Non sarà la ‘pace giusta’, ma potrebbe essere finalmente quella ‘pace duratura’ di cui il mondo ha disperato bisogno

 

 


Who
will save your souls when it comes to the powers now?
Who, who will save your souls after those lies that you told, boy?
And who will save your souls if you won’t save your own?

​​​​​Jewel, ‘Who Will Save Your Souls’, 1995

 


Jewel
Kilcher, in arte solo ‘Jewel’, è una cantautrice nordamericana originaria dell’Alaska. Dopo aver vissuto per anni ad Anchorage, si è trasferita negli Stati Uniti continentali ove ha raggiunto il successo, aggiudicandosi fra l’altro diversi dischi di platino.

La ballata ‘Who Will Save Your Souls, contenuta nel suo primo album, rappresenta molto bene, nel testo e nella musica, l’arte e l’impegno sociale di Jewel: anche per questo, e naturalmente per le origini dell’autrice, abbiamo voluto citarne in apertura alcuni significativi versi.

Perché, davvero: chi ‘salverà le anime’ di coloro che, per ciniche ragioni di potere, oppure per prevalenti ragioni di affermazione personale, o infine in astratta difesa di un diritto internazionale avulso dalla realtà dei fatti, permetteranno il fallimento dell’azione per la ricerca della pace in Ucraina?

Il lettore avrà già compreso quali sono i personaggi, o categorie di personaggi, cui ci riferiamo. Torneremo ovviamente sull’argomento: ma iniziamo dai fatti.

Il vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin tenutosi il 15 agosto ad Anchorage si è concluso senza apparenti accordi concreti, facendo anzi registrare l’ennesimo rifiuto del Presidente russo ad ogni proposta di cessate il fuoco; eppure, l’atmosfera distesa e lo scambio di gesti simbolici hanno certamente contribuito all’incremento delle possibilità di pace, soprattutto perché Putin ha visto sostanzialmente soddisfatta la sua pretesa che la Federazione Russa venga considerata alla pari degli Stati Uniti nel ristrettissimo novero delle grandi potenze. Risibili, a tale proposito, le polemiche sull’uso del tappeto rosso, normale nel caso dei Capi di Stato e comunque ridotto, per quanto riguardava Putin, a una stretta passatoia avente il solo scopo di guidarlo dalla scaletta del suo aereo verso Trump, che lo attendeva sul vero tappeto. Né rileva, su tale argomento, il fatto che il Presidente russo sia colpito da un ordine di arresto della Corte Penale Internazionale, organismo che né gli Stati Uniti né la Russia riconoscono e che non gode, a dirla tutta, di particolare autorevolezza se non presso la vecchia Europa.  Meno usuale è da considerarsi semmai l’accoglienza riservata a Putin sulla limousine presidenziale statunitense.

Tre giorni dopo il vertice in Alaska, Trump ha poi organizzato un incontro alla Casa Bianca con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky – già incontrato poco prima in forma bilaterale – e i principali leader europei: Macron, Starmer, Merz, Meloni e il finlandese Stubb, oltre al Segretario Generale della NATO Rutte e alla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.

Gli incontri hanno visto Zelensky dimostrare maggior compostezza che in passato (si ricorderà lo showdown washingtoniano del 28 febbraio scorso) e ringraziare ripetutamente Trump; l’Europa ha fatto sentire la sua presenza, pur restando sostanzialmente ai margini delle decisioni da prendere, eccetto per quanto riguarda la questione delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina. A tale proposito, i leader europei hanno ribadito la possibilità dell’invio di ‘forze di pace’ (Regno Unito e Francia); è stata inoltre citata l’idea, già avanzata in passato da parte italiana, di concedere a Kiev un ‘Article-5-like back-up’: soluzione che evoca l’attivazione dell’art.5 del Trattato del Nord Atlantico (mutua assistenza militare in caso di invasione straniera), peraltro per nulla agevole in assenza, appunto, dell’ormai escluso ingresso di Kiev nella NATO. Dal canto suo, Trump ha chiarito che gli Stati Uniti non intendono dispiegare truppe in Ucraina, considerando la questione di principale competenza europea, ma potranno fornire altri tipi di assistenza e supporto.

Il tycoon, dopo aver telefonato a Putin nella stessa giornata del 18 agosto, ha poi confermato l’idea di un incontro nelle prossime due settimane tra Zelensky, Putin e lui stesso, preceduto però dalla strana novità di un bilaterale diretto fra i primi due, che Mosca sembrerebbe aver accettato dopo averne negato per anni la fattibilità. In tali incontri dovrebbe essere approfondito il tema dello ‘scambio di territorisuscettibile di risolvere la guerra (e che ben difficilmente, sia detto per inteso, comporterà qualcosa di diverso dal riconoscimento delle acquisizioni territoriali ottenute da Mosca a partire dall’annessione della Crimea del 2014).

Insomma, da Anchorage a Washington il panorama rimane oscillante, ancora senza accordi concreti, ma con qualche importante apertura da entrambe le parti. Trump – cui va ascritto, occorre riconoscerlo, l’esclusivo merito dello sblocco dei negoziati – continua a ricoprire un ruolo centrale come garante/facilitatore, ma la sua nota imprevedibilità suggerisce prudenza. Putin continua ad attendere sornione, ma l’azione del collega americano è senz’altro servita a fargli fare qualche passo in avanti. L’Europa, da parte sua, dovrebbe saper trasformare la retorica in concreta capacità di indirizzo: ma non si vede come ciò possa accadere, soprattutto se certi leader (Macron e Von der Leyen su tutti) continueranno a pronunciare frasi adatte soltanto a provocare e a far incagliare le trattative.

Il punto centrale della questione riguarda, a parere di chi scrive, proprio le garanzie di sicurezza: non tanto però quelle a favore dell’Ucraina, che saranno ovvie e doverose; ma quelle evocate da Putin quando parla di necessità di ‘eliminare le cause di fondo’ della guerra. Tali cause, secondo il Presidente russo, riguardano l’ingerenza euro-americana in Ucraina, rivelatasi in maniera evidente con la sponsorizzazione della ‘rivoluzione di Jevromajdan’ del 2014, considerata a Mosca un vero e proprio colpo di Stato; e, più in generale, la tendenza occidentale a mutare in proprio favore equilibri che nella visione russa corroborata a dire il vero anche dalle iniziali dichiarazioni dei vincitori della Guerra Fredda avrebbero dovuto restare tali: ‘l’abbaiare della NATO alle porte della Russia’, secondo la politicamente scorretta definizione data a suo tempo da Papa Francesco.

La necessità di un riequilibrio delle relazioni con l’Occidente, d’altra parte, era stata riaffermata da parte russa ancora a fine 2021, quando Mosca aveva presentato alla controparte statunitense due bozze di accordo di sicurezza, una fra Federazione Russa e Stati Uniti e uno fra la stessa Russia e gli Stati membri della NATO. Sembra oggi ovvio che, dati i tempi in cui era stata lanciata (due mesi circa prima dell’invasione dell’Ucraina), tale iniziativa avesse una valenza soprattutto propagandistica: il suo rifiuto da parte occidentale avrebbe potuto essere considerato come una sorta di ‘giustificazione preventiva’ della successiva aggressione contro Kiev. Ma il problema resta e potrà presumibilmente essere risolto soltanto a livello multilaterale, con la convocazione – una volta ‘congelata’ la questione ucraina – di una nuova ‘conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa’ che, sulla scia di quella conclusasi con l’Atto di Helsinki del 1975, stabilisca un modus vivendi definitivo (per quanto la definitività sia possibile in geopolitica) fra sfere d’influenza. Non a caso, il riferimento a Helsinki spicca nelle premesse del draft russo presentato a Washington nel dicembre 2021, cui si faceva riferimento.

In sostanza, al di là delle continue, vuote invocazioni dell’intangibilità delle frontiere e del diritto internazionale (entità da sempre vaga e mai come oggi quasi del tutto inesistente), occorre che i due mondi, quello occidentale e quello russo, si parlino e giungano a un modus vivendi che riconosca a ciascuna delle due parti la propria autonomia. L’Ucraina, nella sua maggioritaria porzione filo-occidentale, potrà far parte, con le necessarie garanzie internazionali, del campo in cui desidera porsi. Non sarà la ‘pace giusta’ invocata da certe anime belle: ma potrebbe essere finalmente quella ‘pace duratura’ di cui il mondo ha disperato bisogno.

Vogliamo chiudere dando la parola a Lucio Caracciolo, che così scrive nell’editoriale, intitolato “Fiat mundus pereat iustitia”, dell’ultimo numero (7-25) di Limes, uscito pochi giorni prima dell’incontro di Anchorage:Nel mondo gravido di apocalisse l’alternativa alla guerra è la pace sporca. Nel doppio senso, aggettivale e verbale. L’aggettivo indica il tacere delle armi sulla soglia della distruzione totale, strutturato in competizione tra attori disponibili a sacrificare «irrinunciabili» princìpi per scongiurare la guerra fuori tutto. Il verbo ci ricorda che la pace necessita manutenzione. Ti devi sporcare le mani. Scegliere fra mali minori. Oliare le frizioni fra interessi e impulsi opposti.

Se poi neanche la voce di uno dei più illustri esperti mondiali di geopolitica sarà servita a farci riflettere, dovremo davvero chiederci, parafrasando Jewel:who will save our souls?’.

Di Massimo Lavezzo Cassinelli

Massimo Lavezzo Cassinelli ha fatto parte del servizio diplomatico italiano dal 1982 al 2016. Dopo un primo periodo alla Farnesina presso la Direzione Generale Affari Economici, ha iniziato nel 1985 la sua prima missione all’estero, all’Ambasciata d’Italia in Ecuador. Successivamente ha prestato servizio presso le Ambasciate in Giordania, in Perù e in Egitto, oltre che come capo del Consolato italiano a Berna. E’ stato poi Rappresentante Permanente Aggiunto presso la FAO, il PAM e l’IFAD. Ha infine ricoperto le cariche di Ambasciatore d’Italia in Armenia e nel Principato di Monaco. Ha concluso la carriera al Cerimoniale Diplomatico della Repubblica.