Vivono nella loro patria ma come forestieri,
partecipano a tutto come cittadini
ma da tutto distaccati come stranieri.
Ogni terra straniera è loro patria
e ogni patria è straniera.
(Anonimo, Lettera a Diogneto, II sec. d.C.)
Quando ci si riferisce alla Chiesa cattolica come attore geopolitico occorre sempre tenere presente la sua generale capacità – e volontà – di concentrarsi su tendenze di lungo termine, facendo dunque prevalere l’elemento temporale su quello spaziale. L’azione della Chiesa, peraltro, deve necessariamente esprimersi attraverso lo spazio, dimensione anch’essa in grado di affermare in pieno la ‘diversità’ dei cristiani, come mirabilmente descritto dall’anonimo autore del passo in epigrafe, tratto da un importante testo del cristianesimo dei primi secoli.
Con queste premesse, è indubbio che la Chiesa cattolica, forte di quasi un miliardo e mezzo di fedeli e di un’autorità centralizzata (a differenza delle altre fedi, cristiane e no), rientra a buon diritto nel novero delle ‘grandi potenze’ geopolitiche. Una potenza disarmata, ma portatrice di un ineguagliabile soft power e di una capacità di mobilitazione tuttora fortissima, nonostante gli alti e bassi della storia.
Dal punto di vista della concreta declinazione dell’influenza sovranazionale esercitata dalla Santa Sede, poi, coloro che – come lo scrivente – hanno avuto occasione di interagire per ragioni professionali con i diplomatici vaticani non possono non apprezzarne le grandi doti e l’alta capacità di farsi strumento dell’internazionalizzazione del messaggio cristiano. Anche se non sempre il Pontefice da poco scomparso ne ha utilizzato a fondo le potenzialità, preferendo spesso una sorta di ‘diplomazia personale’ e coinvolgendo anche il Dicastero per i Rapporti con gli Stati nei tentativi – oggi in parte arenati – di riforma della Curia romana.
Anche con questo caveat, non vi è dubbio che il pontificato Bergoglio ha saputo restituire un certo slancio alla Chiesa cattolica sulla scena geopolitica e mediatica mondiale, fin dall’azione tendente a evitare un intervento statunitense in Siria nel 2013 e dall’invito in Vaticano rivolto congiuntamente, l’anno successivo, a Shimon Peres e Abu Mazen.
Francesco è stato il primo Pontefice a riconoscere (e favorire) un certo allontanamento della Chiesa cattolica dall’Occidente, con il quale essa si era in precedenza pressoché identificata pur criticandone spesso – si pensi a Papa Ratzinger – la deriva individualistica e il crescente relativismo morale; e a dare voce alle istanze del cosiddetto ‘Sud globale’, criticando l’unipolarismo statunitense seguito alla fine della Guerra Fredda. Questo epocale mutamento di orizzonte si è prodotto parallelamente a un nuovo approccio alle questioni sociali, con l’adozione di posizioni molto critiche nei confronti del capitalismo e delle crescenti disuguaglianze economiche mondiali.
Bergoglio è stato da molti definito ‘populista’, tributario dunque della tendenza – in Argentina soprattutto di origine peronista ma in gran parte condivisa dal locale cattolicesimo – a quasi ‘sacralizzare’ il popolo, considerato ‘innocente’, ma sottoposto alla corruzione delle élites. Tale retaggio spiega almeno in parte la citata avversione all’Occidente: la geopolitica bergogliana è stata di fatto fondata su tali tratti distintivi, che ben la possono avvicinare a posizioni terzomondiste.
Di qui la contrarietà di Francesco al modello statunitense, soprattutto nella sua declinazione trumpiana; e la parallela avversione alle politiche vaticane della maggioranza conservatrice dell’episcopato USA. Ben diversa, ovviamente, l’attenzione riservata dal Papa argentino al subcontinente latinoamericano, dimostrata fin dai primi anni di pontificato con il patrocinio del riavvicinamento fra Cuba e l’amministrazione Obama, ma anche con il successo della sua prima visita apostolica, svoltasi a Rio de Janeiro nel luglio 2013 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù.
Eppure, Bergoglio non è riuscito ad arginare, proprio in Sudamerica, l’impetuosa avanzata dei cristiani evangelici, una forza religiosa con molti appoggi proprio negli Stati Uniti e portatrice di un messaggio ben diverso da quello cattolico, soprattutto per il favore che riserva al successo economico. Oggi i cattolici sono ancora maggioranza in America Latina, ma con numeri piuttosto risicati, di poco superiori al 50% (dal circa 80% degli anni Novanta del secolo scorso); mentre gli evangelici hanno più che triplicato il loro peso negli ultimi vent’anni, mettendo addirittura nel mirino per il prossimo decennio il ‘sorpasso’ del cattolicesimo in Brasile.
Tutto ciò non può non colpire in un panorama generale di leggero aumento dei fedeli cattolici nel mondo, che sono passati durante il pontificato di Bergoglio da 1,25 a 1,39 miliardi soprattutto per merito del contributo africano: a partire dalla Repubblica Democratica del Congo che, già nel 2020, ha sottratto al Brasile il primato di Paese con la più numerosa popolazione cattolica. Peraltro, proprio l’episcopato africano si è in buona parte distinto, negli ultimi tempi, per un orientamento tendenzialmente conservatore, poco allineato con quello del Papa.
Anche l’Asia è rientrata fra gli obiettivi primari dell’azione di Papa Bergoglio: esempio principale di tale orientamento è stata l’apertura verso la Cina culminata nell’’accordo provvisorio’ sulla nomina dei vescovi, sottoscritto il 22 settembre 2018 dopo vari anni di negoziato. L’intesa, secondo la quale il governo cinese propone i nominativi dei candidati vescovi mentre il Pontefice conserva l’ultima parola sulla loro nomina, costituisce uno dei principali risultati dell’azione geopolitica bergogliana, superando la storica divisione fra la Chiesa cinese ‘ufficiale’ e quella ‘clandestina’ e ponendo tutti i vescovi del Paese in piena comunione con il Papa. Si è trattato di un vero e proprio cambio di paradigma nei rapporti fra Pechino e il Vaticano, che ha favorito il superamento di quella estraneità cinese alla Chiesa cattolica da molti considerata sostanzialmente irriducibile. L’accordo, peraltro, è stato ed è criticato da varie correnti cattoliche, che lo considerano una concessione troppo generosa nei confronti di un governo che limita tuttora i diritti dei credenti (con particolare ma non esclusivo riferimento alla situazione dei diritti umani a Hong Kong); altri lo hanno invece lodato, considerandolo un passo avanti nella tutela dei fedeli cinesi. In ogni caso, l’intesa ha mostrato il pragmatismo di Bergoglio, che ha modificato le precedenti posizioni in proposito della Santa Sede, basate su una severa difesa del principio di libertà religiosa. Occorrerà vedere come evolverà la situazione con il nuovo Pontefice: la validità dell’accordo, per il momento, è stata prorogata fino al 2028, un tempo comunque ridotto sia – come si è detto – per la Chiesa cattolica, sia per il millenario ‘Impero del Centro’. Nel frattempo, la Santa Sede continua a essere uno dei pochi Stati a riconoscere Taiwan e a mantenervi una propria rappresentanza diplomatica.
Per quanto riguarda Medio Oriente e Palestina, Francesco – confermando la posizione vaticana a favore della soluzione ‘due popoli, due Stati’ – ha intensificato l’appoggio e la preoccupazione della Santa Sede nei confronti del popolo palestinese, esprimendosi fra l’altro in maniera molto severa a riguardo dell’eccessiva violenza esercitata da Israele sugli abitanti di Gaza dopo i tragici fatti del 7 ottobre 2023 e utilizzando in proposito, sia pure in chiave dubitativa, il termine ‘genocidio’. Le sue dure critiche, ripetute in più occasioni, gli hanno alienato le già scarse simpatie del governo israeliano, come si è potuto constatare anche in occasione della sua morte con le fredde condoglianze giunte solo dopo vari giorni. Gli ambienti cattolici conservatori, a loro volta, hanno spesso contestato l’atteggiamento considerato distratto di Bergoglio verso le discriminazioni subite dalle minoranze cristiane in diversi Paesi islamici.
Infine l’Europa, di rilevanza non primaria nella visione del Pontefice arrivato ‘quasi dalla fine del mondo’, ma tornata al centro dell’attenzione internazionale con l’invasione russa dell’Ucraina. Mai come in questo caso si è manifestata l’azione di Papa Bergoglio in favore della pace, già in precedenza iniziata con la famosa denuncia della ‘terza guerra mondiale a pezzi’ suscitata e sostenuta dall’industria degli armamenti. Da citare soprattutto, in tema di Ucraina, l’intervista del 2022 al ‘Corriere della Sera’, in cui Francesco accusò la NATO di avere “abbaiato” alle porte della Russia; e il successivo elogio del “coraggio di alzare bandiera bianca e negoziare”, che suscitò l’indignazione di Kiev e lo fece includere da qualcuno nel novero dei sostenitori di Mosca, ma che costituiva in realtà un riflesso della postura critica verso l’Occidente citata in precedenza.
Proprio questa ‘lontananza’ dall’Occidente – di cui sono state eco anche le posizioni ambientaliste espresse nell’enciclica ‘Laudato Si’’, oltre alle battaglie in difesa dei migranti – e il favore verso un ordine internazionale più spostato verso le periferie del mondo resteranno l’impronta più caratteristica del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Se i risultati della sua azione saranno permanenti si vedrà negli anni e nei decenni prossimi: certo, il suo successore si troverà di fronte l’immane compito di proseguirla, correggendone magari alcuni aspetti problematici e preservando il ruolo della Chiesa cattolica nel mondo, anche tornando indietro rispetto ai forse eccessivi atteggiamenti da ‘uomo comune’ tanto cari al Papa argentino. Un mondo, l’attuale, sempre più complesso e difficile, nei confronti del quale il ‘distacco’ cristiano descritto nella Lettera a Diogneto, ben lontano dal voler significare isolamento, potrebbe ancora rappresentare un’importante carta da giocare.