“Lo Stato Islamico non solo può rialzarsi, ma, in realtà, sta proseguendo il suo processo di trasformazione ed adattamento iniziato nel 2015”
E’ iniziata in queste ore l’offensiva delle truppe turche su Manbij, località controllata dai curdi a ovest del fiume Eufrate. Un affondo che avviene con il sostegno delle milizie arabe, un leader delle quali, Mustafa Seijari, ne dà notizia su Twitter e che è stato anche oggetto, nel pomeriggio, di un colloquio tra i capi di stato maggiore delle forze armate di Turchia e Russia, i generali Yasar Guler e Valery Gerasimov. Nelle stesse ore, dopo che venerdì erano state sfiorate dai colpi dell’artiglieria turca, le forze speciali degli Stati Uniti si sono ritirate dalla loro postazione a sud di Kobane, dove si trovavano a difesa delle milizie curde e nella medesima area potrebbe giungere l’esercito di Damasco, con il quale i curdi hanno stretto un’intesa per far fronte all’attacco di Ankara e che sarebbe già riuscito ad entrate, ben accolto dalla popolazione locale, a Tal Tamr, cittadina siriana a circa venti chilometri confine turco e ad Ayn Issa, tra Raqqa e la frontiera con la Turchia distante cinquanta chilometri.
Secondo l’OMS, che si dice «gravemente preoccupata» per gli attacchi che stanno subendo anche le strutture sanitarie e gli ospedali (perfino 2 chiese e 2 scuole, denuncia l’ONG ‘Un ponte per’), sarebbero 200mila i profughi e 1,5 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza sanitaria mentre, spiega l’Osservatorio siriano per i diritti umani, c’è anche un’attivista per i diritti delle donne di 35 anni, Hevrin Khalaf, tra i 9 civili trucidati ieri dalle milizie. Contemporaneamente raid turchi sulla città siriana di Ras al-Ain avrebbero colpito un convoglio sul quale viaggiavano giornalisti stranieri. Almeno 14, invece, i civili che sarebbero rimasti uccisi oggi. «Andremo fino in fondo.Siamo determinati. Finiremo quello che abbiamo iniziato» assicura il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, precisando che «con l’operazione ‘Fonte di pace’ la Turchia ha intrapreso un passo vitale quanto l’operazione a Cipro del 1974» e che sarebbero già 560 i terroristi neutralizzati dall’inizio dell’azione militare, di cui 500 uccisi, 26 feriti e 24 arresi alle forze turche o ai loro alleati.
Fino in fondo, dunque, nonostante l’UE condanni «l’azione militare della Turchia che mina seriamente la stabilità e la sicurezza di tutta la regione». Questo è quanto si legge nel testo di conclusioni del Consiglio esteri dell’Ue tenuto oggi sull’offensiva militare turca nel nord est della Siria, in cui viene sancito «l’impegno degli Stati a posizioni nazionali forti rispetto alla politica di export delle armi» e viene richiesto un «incontro ministeriale della Coalizione internazionale contro Daesh». Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, a margine del Consiglio europeo, ha annunciato che nelle prossime ore l’Italia varerà un decreto ministeriale «che devo firmare come ministro degli Esteri» per bloccare «l’export di armamenti verso la Turchia per tutto quello che riguarda il futuro dei prossimi contratti e dei prossimi impegni». «Non è vero che l’Italia è rimasta indietro» sull’embargo alle armi alla Turchia, «l’Italia è capofila di una decisione forte dell’Ue sul tema, ma deve essere unitaria, altrimenti non è efficace. Se siamo capofila di una simile decisione non vuol dire mica che vogliamo vendere armi a Ankara» ha tenuto ad evidenziare il Premier Giuseppe Conte.
Se l’Unione Europea prova a battere un colpo, da oltreoceano, «sono in arrivo grandi sanzioni sulla Turchia» ha twittato il Presidente americano Donald Trump sottolineando: «Veramente c’è qualcuno che pensa che dovremmo andare in guerra con un membro della NATO come la Turchia? Basta alle guerre senza fine». O, per meglio dire, a quelle che non fanno comodo al Presidente dato che il ritiro delle truppe USA dalla Siria sarebbe contestuale all’invio di circa duemila soldati in Arabia Saudita. Sempre in mattinata, riferendosi ai prigionieri dell’ISIS, sempre su Twitter aveva scritto: «L’Europa se li sarebbe dovuti prendere indietro già prima dopo numerose richieste, senza permettere loro di scappare. Devono farlo ora. Quei prigionieri non verranno mai negli USA, non lo permetteremo». Parole che mettono in luce quella che è un’altra preoccupazione, sempre più forte nelle ultime ore, specialmente considerate le difficoltà conseguenti di gestione anche legale ed in seguito all’allarme lanciata dai curdi secondo cui 800 combattenti estremisti islamici sarebbero fuggiti da un campo di detenzione bombardato dalla Turchia di Ayn Issa dove sono si trovano 12mila persone tra cui mogli e vedove di combattenti dello Stato Islamico con i loro figli: è possibile che l’ISIS rialzi la testa in Siria, proprio nelle stesse ore in cui la Turchia, per colpire i curdi, è pronta a sferrare un attacco dal fronte occidentale all’ex roccaforte simbolo della resistenza all’estremismo islamico, Kobane?
L’ISIS ha perso la sua ultima base territoriale in Iraq nel 2017 e in Siria all’inizio del 2019. In particolare, in Siria, l’ISIS è stato alla fine sconfitto da numerosi avversari, tra cui, con il supporto degli Stati Uniti e della Coalizione internazionale anti-ISIS, le Forze democratiche siriane (Syrian Democratic Forces, SDF), una forza multietnica di cui fanno parte le Unità di protezione del popolo curdo (YPG), a loro volta considerate affiliate organicamente al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), contro il quale Ankara combatte una guerra che dura da decenni e che la Turchia, gli Stati Uniti e l’UE hanno definito un’organizzazione terroristica; e poi il regime siriano, con l’assistenza della Russia e dell’Iran oltre che i ribelli dell’opposizione sostenuti dalla Turchia. Tutti attori che hanno di fatto diviso la fascia del territorio che l’ISIS deteneva tra loro e che, ciascuno per conto proprio, continuano a perseguire quel che rimane dello Stato Islamico nelle rispettive zone con modalità operative differenti a cui i miliziani rispondono, a loro volta, in modi diversi: se nel nord-ovest della Siria, compresa la provincia di Idlib detenuta dai ribelli, le cellule dell’ISIS hanno preso di mira i ribelli con sparatorie e omicidi, nel deserto centrale di Badiya, possono scatenare attacchi più vasti contro le forze del regime. Mentre nelle pronvince di al-Hasaka e al-Raqqa l’ISIS potrebbe contare su reti clandestine più sofisticate, violenza a bassa intensità sarebbe la caratteristica delle incursioni nella campagna orientale della provincia di Deir el Zor. Di questo Governatorato, per altro, è originario l’Ahrar Al Sharqiya, un gruppo di ribelli siriani armati con una forte ideologia islamista e nazionalista, fondato da alcuni fuoriusciti di Al Nusra tra cuiAbu Maria Al Qahtani. Stando a delle recenti fotografie scattate dagli stessi miliziani, l’Ahrar Al Sharqiya sarebbe confluito nell’Esercito siriano nazionale (National Syrian Army, NSA) alleato di Ankara, composto da decine di brigate per un totale di 25.000 uomini.
Persa la sua dimensione statuale, l’ISIS ha scatenato un’ondata di attacchi contro le SDF locali, soprattutto tra le città di al-Buseira e al-Tayyana. Da questo punto di vista, il conflitto tra Ankara e le forze curde lungo il confine è destinato a diminuire in parte la pressione sull’ISIS: infatti, se è vero che le SDF hanno continuato combattere i resti dell’ISIS in tutto il nord-est e a trattenere in campi di‘detenzione‘ (circa 20) oltre diecimilia combattenti dell’ISIS e civili affiliati, tra cui mogli e figli, anche grazie alle risorse drenate dalla Coalizione occidentale che, però, sono sempre state limitate e, dunque, non sufficienti a rafforzare le strutture, è altrettanto vero che, per far fronte all’attacco turco, le SDF hanno già avvertito che sarebbero costrette a reindirizzare le loro forze e quindi le loro capacità di trattenere i detenuti potrebbe venire minata. «Ci sentiamo traditi e dobbiamo combattere su due fronti, uno contro l’Isis e l’altro con la Turchia. Mantenere la sicurezza nelle prigioni dell’Isis non è più la nostra priorità. Il mondo si può occupare del problema ISIS se davvero lo vuole» ha dichiarato ieri il Comandante comandante delle Forze democratiche siriane Redur Khalil mentre era ormai perduta la prima città del Rojava, Ras al-Ayn.
Questo renderebbe quelle prigioni terreno fertile per corruzioni, rivolte di massa dei prigionieri o facile bersaglio degli attacchi dell’ISIS come dimostra l’esplosione, nella notte di giovedì scorso, di un’autobomba nelle vicinanze di una prigione centrale dove erano detenuti militanti dello Stato islamico nel distretto di Ghuwaran, nella città di al-Hassakah. Sul posto erano accorse le Forze democratiche siriane per evitare la fuga dei detenuti. Un attacco la cui responsabilità il portavoce delle forze curde Mustafa Bali ha attribuito all’ISIS, che aveva già colpito il giorno con un’autobomba a Qamishli, provocando la morte di tre civili e la fuga di almeno cinque prigionieri attraverso una breccia nel muro di cinta. Anche la prigione a Hasakah è stata presa di mira da un’autobomba dando il via ad una rivolta interna. In questi due centri sarebbero detenuti miliziani alquanto pericolosi tra cui il foreign fighter francese Adrian Guihal, responsabile dell’organizzazione degli attentati di Magnanville (dove causò l’uccisione di due agenti francesi), e di Nizza, (dove persero la vita 87 persone), ma che, secondo alcune fonti locali, sarebbe già in fuga, e lo svizzero Damien Grivat, uno dei coordinatori dei massacri di Parigi del 12 novembre 2015. Situazione piuttosto a rischio anche nel campo di Al-Hol, dove si trovano 10 mila jihadisti di caratura minore e 58 mila civili, moltissime vedove di combattenti morti fra le quali Mylène Facre e Dorothée Maquère, vedove dei fratelli Clain.
E tutto ciò potrebbe avere conseguenze disastrose sul vicino Iraq dove, sebbene finora le forze di sicurezza irachene sono sembrate in grado di contenere l’ISIS, non è detto che si necessiti di ulteriori sforzi. Un contesto in cui le rivalità regionali, come quella tra Arabia Saudita e Iran, sarebbero ulteriore alcool sul fuoco. Per chiarire le effettive possibilità di una rinascita dell’ISIS in seguito all’operazione turca in corso in Siria, abbiamo parlato con Claudio Bertolotti, Direttore di Start Insight e analista dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale).
Ci può confermare l’effettiva fuga di ex miliziani e foreign fighters dello Stato Islamico da alcuni centri di detenzioni in Siria?
Purtroppo non ho conferme in più rispetto alla stampa. Rilevo sicuramente la possibilità che almeno alcuni combattenti possano aver lasciato i campi creati per contenere la minaccia dell’ISIS dove si trovavano insieme alle proprie famiglie e alle proprie donne, e in cui il servizio di vigilanza dei curdi dell’YPG possa essere stato, in forza di cose, alleggerito a causa dell’avanzata turca.
Lasceranno questi campi per andare dove?
Le possibilità sono molteplici: in primo luogo, troveranno rifugio nelle aree periferiche ancora sotto il controllo dello Stato Islamico e qui potrebbero unirsi alle milizie che, non ufficialmente, ma di fatto, stanno aiutando anche le forze turche che sono penetrate all’interno del territorio siriano attraverso l’operazione ‘Fonte di Pace’; altri tenteranno di rientrare nei Paesi di origine, alcuni di questi hanno passaporto europeo e lo faranno anche attraverso i flussi migratori, seguendo prevalentemente la rotta turca e la Grecia e, quindi, i Balcani oppure, in alternativa, attraverso l’Adriatico e, quindi, l’Italia. Altri ancora cercheranno di raggiungere alcuni gruppi jihadisti che si inseriscono all’interno della galassia jihadista globale e che si sono consolidati, o sono in via di consolidamento in Paesi terzi dove instabilità e i conflitti rendono più difficile per quegli Stati tenere sotto il loro controllo i confini: e qui l’attenzione va certamente all’Afghanistan dove il franchise afghano dell’Islamic State Khorasan sta impedendo la sua presenza attraverso la violenza e la competizione con i gruppi islamisti locali, in primis i Talebani, ma non dimentichiamo che, nell’area, non solo in Afghanistan, ma anche in Pakistan o in alcune Repubbliche centro-asiatiche sono luoghi storici della presenza, per esempio, dell’IMU, cioè il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, o dei gruppi terroristici pakistani oppure, ancora, gruppi legati alla realtà qaedista, quindi Al Qaeda.
Quindi c’è la possibilità che si vadano a saldare con queste realtà terroristiche regionali?
Esatto. In realtà è già avvenuto e sta già avvenendo sia sul fronte siriano-russo sia in Iraq. La conseguenza è stata la fuga di molti migliaia di soggetti, alcuni dei quali rientrati in area nordafricana come la Libia o in zone governative come la Tunisia o quelle montane dell’Algeria. Altri ancora si sono mossi verso Est e sono andati, appunto, in Iraq dove hanno costituito il nucleo forte dello Stato Islamico.
E’ ipotizzabile, dunque, una rialzata di testa dell’ISIS, anche senza un ritorno alla forma simil-statuale che aveva assunto tra il 2014 e il 2015?
Sì. Sono convinto che lo Stato Islamico non solo possa rialzarsi, ma, in realtà, sta proseguendo il suo processo di trasformazione ed adattamento iniziato nel 2015 quando di fronte all’impossibilità di mantenimento di uno Stato Islamico con confini ed una entità territoriale, i vertici del gruppo decisero di spostare al di fuori dei confini in Siria e Iraq le attività dello Stato Islamico. La manifestazione è stata violenta: l’abbiamo vista in Europa con i famosi attacchi di Bruxelles e di Parigi, ma anche con gli altri attacchi secondari che hanno toccato Regno Unito e Germania e, parallelamente, con l’istituzione del modello del franchise negli altri Paesi, dal Sud Est asiatico al Nord Africa, arrivando ad alcune aree periferiche del Marocco oppure, dove era maggiormente incisiva, in alcune aree meridionali e centrali della Libia. Lo Stato Islamico si è trasformato, si è spostato molto di più sul piano ideologico riuscendo a coinvolgere un numero sempre maggiore di soggetti, spesso a livello individuale – si può parlare di ‘insurrezione individuale’ – dove ognuno aderisce alla guerra dello Stato Islamico nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo complessivo globale, pur con azioni individuali che spesso tra di loro non sono collegate. Oggi ci ritroviamo nella situazione avviata dal 2015 che si è consolidata e confermata nel corso del tempo, con un allargamento sul piano ideologico e comunicativo, ma a cui si aggiunge anche un numero che si pensava contenuto all’interno di strutture carcerarie che, in questo momento, rischia di portare ad una fuoriuscita di soggetti che andranno certamente ad alimentare, anche da un punto di vista emotivo, una guerra che cominciava ad interessare meno l’opinione pubblica internazionale e meno, forse, i possibili aderenti. Oggi ci ritroviamo, di nuovo, avendo voltato pagina e avendo iniziato un nuovo capitolo dello Stato Islamico, in una realtà in cui nuova benzina è stata gettata sul fuoco del terrorismo internazionale.
Possiamo, però, affermare che le probabilità che lo Stato Islamico si ricostituisca in senso ‘statuale’ sono remote?
Possiamo dire che le probabilità sono poche che si possa ricostituire uno Stato Islamico con propri confini, però dobbiamo anche considerare che tutte le promesse che hanno consentito allo Stato Islamico di consolidarsi a livello statuale sono ancora in essere: vediamo, ad esempio, le manifestazioni di protesta che ci sono state in Iraq che portano alla forte contrapposizione tra realtà locale, periferica e il governo centrale e che sposta, sotto molti aspetti, la conflittualità sul piano settario, sunniti contro sciiti. Ma non dimentichiamo che questa conflittualità ne nasconde delle altre che sono, invece, di natura più squisitamente politica e di accesso alle forme di potere e ai vantaggi economici che il potere garantisce.
Come detto, il vuoto di potere può favorire una rialzata di testa dell’estremismo islamico. «L’Europa se li sarebbe dovuti prendere indietro già prima, dopo numerose richieste, senza permettere loro di scappare. Devono farlo ora. Quei prigionieri non verranno mai negli Usa, non lo permetteremo» ha scritto in mattinata Trump. I Paesi europei, le intelligence in primis, sono pronte a reagire nuovamente contro la minaccia dell’estremismo islamico rappresentata da quei prigionieri?
Capacità e volontà sicuramente ci sono. Non dobbiamo dimenticare, però, che l’Occidente, l’Europa, in particolare, è composta da realtà diverse: benché si parli di Unione Europea, si tratta di intelligence e sistemi di sicurezza che, per quanto integrati e basati su un lavoro di collaborazione molto elevato, rimangono a compartimenti stagni. Dobbiamo considerare che l’Europa offre diversi scenari, anche in contrapposizione tra di loro, per quanto riguarda la capacità di reagire alla minaccia e la potenzialità della minaccia stessa. Facciamo un esempio molto pratico considerando la Francia e l’Italia: per quanto riguarda la prima, come dimostra l’ultimo attacco a Parigi dove un dipendente delle forze di polizia che trattava i dossier sui radicalizzati si è a sua volta radicalizzato non limitandosi a supportare potenzialmente i jihadisti, ma arrivando ad agire in vece dei jihadisti stessi. La Francia, oggi, ha raggiunto la ‘saturazione operativa, cioè la capacità tecnica oltre che nel numero di agenti, di riuscire a controllare tutti i potenziali terroristi. Questi ultimi, in Francia, sono circa trentamila e, di questi, tre o quattromila sono classificati come ‘fische s’ cioè come più pericolosi. Il numero di poliziotti non è sufficiente per poter seguire ogni singolo soggetto potenzialmente a rischio, figuriamoci quelli che rientrano nella categoria del rischio più generico. In Italia, noi non siamo ancora arrivati a questo livello perché il numero di cittadini italiani o stranieri residenti in Italia che possono rientrare nel bacino dei potenzialmente pericolosi è un numero decisamente inferiore e questo per ragioni storiche: l’Italia è diventata luogo di immigrazione in tempi molto più recenti e quei soggetti che, in Francia, rientrano nella categoria dei più pericolosi, cioè quei soggetti che sono per lo più di seconda o terza generazione, in Italia rappresentano una minoranza facilmente sotto controllo, come dimostrano l’elevato numero di decreti di espulsione o di provvedimenti dell’autorità giudiziaria nei confronti di soggetti sospettati di terrorismo e poi condannati per sostegno al terrorismo stesso o per volontà di condurre azioni terroristiche.
Dal punto di vista giuridico-legale, l’Europa ha fatto progressi?
Sì perchè è del 2015 l’ultima direttiva finalizzata al contrasto del terrorismo riconducibile allo Stato Islamico: in maniera molto cauta, non definisce cos’è il terrorismo, ma cosa sono gli atti di terrorismo. Si può ricondurre a questa direttiva europea tutto ciò che lo Stato Islamico conduce sia dal punto di vista operativo, ma ancora di più da quello della comunicazione e della propaganda. A questo si aggiungono tutte le normative e i dispositivi dei singoli Stati che, con diverse velocità e diverse applicazioni, guardano nella stessa direzione che è, appunto, quella della strategia di contenimento del fenomeno, basata essenzialmente su due pilastri: il contrasto e la prevenzione. Va detto, però, che l’Italia, pur avendo un dispositivo legislativo rigoroso adottato d’urgenza nel 2015, non ha portato a compimento l’iter che avrebbe permesso al Paese di avere una legislazione sul contrasto e sulla prevenzione del terrorismo nella sua accezione più ampia, coinvolgente tutti gli attori utili, dai servizi sociali alla scuola, ai comuni, alle forze di polizia, alle forze armate, alla magistratura. Questo era il progetto di legge D’Ambrosio-Manciulli che, approvato alla Camera e in tutte le Commissioni al Senato, non è stato messo in calendario l’ultimo giorno utile in cui si è riunita l’aula di Palazzo Madama.
Anche la Russia e l’Iran sono pronti a reagire ad una nuova fiammata del terrorismo jihadista?
Sicuramente sì. La Russia è estremamente preoccupata per la questione del radicalismo e del terrorismo per ragioni di tipo interno dove si sovrappongono con istanze autonomiste o indipendentiste: il caso della Cecenia è quello più eccellente. Per quanto riguarda l’Iran, anche qui rientriamo, però, in uno scenario più complesso perché, oltre alla questione settaria che è sempre secondaria, prevale la contrapposizione con l’Arabia Saudita che, in una dinamica di competizione per essere l’attore regionale prevalente, si contrappone alla Repubblica Islamica e ai suoi alleati in un tentativo di influenzare i conflitti che, in questo momento, sono vivi nell’area mediorientale, dallo Yemen alla Siria.
Il regime siriano, che in queste ore, con la mediazione russa, avrebbe stretto un’intesa con le SDF di cui fanno parte l’YPG curde, è pronto a reagire alle possibili offensive dei miliziani jihadisti?
Il regime siriano di Bashar Al Assad ha la volontà di agire, ma non ha la capacità per farlo. Capacità che gli viene garantita solo dal supporto politico e militare della Russia, dell’Iran e, per una parte significativa, da Hezbollah. In questo momento, tutto ciò che è minaccia, non solo terroristica, può essere contrastata solo con l’aiuto di questi attori, soprattutto Russia e Iran. Finché ci sarà il loro sostegno, Bashar Al Assad sarà in grado di muovere le sue truppe che sono estremamente stanche, indebolite da una guerra che va avanti, ormai, dal Marzo del 2011.
E l’Iraq, negli ultimi tempi sfondo di manifestazioni di piazza, è pronto a reagire oppure il ritorno in attività di miliziani fuggiti dalle prigioni curde può causare il collasso delle forze di sicurezza irachene?
Le manifestazioni sono sintomo di una situazione politico-sociale ed economica che viene ritenuta non sostenibile da una componente della popolazione locale: l’economia in Iraq va molto male e questo si ripercuote in termini di occupazione e di accesso a salari soddisfacenti. Per quanto riguarda le forze di sicurezza irachene dobbiamo considerare l’Iraq si sta risollevando da una situazione terribile che ha portato, in maniera anche relativamente facile, all’espansione dello Stato Islamico: le forze di sicurezza irachene non sono riuscite a contrastarne, in un primo momento, l’espansione; successivamente, grazie al supporto della Coalizione internazionale si è riusciti a contenere il fenomeno e ad abbattere la sua manifestazione territoriale. Oggi, come allora, ci sono le premesse negative che potrebbero aprire ad una forma di riespansione dello Stato Islamico che si basa sul malcontento popolare, soprattutto delle realtà più periferiche e rurali. Temo che, oggi come allora, ci siano delle debolezze all’interno delle forze di sicurezza irachene che potrebbero essere ‘sfruttate’ a favore dello Stato Islamico che, però, non riuscirà più a ricostituirsi a livello territoriale come in precedenza. Tuttavia, potrebbero esserci delle aree, in particolar modo quelle periferiche e rurali, che potrebbero cadere sotto il controllo di gruppi che si rifanno, in qualche modo, allo Stato Islamico.
Erdogan vorrebbe realizzare, nell’area cuscinetto a confine tra Turchia e Siria, un enorme trasferimento etnico, di circa 2 milioni di rifugiati, che potrebbe anche generare delle tensioni. Questo potrebbe diventare terreno fertile per attacchi terroristici e per l’attecchimento dell’estremismo?
Sicuramente sì. Credo che quello che sta facendo Erdogan in questo momento è un tentativo di ingegneria sociale che ha l’obiettivo di sostituire popolazioni che, ad oggi, sono maggioritarie come i curdi con altre popolazioni più affini e gestibili quali i siriani arabi sunniti che diverrebbero maggioranza laddove ora sono minoranza. Se tale progetto dovesse essere portato a compimento, questo verosimilmente porterà ad ulteriori conflittualità: noi sappiamo che l’YPG, affiliato al PKK, basa la sua sfera operativa anche mediante la condotta di azioni di tipo terroristico. L’YPG è riconosciuto come gruppo terroristico in Turchia mentre il PKK è riconosciuto tale sia da Ankara che dall’UE quindi, in un’ottica squisitamente turca, l’obiettivo è di contenere una realtà che può rappresentare un problema anche per la sicurezza interna alla stessa Turchia. Non dimentichiamo che questa è un’azione che Erdogan sta portando avanti per riuscire a recuperare parte di quell’elettorato che ha perso negli ultimi anni, come dimostrato dagli ultimi esercizi elettorali che lo hanno visto indebolirsi sempre di più: quindi, è probabile che con un’azione forza verso l’esterno, con l’identificazione di un nemico fuori dai confini, tenti di recuperare terreno sul piano politico.
La Turchia è membro della NATO come lo sono i Paesi europei che oggi hanno deciso l’embargo per quanto riguarda la vendita di armi ad Ankara. Erdogan, dal canto suo, all’inizio dell’operazione, aveva minacciato l’Europa di non mettergli i bastoni tra le ruote, pena l’apertura delle frontiere e l’invio nel Continente di 3,6 milioni di rifugiati siriani. In che modo la NATO può reagire, considerando anche che soprattutto gli alleati europei potrebbero divenire bersaglio di nuovi attentati terroristici?
La NATO è un’alleanza politico militare, con un accento sulla parte politica che è predominante. La NATO non ha fatto nulla di diverso da quello che è stato deciso dagli Stati Uniti ed è improbabile che l’Alleanza prenda una posizione unilaterale nei confronti della Turchia, anche perché le decisioni all’interno vengono prese all’unanimità. Inoltre, i Paesi europei membri della NATO, al momento, sembrano muoversi, forse, nella direzione, ma a velocità diverse. Non credo che l’Alleanza prenderà decisioni forti, ma si adeguerà a quelle statunitensi e credo che le dichiarazioni formali dell’Alleanza saranno sempre molto caute nei confronti di una Turchia che, per quanto scomoda, rimane comunque un alleato fondamentale.
Cosa si può dire riguardo alle risorse finanziarie di questi miliziani?
In questo momento si sono ridotte notevolmente le fonti di finanziamento dello Stato Islamico così come sono state durante tutto il periodo della realtà Statuale. Uno stato che, avendo un controllo territoriale pari a 250mila chilometri quadrati, ed entrate giornaliere pari a tre-quattro milioni di dollari grazie, in particolar modo, alla vendita di contrabbando di idrocarburi, di cui la Turchia è stata, seppur non ufficialmente, un acquirente nel mercato nero. Oggi quelle fonti non sono più attive, ma le finanze accumulate durante tutto il periodo dell’ISIS, dal 2014 al 2017, sono, in buona parte, ancora nella disponibilità dei vertici dello Stato Islamico che avranno ancora la possibilità di alimentare un’azione non soltanto di propaganda, ma un’attività operativa vera e propria, benché su scala significativamente più ridotta rispetto a quanto fatto nel passato.
Per quanto concerne i mezzi, le armi, su cosa possono contare?
Il Medioriente è un arsenale a cielo aperto: ci sono guerre e conflitti che si sono aperti, chiusi e hanno lasciato sul campo di battaglia numerosi equipaggiamenti, anche donati da Paesi terzi a diverse formazioni che entrano all’interno di un mercato nero che non guarda alle bandiere che vengono sventolate dai singoli milizie, ma alle disponibilità ad acquistare questo o quel tipo di armi. Le armi, specialmente quelle leggere, sono l’ultimo dei problemi. Gli esplosivi non rappresentano un problema perché vi è ampia disponibilità: gli ordigni per gli esplosivi improvvisati vengono costruiti con colpi di artiglieria, con le cariche recuperate dalle mine antiuomo e anticarro di cui i deserti e, a questo punto, alcune aree suburbane della Siria sono completamente disseminati.
Nelle ultime settimane, negli ultimi mesi, c’è stata confusione sullo stato dei vertici dell’ISIS. Cosa si può dire a riguardo?
Quello a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno mi pare una riorganizzazione in termini di deleghe periferiche allo Stato Islamico, pur mantenendo una leadership fortemente ancorata alla figura di Al Baghdadi che rimane, finché la sua morte non verrà confermata dagli organi di stampa ufficiali dell’ISIS, il leader indiscusso. E’ vero però che nell’impossibilità di avere un controllo territoriale e di gestire direttamente le unità, le cellule o i singoli individui sul campo di battaglia che ormai è diventato globale, ha portato ad una forte autonomia di quelli che sono gli organi di livello più basso, tattico e operativo che si muovono in linea con le strategie dello Stato Islamico, ma che non hanno più un contatto diretto con lo stesso.
In questo processo di trasformazione e adattamento, hanno un ruolo importante anche le donne?
Sì, le donne, ora più che in precedenza, rivestono un ruolo importante perché sono dei ‘veicoli’ dell’ideologia dello Stato Islamico: molte non hanno combattuto, alcune lo hanno fatto, molte sono diventate mogli di combattenti dello Stato Islamico o madri dei figli dei combattenti e, in tali vesti, hanno educato i piccoli che oggi sono nell’etàdel cosiddetto ‘imprintig’ che li rende in grado di recepire gli insegnamenti dei genitori e dell’ambiente in cui sono immersi.: prima era lo Stato Islamico, oggi sono le aree sotto il controllo dello Stato Islamico o in cui c’è una concentrazione di questi combattenti oppure, ancora, gli istituti di raccolta in cui questi soggetti sono detenuti. All’interno di queste strutture vive lo Stato Islamico che non è stato estirpato. Il rischio è che si sia consolidato ancor di più nei cuori e nelle menti di chi ne ha fatto parte quando aveva un’estensione territoriale molto ampia.
Ci ritroviamo di fronte al paradosso per cui Erdogan aveva fatto passare migliaia di miliziani con l’obiettivo di far cadere Assad ed ora i combattenti fanno la strada opposta, andando ad aiutare le milizie turche.
Sì, esatto. Questo è un paradosso che, però, si muove sul piano della realpolitik: non sono le ideologie che si contrasta, ma le ideologie del proprio nemico. Del resto, in questo momento, Erdogan ha bisogno di sostegno anche a livello locale per cui il ‘lavoro sporco’ deve essere delegato a milizie non direttamente collegate a quelle turche che si muoveranno, ed Erdogan farà il possibile per comunicarlo, all’interno delle normative del diritto internazionale e umanitario. Vero è che l’azione di Erdogan può essere ascritta nella categoria di un’invasione di uno Stato sovrano e questo, però, verrà definito dagli organi internazionali solo in un secondo momento. Intanto, Erdogan ha colto la palla al balzo sfruttando il vuoto lasciato dagli Stati Uniti e la carta bianca ricevuta da Trump e ha fatto un passo in avanti. Questo non ci deve stupire perché sono mesi che Erdogan chiede la costituzione di una fascia di sicurezza di 30 chilometri all’interno del confine siriano e questa, oltre tutto, è la terza operazione militare che la Turchia fa nel territorio siriano. Quindi, da questo punto di vista, nulla di nuovo sotto il Sole.
I curdi che, per altro, sono stati in prima fila nella lotta all’ISIS, diventeranno il bersaglio privilegiato per questi miliziani?
Sì lo saranno. I curdi, in questo momento, non hanno potuto far altro che accettare una situazione di sostanziale abbandono da parte degli Stati Uniti e quindi hanno dovuto aprire le porte al negoziato con Damasco che consentirà a forze alle quali, prima, non era permesso accedere, alle zone sotto controllo curdo. In tale quadro, gli stessi curdi si indeboliscono perché perdono parte di quella capacità di controllo territoriale e gestione politica. Inoltre perdono agli occhi dell’opinione pubblica locale, ma, di fronte alla pericolosa offensiva turca, si accetta anche l’accordo con Damasco in attesa di sviluppi successivi che porteranno a nuovi sviluppi e nuovi scontri con le forze siriane nel caso in cui il nemico comune, la Turchia, dovesse fare un passo indietro.
Pensa siano a rischio i risultati di cinque anni di combattimento sul terreno?
No, in realtà, io credo piuttosto che Bashar al Assad, per quanto estremamente indebolito ed incapace di governare il suo Paese senza l’aiuto esterno, rappresenta il governo siriano che controlla tutta la Siria. Sebbene ci siano delle zone ancora fuori controllo, i risultati ottenuti in particolar modo dalla coalizione russo-siriano-iraniana sono quelli che garantiranno al regime di Bashar al Assad di sopravvivere, diversamente non sarebbe stato. Non dimentichiamo che la Francia ha sempre sostenuto la necessità di abbattere il regime di Bashar al Assad. Al momento quella politica di contrapposizione al regime siriano è perdente e i risultati sul campo di battaglia danno ragione a Bashar al Assad.
Come definirebbe, al momento, la Coalizione internazionale anti-ISIS?
Definirei la coalizione ‘disimpegnata’: al di là del fatto che sia ancora esistente, i suoi componenti sembrano andare in direzioni autonome, avendo esaurito quella che era la spinta iniziale, cioè la lotta allo Stato Islamico e la caduta del regime di Bashar al Assad. Questo non è avvenuto, lo Stato Islamico è stato contenuto con il rischio che una parte possa risorgere dalle proprie ceneri, ma credo che nella sostanza che la luce della coalizione anti-ISIS sarà sempre più debole e sempre più orientata a tutelare gli interessi dei singoli Paesi che ne hanno fatto parte a livello regionale. E questo finirà per avvantaggiare la Russia e l’Iran.