Cosa aggiunge o toglie a quanto già si sa ‘Mi sento abbandonato’ (edito da Solferino) scritto a quattro mani da Claudio Martelli e Francesco De Leo?
Ancora un libro sull’’Affaire Moro’, a quasi mezzo secolo dal suo rapimento e uccisione da parte delle Brigate Rosse? Cosa altro si può aggiungere a quello che è emerso dai tanti processi, dalle commissioni parlamentari d’inchiesta, inchieste giornalistiche, libri, documentari, interviste, ‘confessioni’, rivelazioni di protagonisti e testimoni? Cosa aggiunge o toglie ‘Mi sento abbandonato’ (edito da Solferino) scritto a quattro mani da Claudio Martelli e Francesco De Leo? Ha pure la pretesa di raccontare ‘la vera storia della trattativa per salvare Moro’.
La tentazione di lasciarlo lì dove il commesso della libreria l’ha collocato, è forte. Ma prevale la buona regola del dubbio. Del resto, l’affaire tuttora presenta una quantità di “non detti”, di segreti e misteri. Da via Fani (luogo del rapimento) a via Montalcini (dove Moro si dice sia stato tenuto prigioniero), dal ‘covo’ romano di via Gradoli a via Caetani (dove viene fatto trovare rannicchiato, morto, nel portabagagli della Renault rossa), sono tanti i conti che non tornano. Per non parlare del ‘covo’ milanese di via Montenevoso con la sua documentazione scoperta a rate…
Ma questa ‘vera storia’? In quei giorni si fronteggiarono due schieramenti: quello cosiddetto della ‘fermezza’ (la Democrazia Cristiana e in particolare Giulio Andreotti; il PCI, il PRI), contrario a qualsivoglia concessione ai terroristi. Dall’altra parte il PSI di Bettino Craxi, il Partito Radicale di Marco Pannella, Lotta Continua, intellettuali come Leonardo Sciascia e Alberto Moravia, mobilitati nella spasmodica ricerca di una via per salvare il leader democristiano.
Moro in quei giorni patisce un martirio nel martirio: quello delle BR; e quello di un mondo politico che lo abbandona, lo disconosce, lo descrive come “plagiato”, “irriconoscibile”, preda della sindrome di Stoccolma: tutto pur di non fare i conti con quello che nelle sue lettere dice e invoca.
‘Mi sento abbandonato’ di Martelli e De Leo ripercorre con acribia quei giorni dalla parte di chi, in quell’occasione mostra la sua statura di ‘statista’. Cos’altro è il Craxi che si batte non tanto per quella che viene liquidata con sprezzo ‘trattativa’ ma per iniziative che non è azzardato definire ‘costituzionali’? Lo stesso Craxi lo spiega in una lettera del 28 aprile 1978 a ‘La Stampa’: “Riteniamo che lo Stato abbia il dovere di proteggere tutti i suoi cittadini, agenti o presidenti che siano, quando la loro vita è in pericolo…I socialisti non hanno accettato e non accettano la linea della rassegnazione e dei rifiuti assoluti e pregiudiziali…Tra gli estremi del cedimento e del rifiuto pregiudiziale deve pur esserci una via che possa indurre i rapitori dell’onorevole Moro a liberarlo. Cerchiamola e cerchiamola insieme a tutti i democratici”.
In molti non hanno voluto. I pochi che hanno cercato non ci sono riusciti.
“Mi sento abbandonato” è un libro che rammemora quello che per mentale pigrizia o per deliberato calcolo si scolora, con la complicità del tempo che scorre inesorabile. Dell’incredibile vicenda del ‘covo’ di via Gradoli, come non venne perquisito e di come infine fu scoperto, c’è ancora memoria. Ma come spunta quel nome? Nel corso di una seduta spiritica di ‘professori’ che non sanno come trascorrere il fine settimana nelle campagne di Zappolino nel bolognese. C’erano Romano Prodi, Mario Baldassarri, Alberto Clò, le loro famiglie. Lo spirito evoca quel nome, ci si precipita nel paesino vicino Viterbo. Non nella strada romana perché, si assicura alla moglie di Moro, quella via non c’è. E invece c’è.
Anni dopo, durante una pausa del processo che lo vuole coinvolto nel delitto del giornalista Mino Pecorelli, Andreotti sollecitato da chi scrive, dice: “Ma lo sanno tutti che quello spirito copre una fonte di Bologna”. Ribatto: Prodi parla di seduta spiritica. Sornione Andreotti: “Prodi? Non sapevo neppure fosse presente…”. Presidente, non ci posso credere… “Creda quello che vuole, non mi impedirà di andare tranquillo a pranzo…”. A distanza di tanto tempo, non sarebbe finalmente il caso di chiarire questo punto? Chi era la fonte di Bologna (o magari Trento)? Ancora. La prima lettera che Moro scrive a Francesco Cossiga contiene una frase che a distanza di tanti anni continua a colpire: “…che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato…”.
Frase enigmatica, richiama l’attenzione di Leonardo Sciascia. Ne “L’Affaire Moro” scrive: “…mandava dalla prigione messaggi da decifrare secondo quel che ‘gli amici’ conoscevano di lui…”. Intervistato il 5 dicembre 1978 da Nico Perrone per “Il Manifesto”, Sciascia ricorda che un suo lettore “ha scritto una lettera interessante proprio su quella frase di Moro del ‘dominio pieno e incontrollato’…fa l’ipotesi che il ‘con’ possa passare davanti a ‘dominio’, e diventare ‘condominio’. Allora ‘incontrollato’ avrebbe un senso. Sono ipotesi, ma credo che dal punto di vista poliziesco queste lettere potessero essere interpretate meglio, essere lette con attenzione”. Uno storico che molto si è applicato alle vicende del terrorismo, Miguel Gotor, nel suo “Moro: lettere dalla prigionia” riconosce le ragioni intuite da Sciascia: “… sostenendo che l’uomo politico, con quella frase, intendeva comunicare che si trovava “in un condominio molto abitato e non ancora controllato dalla polizia”. Ancora Sciascia; componente della prima commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, nella sua relazione di minoranza si chiede come non sia stata considerata “l’attenzione che sapeva dedicare alle parole, il suo uso spesso tortuoso che sapeva farne”, preferendo decifrare i comunicati delle BR che con il loro linguaggio “pietrificato, fatto di slogan» non aveva nulla da dire. All’intelligenza dello statista non si dà credito, eppure, forse, aveva provato a dare degli indizi; e per Sciascia uno di questi indizi è proprio quel “che mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato”.
Anche Martelli e De Leo si soffermano su questo punto trascurato, in quella che definiscono “una scoperta semplicemente sconvolgente”. Rimandano alla lettura di un altro libro, “L’urlo di Moro” del professor Carlo Gaudio (Rubbettino), che decritta la frase: “perfetto anagramma di quest’altra: ‘e io so che mi trovo dentro il p.o. uno di Montalcini n.o. otto’”. Ovvero “l’esatta ubicazione della prigione in cui Moro è detenuto”. In effetti, se si “gioca” con le sillabe, è quella la frase che si ricava. Rimane, ma è irrilevante, solo il “rest o” di una “d” di troppo. Date le condizioni in cui Moro scrive, ci può stare.
A questo punto meglio andare alla “fonte”, il libro di Gaudio, inspiegabilmente passato inosservato. A pag.74-75 si legge: “La campagna feroce sulla non autenticità degli scritti di Moro lanciata con l’intento di screditare non solo la moralità del prigioniero, ma perfino la sua integrità mentale e psichica…porta ad una tragica svalutazione delle sue lettere, quasi ad un ordine di scuderia di non considerarle autentiche, di invalidarle…solo Sciascia, con lo spirito artistico autentico che spesso anticipa la realtà, squarcia il buio dei discorsi politici di parte, avvertendo tutti che Moro è psichicamente integro e sta rivelando particolari importanti sulla sua prigionia…”.
Moro chiede che la lettera a Cossiga resti “privata”. Si capisce: spera il “messaggio” sia compreso da chi può e deve, che operi poi con discrezione ed efficienza. La censura delle BR non coglie il “messaggio” contenuto nell’anagramma. Recapitano la lettera, ma contemporaneamente la rendono nota. Nessuno si accorge del vero messaggio. “Solo vent’anni dopo”, annota Martelli, “Cossiga, che in quanto ministro degli Interni governava le forze dell’ordine, ricordò di aver trasmesso al SIOS Marina, i servizi di intelligence militare specializzati anche nell’interpretare codici cifrati, la lettera con l’anagramma di Moro che gli amici sapevano essere amatore ed esperto di anagrammi rebus e cruciverba”. Niente: anche vent’anni dopo gli analisti se ne accorgono, “decifrano”. A questo punto inevitabile domandarsi: come mai Moro sa dove è tenuto prigioniero, il piano, il nome della via, perfino il numero civico? Gaudio in una nota del suo libro riporta di un dialogo tra Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, membri del comitato esecutivo delle BR: “Moro otteneva tutto quello di cui aveva bisogno. Si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere, scriveva…”. Del tutto plausibile, chiosa, che “muovendosi nella casa, abbia potuto scorgere e me morizzare l’indirizzo preciso del covo su una bolletta, su un documento”.
Chissà. Comunque si contraddice la vulgata che vuole Moro ristretto nei “quattro metri quadrati scarsi della prigione, semisdraiato sul letto, appoggiato a un paio di cuscini”, come raccontano altri brigatisti (e lo stesso Gaudio, a pag.19). Misteri che si aggiungono a misteri: l’impunità da sempre garantita a uno dei brigatisti di via Fani, quell’Alessio Casimirri che vive tranquillo e indisturbato in Nicaragua; le misteriose coperture e complicità su cui può contare. I rapporti dei terroristi con paesi e organizzazioni straniere. Dove sono custoditi, e da chi, gli originali del “memoriale” di Moro…
Merito poi di De Leo aver recuperato il diario inedito di Amintore Fanfani, all’epoca presidente del Senato, tra i democristiani uno di quelli che maggiormente si prodiga per salvare Moro. Un documento prezioso che chiarisce tante cose, ma suscita altrettanti interrogativi. A un certo punto del suo ragionare e ricordare, Martelli si chiede: “Il PCI fu tra tutti i partiti il più rigido e determinato nell’escludere non solo qualunque trattativa, ma anche qualunque flessibilità che potesse, senza mettere a rischio lo Stato, favorire la liberazione di Moro. Perché?”. Quasi tutti gli “attori” di quegli anni non ci sono più; anche volessero non possono più rispondere. Ciò non toglie che la domanda va posta. Uno dei pregi di questo libro è ricordare che questo interrogativo attende ancora di essere sciolto. Non capirono? Non vollero capire? O, al contrario, compresero benissimo, e si comportarono di conseguenza?