Senza una radicale rivisitazione della sua grammatica politica, economica e culturale, rischia di diventare esattamente ciò che la destra vuole che sia: rumore senza conseguenze
Questo sabato, in più di 2.000 città degli Stati Uniti, gli americani sono scesi in piazza per “No Kings Day”, una chiamata radicale per sfidare la crescente ombra autoritaria di Donald Trump. Gli organizzatori lo hanno lanciato come una “giornata di sfida a livello nazionale” – un audace stand teatrale contro quella che chiamano una minaccia esistenziale alla democrazia americana.
Ma mentre queste proteste si svolgono, con canti, cartelli e il familiare teatro di resistenza, dobbiamo chiederci: le rivolte simboliche funzionano ancora in un’era definita dalla stanchezza digitale, dal nichilismo politico e dal populismo post-verità? La protesta, un tempo l’anima del dissenso democratico, è entrata in una fase di rendimenti decrescenti?
“No Kings Day” non viene caratterizzato come una rivoluzione ma come una ripetizione. È una protesta perseguitata dal suo passato: dai cappelli rosa del 2017, gli scioperi climatici del 2019, la giusta furia delle rivolte di George Floyd nel 2020. Fa parte di un rituale americano di protesta, emotivamente potente ma strategicamente incerto. E senza una radicale rivisitazione della sua grammatica politica, economica e culturale, rischia di diventare esattamente ciò che la destra vuole che sia: rumore senza conseguenze.
Il teatro politico della stanchezza della protesta
In superficie, “No Kings Day” è un colpo provocatorio al presunto autoritarismo di Trump, una protesta non solo contro l’uomo, ma la normalizzazione strisciante della sua visione del mondo: repressione punitiva dell’immigrazione, eccesso di esecutivo, disdegno per i controlli istituzionali e un culto della personalità al limite della fantasia monarchica.
Ma questo non è il 2016. Il terreno politico è cambiato. Il Trumpismo, un tempo un movimento insurrezionale, è ora istituzionalizzato. Governa attraverso il risentimento, prospera sullo spettacolo dei media e arma la protesta contro se stessa. Ogni esplosione di indignazione liberale alimenta il suo complesso di persecuzione. Una bandiera ardente diventa una pubblicità della campagna. Un canto di resistenza ora alimenta l’algoritmo della rabbia.
I democratici, nel frattempo, offrono poco oltre l’opposizione. Il loro messaggio è reattivo, la loro strategia spesso tatticamente senza timone. Dov’è l’architettura delle politiche parallele? Dov’è l’alternativa morale al Trumpismo che va oltre il semplice grido “No!”?
In politica, la ripetizione senza adattamento genera irrilevanza. E “No Kings Day”, se non accompagnato da una risposta strutturale più profonda, potrebbe rispecchiare il destino delle proteste progressiste passate: catartico, ma inefficace.
Rabbia economica senza offerta economica
L’appello di Trump non risiede solo nelle guerre culturali, ma nella narrazione economica. Incanala la disperazione del Midwest deindustrializzato, la precarietà dei lavoratori della gig economy e il risentimento dell’America delle piccole città lasciate fuori dalla globalizzazione. La sua promessa, per quanto vuota, presenta una figura che ascolta il dolore economico.
“No Kings Day”, al contrario, manca di una visione economica unificante, condannando l’ingiustizia senza fornire un’alternativa populista. Il movimento di resistenza raramente parla all’operaio licenziato in Ohio o alla madre single che naviga con le bollette della spesa in Arizona. Invece, spesso si concentra sul linguaggio simbolico – “resistenza”, “solidarietà”, “intersezionalità” – che risuona nei campus ma aliena gli elettori che se la cavano.
Se la protesta simbolica deve riacquistare trazione, deve essere materialmente radicata. La sinistra deve collegare l’autoritarismo di Trump non solo al decadimento morale, ma all’esclusione economica: come le sue politiche aiutano i miliardari, indeboliscono le protezioni del lavoro e sfruttano la divisione razziale per mascherare la guerra di classe. Fino ad allora, le proteste saranno liquidate da molti come attivismo performativo da parte di persone che non capiscono la posta in gioco del mondo reale.
Simbolismo culturale: potente, ma problematico
Culturalmente, “No Kings Day” è ricco di immagini rivoluzionarie americane. Il nome stesso evoca il 1776, la sfida del Boston Tea Party e la ribellione contro il dominio ereditario. Ma il simbolismo taglia in entrambi i modi. Anche Trump commercia simboli: bandiere, muri, vacche sacre del nazionalismo. Il suo fascino non è nelle specifiche politiche ma nella mitologia. È l’avatar dell’americanismo per coloro che si sentono abbandonati dalla modernità.
Pertanto, le proteste simboliche devono essere state con attenzione. Se troppo intrisi di codici culturali progressisti, rischiano di diventare tribali piuttosto che trasformazionali. Quando i movimenti non riescono a parlare attraverso il divario – quando diventano più sull’affermazione dell’identità del gruppo che sulla persuasione degli indecisi – diventano camere d’eco.
Per avere successo, “No Kings Day” deve parlare la lingua culturale dell’America Centrale. Deve dimostrare che la protesta non è uno spettacolo elitario, ma radicato in ansie democratiche condivise: l’erosione dei controlli ed equilibri, la politicizzazione della magistratura, il silenzio del dissenso.
Sociologia della protesta in un’epoca di cinismo
Sociologicamente, l’arco di protesta in America è sempre stato legato al fermento generazionale. Dalle marce anti-Vietnam degli anni ’60 agli scioperi climatici della Generazione Z, i giovani sono stati storicamente il motore del cambiamento.
Ma la Generazione Z oggi è caratterizzata da qualcosa di nuovo: il burnout. L’era digitale ha a collassato il confine tra consapevolezza e azione. L’attivismo vive su storie di Instagram, sproloqui di TikTok, canali Discord. Eppure il sovraccarico di crisi – clima, pandemia, ingiustizia razziale, Gaza – ha portato alla stanchezza di protesta. La performatività dell’attivismo online spesso sostituisce un’organizzazione più profonda. Il cinismo ha sostituito la speranza.
“No Kings Day” deve rompere quel ciclo. Deve tradurre l’angoscia digitale in energia civica. Non solo like e hashtag, ma registrazioni degli elettori, coinvolgimento del consiglio locale, organizzazione sindacale. Deve potenziare, non solo l’allarme.
Può “No Kings Day” essere più di un gesto?
Sì, ma solo se si evolve.
Per il “No Kings Day” per diventare un momento spartiacque piuttosto che un’altra protesta del fine settimana, deve abbracciare quattro cambiamenti critici:
Chiarezza strategica: articolare richieste chiare. La vaga sfida non è sufficiente. Il movimento chiede riforme elettorali, responsabilità giudiziaria o vincoli esecutivi? La protesta deve essere un mezzo per un fine, non il fine stesso.
Radicamento economico: collega l’autoritarismo al depotenziamento economico. Parla non solo alle identità, ma ai mezzi di sussistenza.
Fluidità interculturale: colmare le divisioni culturali senza diluizione. Inquadrare la democrazia non come una questione di sinistra-destra, ma una questione di sopravvivenza per tutti.
Organizzazione incentrata sulla gioventù: incanala la rabbia giovanile in un’azione civica sostenuta. Passa dagli hashtag alle urne.
La bandiera morale deve essere abbinata al muscolo politico
La storia è chiara: la protesta è importante. Ma solo quando è disciplinato, inclusivo e legato alla costruzione del potere. Il Movimento per i diritti civili è riuscito non solo grazie alle marce, ma a causa della legislazione che ne è seguita. Stonewall ha scatenato Pride perché ha dato vita alle istituzioni. Occupy Wall Street è sbiadito perché non è mai stato.
“No Kings Day” ha un potere simbolico. Attinge a un profondo impulso americano a rifiutare la tirannia. Ma per essere più di un gesto, deve far crescere i denti.
Se gli americani non vogliono davvero “nessun re”, devono fare di più che cantare per le strade. Devono organizzare, narrare e votare il monarca che aspira. La democrazia, dopo tutto, non è protetta dai rituali, ma dalla reinvenzione implacabile.