gli altri obiettivi sono completamente diversi perché i talebani combattono una guerra in Afghanistan per l’Afghanistan e all’interno dei confini geografici del Paese, lo Stato Islamico invece combatte una guerra globale, transnazionale. E su questo sono incompatibili. Quindi i talebani continueranno a combattere contro lo Stato Islamico, alleggeriti dal fatto che non dovranno più difendersi dagli Stati Uniti, ma al tempo stesso Washington supporterà questa lotta contro lo Stato Islamico, anche in un’ottica di buoni rapporti con i talebani: tu mi garantisci di tagliare i legami con il terrorismo internazionale, io ti supporto nella lotta contro i terroristi in Afghanistan.
Ci sono altri attori che possono scatenare nuove violenze?
Si, l’attore terroristico principale è lo Stato Islamico Khorasan, il franchise afghano di quello che fu lo Stato Islamico in Siria e Iraq, ormai completamente autonomo. Il problema è che questo gruppo sta crescendo sempre più grazie all’afflusso dei reduci dalla Siria e dall’Iraq e di quei gruppi che, attraverso le Repubbliche centro asiatiche e il Pakistan, riescono a raggiungere l’Afghanistan. Questa è la minaccia futura e la cosa ancora più pericolosa è che questi reduci che hanno combattuto in un conflitto che è anche di natura settaria e sono sunniti, dovranno confrontarsi anche con i reduci sciiti, gli ‘hazard’ che hanno combattuto nelle brigate internazionali iraniane e alla fine in Siria contro lo Stato Islamico e che stanno rientrando in Afghanistan. Questo è lo scenario che non ha mai caratterizzato l’Afghanistan. E se prima gli ‘hazard’ erano una componente marginalizzata, e legata ai livelli più bassi della società e delle forze armate del Paese, oggi hanno acquisito un expertise militare di tutto rispetto. E questo potrebbe alimentare una nuova fase di guerra civile con una potenzialità di violenze ben superiore. 
L’accordo parla di soldati, ma non fa riferimento agli uomini dell’intelligence a stelle e strisce. Alcune agenzie, come la CIA, sono molto presenti in Afghanistan e vantano una partnership con una fitta rete di milizie locali, quali le Khost Protection Force. Come si adatteranno le agenzie presenti al nuovo contesto?
L’intelligence statunitense che non è militare continuerà il suo lavoro in Afghanistan, magari anche a ranghi ridotti e, forse, supportati da quella componente di forze speciali che rimarrà nel Paese. A questo si aggiungerebbero altri attori, a libro paga del Pentagono, non militari, ma di supporto anche all’intelligence, i famosi ‘contractors’.
Come queste aziende private hanno visto l’accordo tra l’amministrazione Trump e i talebani? Potenzialmente, i ‘contractors’ potrebbero sostituire, con le dovute proporzioni parte del contingente formale americano?
Rispondo di sì ad entrambe le domande, con un po’ di cautela sulla seconda nel senso che sì rimarranno in Afghanistan- ad oggi ci sono circa 20mila ‘contractors’ a libro paga del Pentagono (numero superiore a quello dei soldati), che fungono da supporto alla sicurezza, ma anche intelligence, comunicazioni, trasporto. In futuro il loro ruolo potrebbe addirittura crescere perché quanto svolto oggi dai militari potrebbe essere svolto da altri attori. Sono disposti a pagare questo prezzo gli Stati Uniti? Sì perché costa meno e alla morte di un ‘contractor’ non c’è quell’eco mediatica che c’è con la morte di un soldato. Quindi ci si sta avviando verso un processo di privatizzazione della guerra, che è già in corso da diversi anni, ma per cui l’Afghanistan potrebbe divenire una palestra importante. 
Come è stata appresa da Teheran la notizia dell’accordo tra Stati Uniti e talebani?
Benissimo. Il disimpegno statunitense è un grande vantaggio dal punto di vista dell’influenza regionale. Ma ci sono anche dei timori perché riflette delle conseguenze negative: finché gli americani sono impegnati in Afghanistan non sono impegnati altrove.
E a Mosca?
Mosca si è mossa, insieme ad altri Paesi, su altri tavoli negoziali. I talebani si sono seduti a molti tavoli negoziali e quelli con gli Stati Uniti erano solo alcuni dei tanti. Ed è stata una strategia vincente perché ha portato tutti gli attori a dividersi e questo ha messo in discussione il monopolio statunitense al tavolo negoziale, riuscendo a creare un rapporto di competizione tra questi e ad abbassare le richieste. La Russia, l’ultimo incontro che ha organizzato nell’autunno dello scorso anno, ha invitato i rappresentanti talebani, giungendo ad una serie di accordi di apertura a supporto di un eventuale governo talebano o afghano con all’interno una componente talebana. Quindi tutti stanno cercando di accreditarsi con i talebani in vista di quando questi ultimi avranno un ampio controllo di buona parte del Paese. 
E questo vale anche per la Cina, soprattutto per i motivi economici che ricordavamo prima.
Esatto, prevalentemente economici perché la Nuova Via della Seta è una priorità cinese, soprattutto dal punto di vista della sicurezza. In Afghanistan non passa la Via della Seta, ma al confine in Tagikistan dove i cinesi hanno aperto la loro seconda base militare al di fuori dei confini nazionali. L’obiettivo è rendere quella via accessibile alle vie di comunicazione afghana per far sì che i minerali estratti possano essere trasferiti in Cina. 
L’accordo tra Washington e i talebani ha fatto piacere anche al Pakistan?
Certamente. Il Pakistan è stato un mediatore in questi dialoghi. Il Primo Ministro Khan svolgerà un ruolo di primo piano anche perché ha simpatie islamiste rispetto ai movimenti islamisti interni pachistani. Inoltre, siccome l’Afghanistan è sempre stato il retroterra strategico del Pakistan ed ha sempre cercato di condizionare le dinamiche politiche interne, questa è una grande opportunità considerando che i talebani sono stati per molto tempo i collaboratori in Afghanistan funzionali all’agenda politica pachistana.
Per questo, probabilmente, l’accordo non sarà piaciuto al governo di New Delhi, dove Trump si è recato la settimana scorsa?
No. L’India, che ha sempre assecondato la politica statunitense specialmente durante il periodo dell’amministrazione Obama, si è trovata spiazzata anche perché il retroterra strategico per il Pakistan rappresenta un’opportunità in caso di conflitto con l’India.
Il ruolo di Khalilzad è stato particolarmente cruciale nel raggiungimento dell’accordo?
Direi proprio di sì. Ci ha messo tre anni, tempi brevi per l’Afghanistan, ma alla fine è riuscito ad ottenere la firma dell’accordo. Lo ha aiutato il fatto di essere un afghano e di conoscere gli obiettivi degli interlocutori, non forzando mai troppo la mano. Quando ci sono state accelerazioni o rallentamenti, sono stati dovuti alle decisioni di Trump, mai di Khalilzad. 
Molti analisti hanno individuato diverse similitudini tra questa guerra e quella in Vietnam. Quale lezione gli Stati Uniti devono desumere da questa nuova sconfitta?
Quella in Afghanistan è una guerra ereditata, di vecchia generazione. Ormai le guerre contro-insurrezionali sono perdenti per definizione. Ormai si è capito che il tipo di impegno dello strumento militare è di aiuto alle forze locali a risollevarsi, spendendo soldi, inviando istruttori ed equipaggiamento. Non è detto che questo nuovo approccio funzioni, lo si sta sperimentando in questo momento. Quello che è certo è che la guerra in Afghanistan, come quella in Iraq chiusa nel 2012, sono state fallimentari e hanno aperto scenari peggiori di quelli iniziali. Non dobbiamo dimenticare che noi ci muoviamo sul piano planetario, ma ormai il forte impegno statunitense non è solo a livello terrestre, ma anche spaziale. La tutela degli approvvigionamenti energetici non sono più così necessari vista l’autonomia raggiunta dagli Stati Uniti. Quella in Afghanistan è più che altro una guerra persa.
«La riduzione della violenza continuerà con l’obiettivo di raggiungere un pieno cessate il fuoco», ha dichiarato Ghani. Ci sono le condizioni per un cessate il fuoco?
Sì, è opportuno e vantaggioso per tutti quanti che devono dimostrare nel breve periodo di essere in linea con gli accordi siglati. Sicuramente non lo sarà nel breve periodo. Saranno tolte le sanzioni e si arriverà ad un processo di riconciliazione nazionale forzato, non condiviso, ma si arriverà comunque perché a deciderlo saranno gli stessi talebani che, nel breve periodo, si atterranno agli accordi. Il vero problema sarà quella componente di radicali che potrebbe passare in altri gruppi, tra cui lo Stato Islamico. E questo riguarderebbe soprattutto i più giovani che hanno tratto meno vantaggi dall’economia di guerra.
È pensabile, come ha annunciato Trump, un incontro tra il Presidente americano e i leader dei talebani?
Credo di no. Trump questa cosa avrebbe potuto farla a settembre dell’anno scorso, ma non sarebbe vantaggioso da un punto di vista elettorale. E credo sia per questo che fu annullato quell’incontro nel Settembre dello scorso anno.
Abbiamo ricordato il peso che ha avuto l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali americane nel raggiungimento dell’accordo. Come valuteranno tale mossa i veterani di guerra americani?
Tra ex militari, è più probabile che ci sia uno sguardo disincantato e magari si guardi con favore. Ma è difficile rispondere.