“Gli scontri tra Cina e India sono frequenti, ma non hanno dinamiche che superano questi momenti di tensione. La vera minaccia è il confine tra India e Pakistan”

 

Clima rovente sul tetto del mondo, al confine tra Cina e India, due potenze nucleari con un miliardo e mezzo di abitanti ciascuna: sono venti i morti tra gli indiani, un numero non definito tra i cinesi a Ladakh lungo la ‘Linea attuale di controllo‘ (LAC). I due Paesi hanno visto aumentare le tensioni ad un livello quasi comparabile con quello del più sanguinoso incidente del 1975.

Lo scontro tra i reparti non armati nel rispetto dell’accordo del 1998, dislocati lungo il confine risale lunedì notte lungo la Valle di Galwan, nella regione di Ladakh, un’area isolata del Kahsmir e sarebbe avvenuto con armi improprie come pietre, bastoni.

Inizialmente era stato reso noto dall’India che 3 dei suoi soldati erano stati uccisi, ma poi Nuova Delhi ha rivisto il bilancio, aggiungendo altre 17 vittime, militari “che erano stati gravemente feriti lunedì e che sono poi morti a causa delle impervie condizioni della zona dove si trovavano a combattere, a quote elevate e a temperature ben al di sotto dello zero”. “Durante il processo di de-escalation in corso nella Valle di Galwan, un violento scontro ha avuto luogo ieri notte con perdite da entrambe le parti”, ha tenuto a precisare in un comunicato lo Stato maggiore dell’esercito indiano. “La perdita di vite da parte indiana – ha spiegato – include un ufficiale e due soldati. Alti ufficiali delle due parti si stanno attualmente incontrando per alleviare la situazione”. La Cina, sul fronte opposto, ha accusato le forze indiane di aver sconfinato per due volte e di aver provocato le forze cinesi, il che avrebbe scatenato lo scontro tra le due parti. A detta del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, le forze indiane avrebbero violato un accordo che era stato raggiunto.

“L’India vuole la pace, ma è in grado di dare una risposta adeguata, se provocata”, ha dichiarato il Premier indiano, Narendra Modi, mentre il Ministro della difesa indiano, Rajnath Singh, ha definito l’incidente “profondamente inquietante” il cui teatro è stato la Valle del Galwan – che sorge dalla parete orientale del Karakorum e attraversa l’Aksai Chin cinese e il Ladakh indiano, per affluire nell’Indo – e che è tornata dal mese scorso, insieme al lago Pangong, ad essere un teatro critico: episodi simili si sono infatti verificati sul lago tra il 5 e il 6 Maggio e vicino al passo di Naku La il 9 Maggio e, come se non bastasse, i nuovi ‘incontri ravvicinati’ hanno avuto luogo proprio quando era iniziato il processo di de-escalation. Il 6 giugno, infatti, a Chusul-Moldo, si erano incontrate le delegazioni militari guidate da Harinder Singh per l’India e Liu Lin per la Cina. In quel momento da una parte e dall’altra ci sarebbero stati circa diecimila militari e, in seguito a quel vertice ( a cui ne sarebbero seguiti altri sei) le truppe avrebbero iniziato ad arretrare da tre dei quattro punti di tensione: i punti identificati come 14, 15 e 17 del pattugliamento dell’Esercito indiano, nella Valle del Galwan, mentre non ci sarebbero stati significativi cambiamenti sulla riva settentrionale del lago Pangong.

È questa dunque la ragione del contendere, che prende le mosse dal ‘Grande gioco’ ottocentesco tra gli imperi britannico e russo, secondo una terminologia attribuita all’ufficiale britannico Arthur Conolly, ma poi divenuta più nota dallo scrittore Rudyard Kipling.

La regione dell’Aksai Chin è rivendicata dall’India come porzione del Ladakh, al cui regno apparteneva, regno che fu inglobato dal Kashmir nel XIX secolo, a sua volta assorbito poi dall’impero britannico. Quando l’India ottenne l’indipendenza nel 1947, ereditò le frontiere instabili con i diversi vicini. Questa situazione è stata esacerbata dalla decisione del leader cinese Mao Zedong di prendere il controllo del Tibet – che fino a quel momento era stato uno Stato cuscinetto – tre anni dopo. Dopo un decennio di trattative fallite, nell’ottobre 1962, nel bel mezzo della crisi missilistica cubana, Mao ordinò un attacco improvviso alle forze indiane nel territorio conteso lungo il confine in Ladakh e in quella che allora era chiamata la North East Frontier Agency (NEFA) dell’India. Il Primo Ministro Jawaharlal Nehru non ebbe altra scelta che chiedere aiuto a Washington e Londra. Il presidente John F. Kennedy ordinò immediatamente un ponte aereo di armi e aiuti in India e anche la Royal Air Force si unì. Una seconda offensiva cinese a novembre schiacciò gli indiani nel NEFA e Nehru chiese a Kennedy 350 aerei dell’Aeronautica degli Stati Uniti e 10.000 membri dell’equipaggio per dispiegare in India per unirsi alla guerra e bombardare la Cina. Ma ben prima che JFK rispondesse alla richiesta, Mao annunciò un cessate il fuoco unilaterale e tirò indietro i suoi invasori nel nord-est, ma non si ritirarono in Ladakh. Al Pakistan, Kennedy chiarì che avrebbe considerato qualsiasi coinvolgimento pakistano come un atto di guerra è il Presidente Karachi indietreggiò.

La Cina vinse decisamente questa breve guerra, progettata per dare una lezione a Nuova Delhi e grazie alla quale ottenere un collegamento stradale tra Xinjiange e Tibet. Il tenente generale HS Panag, sull’’Hindustan Times’, l’ha definita la “più grande umiliazione militare subita dall’esercito indiano”: gravemente sconfitta, l’India perse la regione Aksai Chin del Ladakh, ma, a differenza di altre zone di confine, la Cina non si ritirò dai territori occupati. La Cina conquistò 15.000 miglia quadrate di quella che era stata l’India in Aksai Chin, e l’ha mantenuta da allora. Per decenni, entrambe le parti hanno costruito la propria infrastruttura di trasporto per ottenere truppe e rifornimenti in prima linea nell’Himalaya.

Da allora, la delimitazione seguente al cessate il fuoco, la ‘Linea di controllo effettivo’ (LAC) ha, in effetti, costituito la frontiera. Si sono svolti diversi altri inutili cicli di colloqui per stabilire un confine ufficiale. E ci sono stati diversi ‘attriti’ militari, come quello del 1975 che ha lasciato morti quattro soldati indiani in un agguato del PLA cinese nell’Arunachal Pradesh; l’episodio più grave è datato 1967 in Sikkim, con il sacrificio di ben 80 soldati indiani e 400 cinesi. Senza dimenticare la crisi che, sempre a Sikkim, nel Maggio del 2018, è scoppiata a causa di una strada che i cinesi avevano costruito sull’altopiano di Doklam, che il pacifico Bhutan rivendica come suo. Una crisi durata circa due mesi, ma senza vittime e che in tanti finirono una vittoria della leadership indiana.

Tuttavia, l’India continua a rivendicare una linea di confine simile alla Linea Ardagh-Johnson del 1865, presa in considerazione dal governo indiano britannico per far avanzare il confine il più avanti possibile a mo’ di difesa contro il crescente impero russo mentre la Cina propenderebbe per una linea più simile alla Macartney-MacDonald del 1899. Secondo il governo indiano, l’esercito cinese avrebbe attraversato 1.025 volte il territorio indiano tra il 2016 e il 2018. In alcuni casi, le forze cinesi sono schierate per proteggere la nuova infrastruttura fisica attualmente in costruzione, come strade, bunker e caserme, ma in altri casi stanno cercando di stabilire una nuova presenza su strade critiche per l’accesso di entrambe le parti. A questo riguardo, ad infervorare gli animi lungo il confine negli ultimi giorni, ci sarebbe una strada, realizzata dagli indiani lungo il fiume Shyok che attraversa tutta la vallata ed anche un ponte strategico costruito vicino Daulat Beg Oldi (Dbo), avamposto militare aereo a sud del passo del Karakorum.

L’India sta infatti cercando disperatamente di recuperare terreno come dimostra il completamento della strada Darbuk-Shyok-Daulat Beg Oldi (Dsdbo), costruita dall’Organizzazione delle strade di confine (Bro) che fa capo al ministero della Difesa, della lunghezza di 255 chilometri e 37 ponti e nel Ladakh e nell’Arunachal Pradesh, inoltre, nell’ultimo decennio sono stati riattivati diversi campi d’aviazione temporanei, gli Advanced Landing Ground. Inoltre, Nuova Delhi ha previsto l’edificazione di oltre sessanta nuove strade nella zona entro la fine del 2022. Tali sforzi per migliorare le proprie reti stradali e aeree lungo i confini dell’Himalaya hanno attirato l’attenzione della Cina che vorrebbe contrastarli al fine di congelare indefinitamente i suoi attuali vantaggi.

Certamente il vantaggio della prima mossa della Cina ha ora bloccato l’India, di nuovo debole militarmente rispetto alla rivale come nel 1962, nella scomoda posizione di cercare di negoziare un ritiro cinese. Se ciò non fosse possibile, l’India potrebbe tentare di espellere le forze cinesi dalle loro nuove postazioni con l’uso della forza, rischiando così un’ulteriore escalation in quello che diventerebbe inevitabilmente un serio confronto armato oppure potrebbe semplicemente mantenere le proprie forze in posizioni di blocco così da impedirne alla Cina di espandersi, anche se non riporterebbe indietro nessuno dei recenti guadagni della Cina.

La Cina e l’India si trovano in una ‘relazione straordinariamente complessa’, come ha affermato  Subrahmanyam Jaishankar, Ministro degli Esteri dell’India. Oltre alla disputa sul confine himalayano, sono diversi i dossier che alimentano la rivalità sino-indiana: per citarne alcuni, c’è la questione del Mar Cinese Meridionale con l’espansionismo galoppante di Pechino, c’è il Tibet, c’è la disputa geografica indiana con il Nepal supportato da Pechino, c’è il faraonico progetto infrastrutturale cinese delle Nuove Vie della Seta, alle quali afferisce anche il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec) che testimonia la sempre più consolidata asse tra Pechino e Islamabad, soprattutto in relazione al Kashmir, rivendicato da New Delhi.
Questioni che hanno cominciato ad essere sempre più numerose ed intricate, evidenziando il rapporto asimmetrico tra le due potenze emergenti. Mentre l’India è cresciuta come economia e potenza globale negli ultimi tre decenni, la sua forza relativa alla Cina è in effetti notevolmente diminuita. Se si considera il 1988, un anno dopo un piccolo scontro militare tra India e Cina nella valle di Sumdorong Chu nell’Arunachal Pradesh, quando il Primo Ministro indiano Rajiv Gandhi visitò il suo omologo Deng Xiaoping a Pechino per riparare i rapporti, il paragone appare ai limiti. In quell’occasione, i due leader tentarono di stabilire una relazione lungimirante anche se importanti questioni come la disputa sul confine sono state temporaneamente messe da parte in quanto sia la Cina che l’India avevano bisogno di un ambiente esterno stabile per promuovere lo sviluppo economico interno. Solo che nel frattempo il peso economico e, per certi versi, anche militare della Cina è notevolmente aumentato rispetto a quello dell’India.
La crescente rivalità ha iniziato ad intaccare i progressi messi a segno dai leader. Nel primo vertice informale tra il Presidente cinese Xi Jinping e il Premier indiano Narendra Modi, nell’aprile del 2018 a Wuhan, vennero concordate nuove linee guida per il “mantenimento della pace e della tranquillità” nelle aree di confine mentre nel secondo vertice, a Chennai nell’ottobre del 2019, fu confermato l’impegno a gestire “con prudenza” le divergenze per impedire la loro trasformazione in controversie.

Nel frattempo Pechino è alle prese con quella che potrebbe ben presto trasformarsi in una guerra fredda con Washington che, però, corteggia New Delhi proprio per contenere la Cina. “L’India e la Cina hanno entrambe espresso il desiderio di una soluzione pacifica e noi la sosteniamo”, ha detto un portavoce del dipartimento di Stato degli Stati Uniti che sono comunque molto interessati all’alleanza con l’India, come si evince dal rapporto elettivo venutosi a creare tra Modi e Trump.

Va ricordato, in questo senso, che se è vero che l’India aderisce all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, un organismo militare fondato proprio dalla Cina, è anche vero che figura tra i Paesi membri del Quad (Quadrilateral Security Dialogue), una piattaforma di dialogo strategico informale a cui partecipano anche Giappone, Stati Uniti e Australia, con il chiaro obiettivo di contenere la Cina.

La pandemia di Coronavirus COVID-19 poi non aiuta. La cattiva gestione, le difficoltà economiche, la necessità di consolidare i leader può lasciare aperta la porta all’accendersi del nazionalismo. Senza contare che, in India, domani, si aprono le urne per per il rinnovo parziale del Consiglio degli Stati (Rajya Sabha), la camera alta del parlamento che si compone al massimo di 250 consiglieri (ad oggi 245 di cui dodici di nomina presidenziale). Quelli elettivi vengono eletti dalle assemblee legislative statali in proporzione al numero degli abitanti per un mandato di sei anni, con il rinnovo di un terzo dei seggi ogni due. A differenza della Camera del popolo(Lok Sabha), la camera bassa che si compone di un massimo di 552 deputati tutti elettivi, per un mandato di cinque anni (meno due che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica in rappresentanza della comunità anglo-indiana), il Consiglio degli Stati può fornire delle raccomandazioni sulle proposte della Camera del popolo, entro un periodo di quattordici giorni.

Intanto i Ministri degli Esteri di India e Cina hanno già avuto una conversazione telefonica, pur senza ammorbidire le posizioni: Nuova Delhi ha continuato a puntare il dito contro Pechino accusandola di aver messo in atto un’azione violenta “premeditata e pianificata” mentre quest’ultima ha invitato la prima ad evitare d’ora in poi altre azioni provocatorie. La de-escalation, se veramente è iniziato, ancora non si vede come è chiaro anche dal fatto che la Cina sta conducendo  importanti manovre militari nel Tibet. Solo un modo per mostrare i muscoli? Un conflitto in questo momento è possibile? Quali sono le vere motivazioni dietro le nuove tensioni tra Pechino e Nuova Delhi? A queste domande ha risposto Ugo Tramballi, editorialista de ‘IlSole24Ore’ e responsabile del Desk India presso l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).

Due giorni fa, stando a quanto si apprende dalle notizie ufficiali, almeno venti soldati indiani e, forse, altrettanti cinesi, sarebbero stati uccisi in uno scontro con le forze cinesi sul controverso confine himalayano. Cosa è successo veramente al confine tra India e Cina? E quale versione dei fatti sembra meno convincente?
Entrambi le versioni sono corrette nel senso che hanno tutti e due ragione tutte e due torto. Tutti e due rivendicano le stesse porzioni di territorio di quella frontiera sulla LAC, la Linea Attuale di Controllo, la linea che è stato possibile definire nel corso degli anni per evitare veri e propri incidenti come quello che è accaduto. I due Ministri degli Esteri si sono sentiti per calmare la situazione, ma subito dopo i cinesi hanno diffuso un comunicato affermando che la  Valle di Galwan appartiene alla Cina, cosa che gli indiani hanno smentito. Non è un confine definito: si tratta di 4mila chilometri di frontiera, definita, almeno si è tentato, dopo la guerra del 1962. Da allora, si tratta di una zona grigia, molto difficile da definire anche per la sua morfologia fisica fatta di gole e precipizi. D’altro canto, l’India non ha rivendicazioni territoriali se non queste piccole cose mentre il comportamento cinese è figlio dell’espansionismo continuo della Cina da quando Xi Jinping è al potere. Rientra, quindi, nello stesso capitolo della decisione presa per Hong Kong, in violazione degli accordi internazionali, dell’ambizione nel Mar Cinese.
Perché la Cina non ha fornito dati precisi sul bilancio dei suoi morti in questi ‘scontri’. Per non dare troppo risalto all’accaduto? Per non apparire deboli?
È possibile che Wuhan abbia avuto meno contagi della Lombardia? È stata molto efficiente nel contenere il virus perché ha messo in campo misure non democratiche, questo per dire che la Cina non è un Paese democratico, a differenza dell’India. La Cina è una dittatura, una satrapia, con un forte ritorno della dottrina maoista, con un uomo solo al comando. Con tutti i limiti del BJP, l’India è una democrazia costituzionale dove i governi vengono eletti ogni cinque anni e dove la stampa è molto vivace. Non credo che la Cina non abbia fornito dati sulla situazione per tenere calma la situazione, ma credo questa sia la loro natura.
Non è la prima volta che avvengono scontri al confine. Dopo la guerra del 1962, il più sanguinoso risale al 1975. Cosa c’è di diverso oggi rispetto il passato? Il nazionalismo dei leader rende tutto più complicato in quanto entrambi le parti voglio evitare la guerra, ma nessuna delle due può rinunciare alla rivendicazione di sovranità.
Intanto nessuno dei due Paesi, soprattutto adesso in tempo di pandemia di coronavirus, ma credo anche prima, vuole scatenare una guerra: se accadesse, significherebbe per l’una e per l’altra rischiare di rinunciare all’opportunità che il 21esimo secolo le appartenga. È paradossale la situazione perché si tratta di due potenze nucleari, con testate e missili a media gittata, fatte a posta per colpirsi l’un l’altra (quando l’India si fece la sua atomica non fu perché i pakistani avevano fatto gli esperimenti quanto piuttosto per bilanciare l’arsenale nucleare cinese), ma che al momento si trovano a combattere con pietre, bastoni e mazze chiodate. Questo nasce da un accordo risalente al 1995 quando ci furono degli scontri molto forti a seguito dei quali decisero che, nei due chilometri al di qua e due al di là della linea di frontiera contesa, nessuno dovesse usare armi o esplosivi. Ma, bisogna ricordarlo, quello di questi giorni non è il primo scontro, ma capita di frequente, anche se non fa notizia o non vogliono che lo faccia. La situazione è molto simile a quella del confine tra Israele e Siria, dove gli scontri li fanno magari in Libano, ma non sul Golan.
Dal ‘Grande Gioco’ dell’800 ai tentativi di accordo della fine del secolo scorso, passando per la ‘guerra pedagogica’ intentata e vinta dalla Cina contro l’India, il confine tra i due Paesi è stato sempre molto controverso. Perché non si è mai riusciti a definirlo, trovando un accordo tra le parti?
Non saprei. Dovendo fare delle ipotesi, si può dire che è oggettivamente difficile definirlo, se non c’è la volonta. E poi sono due Paesi con un forte senso del nazionalismo: l’India non ha le ambizioni espansionistiche cinesi, ma per quel che riguarda la sovranità sul territorio nazionale è sicuramente molto nazionalista. Il nazionalismo del BJP è uguale a quello del Congress. Quando negli anni ‘90 il BJP fece i primi esperimenti nucleari in India, stoppati dai tempi di Indira Gandhi, il Congress sostenne la linea del BJP. Certamente il nazionalismo cinese è forse più antico e vendicativo, non dimenticando le umiliazioni di due guerre per l’oppio a causa delle potenze europee occidentali. E poi non c’è petrolio o risorsa naturale per cui battersi. Nonostante questo scontro continuo, dal 1962 in poi, costò la vita, tra l’altro, a Jewral Nehru che morì di infarto, i due Paesi hanno continuato ad avere rapporti economici, diplomatici tanto è vero che hanno creato questo meccanismo dei vertici informali – finora ne hanno fatti solo due, uno a Wuhan nel 2018, e un altro nel 2019 a Mamallapuram – e avevano annunciato che in occasione del 70esimo anniversario delle relazioni che ricorre quest’anno avrebbero messo in campo 70 iniziative in più settori. Questo a dimostrazione del fatto che i rapporti rimangono stretti, nonostante questi frequenti incidenti sull’Himalaya. La Cina continua ad essere il primo partner commerciale dell’India che, a sua volta, è presente anche in Cina.
Quali sono le aree più ‘calde’ di questo confine?
Quando si hanno 4mila chilometri di frontiera comune non è un vantaggio, ma un problema. Le zone più calde sono il Ladak occidentale controllato dai cinesi, ma rivendicato dagli indiani i quali, a loro volta, rivendicano anche il Kashmir controllato dai pakistani. Nel 2017, l’ultima volta che ci sono state delle tensioni, i cinesi avevano occupato una striscia per fare una strada nei pressi del Bhutan, molto vicino alle posizioni indiane.
Il provvedimento dell’anno scorso del governo Modi di ricentralizzare il controllo indiano sul Kashmir può aver spinto la Cina ad azzardare una qualche mossa sul confine per inviare un segnale all’India?
Questo è possibile. Se c’è un contenzioso del quale la vicenda di questi giorni è il pretesto è appunto il Kashmir più che l’autostrada che gli indiani hanno fatto nella vallata nel senso che il BJP, molto nazionalista, sembra mostrare interesse verso una futura riannessione del Kashmir. Al di là del fatto che questo creerebbe o meno una guerra, i cinesi sono alleati del Pakistan e, lungo quel Kashmir pakistano, passa una strada, dal punto di vista economico, strategica per la Cina e cioè il Corridoio economico che arriva a Islamabad e la collega con Kashgar e con il grande porto di Gwadar sull’Oceano Indiano. Corridoio economico che fa parte del più ampio disegno cinese delle Nuove Vie della Seta.
Quanto pesano le Nuove Vie della Seta nelle tensioni tra Nuova Delhi e Pechino?
L’India ha sempre dichiarato di non aver nessuna intenzione di aderire alla Via della Seta, sebbene i cinesi abbiano invitato Modi a quel vertice molto coreografico che presentò sul progetto. Anzi l’India sta provando a fare la sua Via della Seta, insieme a giapponesi, sudcoreani. Il grande problema della Cina è che nella regione dove vuole affermare il suo espansionismo, e cioè quella asiatica, non ha alleati, è sempre più isolata.
Sulla base delle considerazioni appena fatte, in che modo Islamabad ha visto queste nuove tensioni tra India e Cina?
Nonostante non siano state registrate reazioni, credo abbiano visto a questa cosa con una certa soddisfazione, ma ovviamente, con i problemi che hanno all’interno, hanno avuto il buon senso di non alzare polemiche.
C’è chi sostiene che la Cina si sia portata avanti, occupando già materialmente, con la costruzione di installazioni militari e non solo, i territori rivendicati. A detta di diversi osservatori, è come se l’India si sia ritrovata di fronte al fatto compiuto, in una posizione di debolezza rispetto al competitor e su questa base, poche sarebbero le alternative: rimandare indietro con la forza gli occupanti cinesi, negoziare o andare ad occupare quesì territori rispetto ai quali l’India conserva ancora un vantaggio tattico. Lei che idea si è fatto?
La Cina militarizza isole nell’Oceano per rivendicare i diritti inaccettabili sul mare, quindi, figurarsi se non costruisce installazioni militari lì sul confine terrestre. Ma lo fa anche l’India tant’è vero che la causa di questo incidente è un’autostrada – per far passare uomini e mezzi – costruita nella Valle di Galwan. Su quel territorio, dunque, entrambi i Paesi sono molto impegnati a costruire installazioni che garantiscano la loro sicurezza. Poi è ovvio che tra i due Paesi, dal punto di vista militare, non c’è partita e continua a non esserci partita nel senso che è vero che sono i due eserciti più numerosi del mondo, però gli indiani non hanno le tecnologie e i sistemi d’arma che hanno i cinesi. Quindi non ci sarebbe partita in caso di guerra, ma non credo che nessuno dei due voglia scatenare un conflitto.
Il fattore pandemia e quindi la necessità di rilanciare il nazionalismo per consolidare il potere e, se vogliamo, anche deviare l’attenzione dagli errori nella gestione del coronavirus e di quanto ne consegue anche dal punto di vista economico, rischia di riaccendere ancor di più gli animi, in un confine già così delicato?
Non credo. Sarà forse il contrario e cioè che la pandemia impedisce che una situazione come questa degeneri verso un’escalation: i cinesi hanno già la tregua con il loro brutale intervento sulle leggi di Hong Kong, violando gli accordi siglati con gli inglesi, oppure le minacce a Taiwan.
La volontà annunciata da Modi di limitare gli investimenti cinesi in India ha contribuire a ricreare un clima pesante tra I due Paesi?
Sì, ma è anche vero che andiamo incontro a tempi grami: non credo che l’India possa permettersi di rinunciare agli investimenti cinesi. La pandemia cambierà molto i meccanismi della globalizzazione è che l’India non avrà i risultati positivi avuti negli anni passati. Se diminuiscono gli investimenti occidentali nelle supply chain nei due Paesi, cosa rimane se non loro stessi ognuno per l’altro?
L’incidente di questi incidenti potrebbe minare le relazioni economiche tra i due Paesi? Si parla di un interscambio di quasi 100 miliardi all’anno.
Credo di no. Anche se c’è una differenza tra il sistema politico cinese e quello indiano, non abbiamo visto folle oceaniche inneggiare contro la Cina, quindi, credo che l’atteggiamento sia del ‘Facimm’ ammuina’ per poi proseguire come prima.
In che modo Washington ha visto il riaccendersi delle tensioni tra i due giganti asiatici? Ricordiamo che non più tardi di quattro mesi fa Trump era in visita in India e, fin dal suo insediamento, ha sempre corteggiato Modi in chiave anti-cinese. 
Non credo che la pandemia cambierà la geopolitica mondiale, ma, al contrario, accelererà le tendenze presenti prima. Indubbiamente, però, la pandemia ha cambiato molte cose e non credo che Trump, preso dalla sua rielezione, abbia molto tempo da dedicare a questa parte di mondo. È ovvio che quando due potenze nucleari arrivano ai ferri corti, il mondo sollevi le orecchie, ma Trump ha ben altro a cui pensare.
Lui così come Putin in Russia, tra coronavirus e crisi economica. 
Esatto. Parliamo di due leader che vengono considerati esempi di una cattiva gestione del COVID-19.
Il Premier Modi ha affermato che “non ci saranno compromessi sui confini”, che “l’India vuole la pace, ma, se provocata, reagirà” e che “i soldati caduti non saranno morti invano”. Quale potrebbe essere la reazione indiana? È possibile che Modi, nonostante l’esigenza di continuare ad alimentare il nazionalismo, scelga un profilo basso?
Sono dichiarazioni dovute quelle di Modi che non poteva ignorare l’avvenimento. C’è tanta retorica, ma credo finirà lì. Sono comunque valutazioni che valgono per quello che valgono nel senso che è evidente che ci sono interessi ben più grossi della vendetta per le vittime degli scontri. Se Xi Jinping non ha bisogno di giustificarsi con la sua opinione pubblica che non c’è, Modi sì ed è per questo che pronuncia queste parole.
Come Xi deciderà di gestire questo dossier?Anche Xi sceglierà di non dare molto risalto all’incidente?
Penso di sì perché accade di frequente ormai da quasi sessant’anni. Xi non ha neanche il problema di un’opinione pubblica. Io credo che la cosa più esplosiva sia il rapporto tra India e Pakistan. Questi scontri tra Cina e India non hanno dinamiche che superano questi momenti di tensione, ma la vera minaccia è il confine tra India e Pakistan.
Sono possibili nuovi scontri nelle prossime settimane? E come pensa si evolveranno le relazioni tra i due Paesi nei prossimi mesi? Saranno sempre più aspre?
Lo capiremo entro qualche mese perché il terzo vertice informale era già stato messo in calendario. Ma credo che alla fine torneranno ad avere buoni rapporti, a meno che non intervenga il Pakistan con una provocazione. Tuttavia, sono tutti molto presi dalla pandemia che lo vedo uno scenario molto improbabile.
Domani è prevista una videoconferenza del Premier Modi con i vari partiti politici indiani. Cosa aspettarsi da questa riunione?
Molte parole che devono essere pronunciate in una democrazia.
Nel trovare mediazioni in simili crisi, Narendra Modi e Xi Jinping sono paragonabili, rispettivamente, a Rajiv Gandhi e Deng Xiao Ping?
Hanno più potere. Soprattutto Modi ha molto più potere di quanto non ne avesse Rajiv.
Sono potenze nucleari che nell’ultimo anno  ampliato il proprio arsenale e queste tensioni, giustamente, creano apprensione. Tuttavia, si può essere scettici sull’ipotesi di una guerra nucleare tra i due Paesi?
Credo che la vera minaccia sia costituita dalla rivalità tra India e Pakistan, anche se le atomiche indiane nascono per contrastare quelle cinesi. Eppure sia Cina che India si riconoscono come giganti del 21esimo secolo.