Dopo quanto avvenuto a Pahalgam – dove i pellegrini sono stati uccisi durante un viaggio sacro verso il santuario di Amarnath – l’India ha colpito. L’operazione, nome in codice Sindoor, porta risonanza alla crisi. Non solo per il sangue versato in Kashmir, ma per il marchio rituale indossato dalle donne indù – un simbolo di protezione, ora invocato in un linguaggio di punizione.
Ma sotto la furia c’è il metodo. ‘L’operazione Sindoor’ non è una dichiarazione di guerra, ma un passo in più nella dottrina in evoluzione di ritorsione limitata dell’India: una coreografia militare-politica calibrata danzata lungo il filo del rasoio della deterrenza nucleare. Ciò che si sta svolgendo non è semplicemente uno scontro di militari. È una performance ad alto rischio di potere e dolore, che si svolge in un teatro dove la storia sanguina nella strategia.
Gli attacchi condotti in profondità nel Kashmir occupato dal Pakistan hanno preso di mira i campi di addestramento al terrore e i nodi logistici presumibilmente legati a Lashkar-e-Taiba e Jaish-e-Mohammed – gruppi con lunghe registrazioni di attacchi transfrontalieri e oscurio patrocinio da parte dell’apparato di intelligence militare pakistano. A differenza della spavalderia della guerra su vasta scala o della teatralità dei bombardamenti aerei come in Balakot (2019), Sindoor è caratterizzato dal silenzio e dalla negazione. Era chirurgico, veloce e senza un torto trionfante sul petto – un segnale maturo e snervante di determinazione.
L’approccio indiano segnala una maturità dottrinale modellata dalle lezioni di Kargil, Pathankot, Pulwama e Balakot. Ogni evento ha ridefinito le regole di impegno nel subcontinente nuclearizzato. Ciò che Sindoor afferma è il consolidamento da parte dell’India di una dottrina di “attacco punitivo”, in cui la ritorsione è tattica, politicamente risonante e strategicamente vincolata. Questa non è guerra nel senso tradizionale; è coercizione calibrata nell’era della sorveglianza satellitare, della diplomazia dei droni e della gestione globale delle immagini.
Nell’era della guerra asimmetrica e della negazione plausibile, l’India ha abbracciato un vocabolario di forza che evita la conquista per la credibilità.
Gli attacchi dell’India si verificano all’interno della logica paradossale della pace nucleare, un concetto in cui la distruzione reciproca assicurata deterre la guerra totale, ma consente alle ostilità a bassa intensità di ribollire. La dottrina del Pakistan della “deterrenza a spettro completo” – che include la minaccia delle armi nucleari tattiche – è contrastata dalla politica dichiarativa dell’India “No First Use”. Eppure in pratica, l’equilibrio è più fragile di quanto suggerisca la dottrina.
In effetti, il calcolo a freddo dell’India si basa sulla premessa che il Pakistan non si intensificherà al livello nucleare in risposta a scioperi limitati e proporzionati. E finora, quella premessa ha tenuto – solo a malapena. Le risposte del Pakistan rimangono retoriche e limitate agli scambi convenzionali lungo la linea di controllo. La paura più profonda, tuttavia, non è la rappresaglia statale, ma un comandante canaglia, un segnale frainteso o una provocazione fabbricata che si trasforma in una catastrofe nucleare.
Nell’Asia meridionale, la pace non è un trattato. È un silenzio – teso, condizionale e snervantemente sottile.
Il massacro di Pahalgam – un assalto agghiacciante ai pellegrini disarmati – ha fatto più che provocare indignazione; ha trafitto il nucleo morale della democrazia indiana. L’operazione Sindoor, rapida e forte, è stata la risposta dello stato, modellata tanto dalla domanda pubblica quanto dal calcolo strategico. Ma sotto la coreografia della rappresaglia si trova un dilemma più intrattabile: gli attacchi di precisione, per quanto giustificati, possono svelare il nodo più profondo di alienazione, militanza e sfiducia storica che ha a lungo perseguitato il Kashmir?
La risposta muscolare dell’India maschera una ferita più profonda: la sua incapacità di conquistare i cuori e le menti nella Valle. Dall’abrogazione dell’articolo 370 nel 2019, il Kashmir è rimasto sotto un pesante blocco di presenza militare, repressioni amministrative e censura digitale. Il terreno è diventato non solo un campo di battaglia per la sovranità, ma una prova per l’anima del federalismo indiano. Per ogni terrorista neutralizzato, una generazione guarda: senza lavoro, senza voce e sempre più alienato.
Sindoor può punire il terrore sostenuto dal Pakistan, ma non può cancellare la verità che la crisi del Kashmir è tanto interna quanto esterna. La strategia del potere duro deve essere integrata da empatia, dialogo politico e rinnovamento economico – o rischiare di diventare un’altra svolta nel ciclo della violenza.
La capacità dell’India di colpire con fiducia chirurgica deve tanto al suo isolamento diplomatico quanto alla sua prontezza militare. Gli Stati Uniti, pur sollecitando pubblicamente la moderazione, sostengono tacitamente il diritto dell’India all’autodifesa di fronte al terrorismo islamista. Israele, la Francia e persino le nazioni del Golfo hanno rafforzato i legami di difesa e intelligence con Nuova Delhi. La marea internazionale, post-9/11 e post-ISIS, si è spostata a favore dell’azione antiterrorismo, dando all’India la libertà di agire, a condizione che non esageri.
La Cina, tuttavia, si profila come un fattore di complicazione. Come “fratello di ferro” del Pakistan e mecenate strategico, il calcolo di Pechino nell’Himalaya è freddo come i ghiacciai dove le truppe indiane e cinesi stanno occhio a bulbo oculare. Lo stallo del LAC nel Ladakh sottolinea che la frontiera settentrionale dell’India è volatile quanto quella occidentale. Qualsiasi escalation con il Pakistan non può essere vista in isolamento – rischia di aprire un teatro a due fronti. Quella realtà ancora la modessa dell’India e rafforza la logica della guerra limitata.
Gli scioperi dell’India non sono quindi solo messaggi a Islamabad – sono dispacci codificati a Washington, Riyadh e Pechino, articolando una nuova grammatica del potere indiano: assertivo ma non sconsiderato, rappresaglia ma non revancista.
La memoria di Kargil – quando i soldati pakistani travestiti da insorti catturarono i pali di montagna nel 1999 – perseguita ancora l’immaginazione strategica dei pianificatori indiani. Kargil è stato un campanello d’allarme, che ha esposto i limiti della posizione deterrente dell’India e la sua impreparazione per tattiche non convenzionali. In risposta, l’India ha ricostruito la sua griglia di intelligence, modernizzato il suo corpo d’attacco e ha investito nella sorveglianza in tempo reale. Sindoor è il dividendo di quella trasformazione.
Ma le lezioni di Balakot (2019) sono più recenti e che fanno riflettere. Mentre l’attacco aereo su un campo terroristico in Pakistan ha segnato un audace precedente, il successivo combattimento aereo – e la cattura del pilota indiano Abhinandan – hanno illustrato i pericoli dell’escalation. Il margine tra deterrenza e catastrofe è sottilissimo.
Sindoor evita quelle insidie rimanendo sotto il radar, letteralmente e metaforicamente. Non ci sono combattimenti aerei transfrontalieri, briefing roboanti sui media, nessun video di bombe che cadono. Solo silenzio, impatto e negazione plausibile. È una guerra senza spettacolo – ed è proprio questo che la rende potente.
Eppure una domanda più profonda perseguita questa dottrina della guerra limitata: la rappresaglia perpetua è una strategia o una dipendenza?
Ogni sciopero rischia di diventare parte di uno schema ciclico – dove il terrore genera controterrorismo, dove il sangue viene vendicato con il sangue e dove nessuna delle due parti sfugge al vuoto morale della violenza tit-for-tat. In questo calcolo, la vittoria è fugace e la pace rimane sfuggente. Ciò a cui l’India deve guardarsi è la seduzione del simbolismo militare che diventa un sostituto della visione politica.
L’operazione Sindoor può portare il peso della chiarezza morale, ma la chiarezza morale da sola non può ancorare una regione volatile.
Alla fine, la battaglia più urgente del subcontinente non è tra eserciti o ideologie, ma tra memoria e immaginazione. L’India e il Pakistan sono intrappolati in narrazioni di tradimento, orgoglio ferito e partizioni incompiute. Ogni sciopero, ogni massacro, ogni rappresaglia aggiunge un altro strato a un mito nazionale – mentre le vite ordinarie ne pagano il prezzo.
Se ci deve essere la pace, deve iniziare con una resa dei conti, che onori le vittime di Pahalgam non solo con rappresaglie militari ma con coraggio morale. Un coraggio che osa reimmaginare la sicurezza al di là della punizione, della sovranità al di là dell’assedio e del potere oltre la violenza.
Fino ad allora, le ceneri nella valle continueranno a bruciare.