Al crepuscolo della Guerra Fredda, la democrazia liberale sembrava destinata a trionfare. Il crollo del muro di Berlino è stato più di una rottura geopolitica; è stata un’affermazione simbolica dell’ascesa della democrazia liberale, un evento che sembrava suggellare il trionfo ideologico delle società aperte sul controllo totalitario. Tre decenni dosso, quell’ottimismo ora sembra caratteristico. L’arco democratico, tutt’altro che inevitabile, si sta piegando bruscamente sotto il peso della rinascita autoritaria, dell’interruzione digitale e del decadimento interno.

Oggi, sette persone su dieci a livello globale vivono sotto il dominio autocratico. Questa non è una tendenza marginale; è una resa dei conti globale. L’Occidente, una volta fiducioso nella sua leadership morale e istituzionale, si trova sulla difensiva: i suoi valori democratici sono contesi non solo all’estero, ma sempre più dall’interno. Mentre i leader mondiali si riuniscono al vertice sulla democrazia di Copenaghen, la questione determinante non è più come diffondere la democrazia, ma come preservarla.

Istituito nel 2018 da Anders Fogh Rasmussen, ex primo ministro danese e segretario generale della NATO, il vertice sulla democrazia di Copenaghen è emerso come una piattaforma fondamentale per i sostenitori dei valori democratici liberali. Attrae figure attraverso linee ideologiche e istituzionali, dal Carter Center al George W. Bush Institute, unito da una preoccupazione comune: l’erosione dell’autorità morale della democrazia in un’epoca di turbolenza.

Eppure l’idea di una missione democratica condivisa sembra sempre più tesa. Una convergenza di minacce esterne e fratture interne ora sfida la coesione delle alleanze occidentali, in particolare della NATO, il tradizionale bastione della difesa collettiva e dei valori democratici.

I fronti gemelli del declino democratico

All’esterno, i regimi autoritari sono diventati più audaci e sofisticati. Russia e Cina non limitano più le loro ambizioni al consolidamento interno. Attraverso tecnologie di sorveglianza, campagne di disinformazione, attacchi informatici e coercizione economica, stanno esportando un modello di governance che sposa il controllo con la modernità. Adessere gli strumenti della globalizzazione non per integrare, ma per minare.

Internamente, la minaccia potrebbe essere ancora più insidiosa. All’interno della stessa NATO, i principi democratici fondamentali – libere elezioni, indipendenza giudiziaria, una stampa vivace – vengono erosi. In paesi come l’Ungheria e la Polonia, i leader illiberali hanno riformulato il pluralismo come decadenza e il dissenso come slealtà. Anche negli Stati Uniti, il campione più vocale del mondo degli ideali democratici, il ritorno democratico è diventato oggetto di un urgente dibattito interno.

L’ascesa del Trumpismo, caratterizzata da una miscela volatile di populismo, sfiducia istituzionale e fervore nazionalista, ha mandato tremoli in tutti i sistemi politici occidentali. Il fatto stesso che gli Stati Uniti, un tempo la stella della democrazia liberale, ora sono alle prese con questioni di legittimità elettorale e di adesione allo stato di diritto, segnala un profondo cambiamento. Invita gli autocrati altrove a sfidare l’alto livello morale una volta rivendicato dall’Occidente.

La credibilità morale della NATO in gioco

Questa crisi non è solo filosofica; è strategica. La NATO è stata concepita non solo come un’alleanza militare, ma come una coalizione di stati democratici. La sua legittimità è sempre stata fondata sulla convinzione che i suoi membri condividano più degli interessi: condividono i valori. Quando quei valori vacillano, lo fa anche l’unità di scopo dell’alleanza.

Cosa succede quando un membro della NATO mette a tacere la stampa? Quando mina l’indipendenza giudiziaria o riduce i diritti delle minoranze? La coesione dell’alleanza è indebolita. Un fronte fratturato non può sfidare in modo credibile un blocco autocratico in aumento, né può ispirare coloro che sono in prima linea nella lotta democratica: in Ucraina, a Taiwan, in Venezuela.

Pertanto, rafforzare la democrazia all’interno della NATO non è un atto di idealismo. È un imperativo di strategia.

Una nuova dottrina della difesa: fiducia e verità

Ma cosa significa il rafforzamento democratico in questa nuova era, un’epoca modellata meno da bombe e confini che da algoritmi e informazioni?

In primo luogo, significa proteggere l’integrità elettorale, non solo dall’interferenza straniera, ma dalla manipolazione interna. L’uso dell’IA per diffondere disinformazione, deepfake per screditare l’opposizione e i social media per polarizzare il pubblico rappresenta una minaccia fondamentale alla scelta democratica.

In secondo luogo, richiede investimenti nei media indipendenti. In molti paesi, il giornalismo è diventato la prima vittima dell’autoritarismo strisciante. Una democrazia senza una stampa di cani da guardia è una casa senza muri.

In terzo luogo, richiede una riforma dell’istruzione. Non solo educazione civica nel senso tradizionale, ma formazione in alfabetizzazione mediatica, responsabilità digitale ed empatia democratica. In un mondo di verità frammentate, insegnare ai cittadini come distinguere i fatti dalla finzione è fondamentale.

Infine, e forse più urgentemente, significa ascoltare il malcontento democratico. Le ondate populiste sono raramente infondate. Spesso derivano da rimostranze reali: emarginazione economica, spostamento culturale, mancanza di risposta istituzionale. Se i sistemi democratici non affrontano questi punti deboli, lasciano spazio ai demagoghi che offrono risposte semplici a problemi complessi.

Un vertice di resa, non rituale

Il vertice sulla democrazia di Copenaghen deve ora sorgere per affrontare questa sfida determinante. Deve resistere alla tentazione della nostalgia, alla confortante illusione che un ritorno al “centro vitale” sia ancora possibile. Invece, dovrebbe essere un crogiolo di innovazione, riflessione e dure verità.

Tra i più pressanti di questi c’è la consapevolezza che l’erosione della democrazia in un paese della NATO indebolisce l’intera alleanza. La forza della NATO non sta nel numero di carri armati o trattati, ma in una convinzione condivisa sulla governance e la libertà. Quella convinzione è in fase di prova.

Il vertice deve anche riconoscere che le linee del fronte di questo conflitto si sono spostate. Le battaglie della democrazia non sono più combattute solo nelle sale di guerra e nelle sale del parlamento. Si svolgono sulle piattaforme social, nei data center e nella vita quotidiana dei cittadini che sono bombardati da narrazioni concorrenti sulla verità e il potere.

Da Kirana Hills a Capitol Hill: lezioni di fragilità

Un’eco storica offre una prospettiva che fa riflettere. La frase “Kirana Hills” si riferisce ai test nucleari segreti del Pakistan negli anni ’80, condotti sotto il radar del controllo globale. È un promemoria di quanto velocemente le norme possono erodere quando la supervisione scivola e il consenso si sfilaccia. Le minacce di oggi potrebbero non essere nucleari, ma non sono meno destabilizzanti.

La crisi della democrazia è tranquilla, burocratica, procedurale, ma non meno pericolosa. Inizia con piccoli compromessi, violazioni trascurate, ricalibrazioni partigiane. E poi, all’improvviso, diventa una nuova normalità.

L’onere della prova e della speranza

Quindi, l’Occidente può tenere la linea? Le democrazie possono rinnovarsi di fronte alla frammentazione interna e alla pressione esterna?

La risposta non è né facile né singolare. Ma ciò che è chiaro è questo: la democrazia non si salverà da sola. La sua conservazione richiede vigilanza, umiltà e, soprattutto, coraggio, non solo da parte di leader e istituzioni, ma anche da parte dei cittadini comuni.

Il vertice di Copenaghen non è l’ultima parola, ma può essere un inizio. Un punto di convergenza per coloro che sono disposti a guardare onestamente al tessuto sfilacciato dell’ordine liberale e immaginare come ripararlo.

La democrazia, una volta ritenuta autosufficiente, ora richiede una difesa deliberata. La torcia trema. Ma non è ancora uscito.

Il mondo sta guardando.
E in attesa.

Di Debashis Chakrabarti

Debashis Chakrabarti è uno studioso internazionale dei media e scienziato sociale, attualmente redattore capo dell'International Journal of Politics and Media. Con una vasta esperienza di 35 anni, ha ricoperto posizioni accademiche chiave, tra cui professore e preside presso l'Università di Assam, Silchar. Prima del mondo accademico, Chakrabarti eccelleva come giornalista con The Indian Express. Ha condotto ricerche e insegnamenti di grande impatto in rinomate università in tutto il Regno Unito, il Medio Oriente e l'Africa, dimostrando un impegno a promuovere la borsa di studio dei media e a promuovere il dialogo globale.