Papa Francesco, scomparso all’età di 88 anni, si lascia alle spalle un pontificato diverso da qualsiasi altro nella storia moderna della Chiesa cattolica. Dodici anni come vescovo di Roma, ha segnato un sorprendente allontanamento dalle posizioni dottrinali e geopolitiche dei suoi predecessori.
Primo papa dell’America Latina e primo gesuita a ricoprire l’ufficio papale, Jorge Mario Bergoglio ha portato con sé non solo un nuovo stile pastorale, ma anche una visione globale forgiata nei barrios di Buenos Aires e modellata dalle correnti teologiche e dalle fratture politiche del Sud del mondo. In questo, il suo pontificato è emerso come un contrappeso morale a un ordine mondiale fratturato e disuguale, promuovendo innovazioni teologiche, reinventando la diplomazia e ponendo le periferie al centro della preoccupazione cattolica.
Un Papa dai margini
L’elezione di Francesco nel 2013 ha seguito le dimissioni senza precedenti di Papa Benedetto XVI e si è verificata in un momento in cui la Chiesa è apparsa alla deriva, devastata dallo scandalo e sempre più alienata da un Occidente in rapida secolarizzazione. Fin dai suoi primi giorni, Francesco ha segnalato una rottura con la grandezza del Vaticano, adottando vesti più semplici, evitando il palazzo papale e chiedendo una “Chiesa che sia povera e per i poveri”. La sua prima visita a Lampedusa, dove ha pianto la morte di migranti annegati nel Mediterraneo e ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”, ha dato il tono a un pontificato modellato dalle grida degli esclusi (NPR).
Come ha osservato Craig Considine, Francesco ha riorientato il centro di gravità della Chiesa, espandendo la sua attenzione pastorale e politica all’Africa, all’Asia e all’America Latina. Queste regioni, a lungo considerate territori missionari, sono ora diventate interlocutori nei dibattiti globali su giustizia, ecologia e pace. Francesco non ha parlato al Sud del mondo, ma di esso.
Riformulazione teologica
Al centro della visione teologica di Francesco c’era un’insistenza radicale sulla dignità umana. Ha descritto il capitalismo moderno come una “nuova tirannia” e ha denunciato la “cultura usa e getta” che butta da parte gli anziani, i non ancora nati, i disabili e i poveri.La sua esortazione apostolica del 2013 Evangelii Gaudium ha avvertito che “un’economia di esclusione e disuguaglianza … uccide”. L’anno successivo, parlando al Parlamento europeo, ha esoriato la perdita di visione morale dell’Europa, paragonando il continente a una “nonna sterile”.
Francesco ha ridefinito il vocabolario morale del papato spostando l’enfasi dall’etica sessuale alla giustizia sociale ed economica. Nella ‘Laudato Si‘, ha offerto una profonda riflessione teologica sull’ecologia, traendo ispirazione dal patriarca ortodosso Bartolomeo e persino citando un mistico sufi del XVI secolo, Ali al-Khawas, un gesto senza precedenti nei documenti magistrali cattolici.
Questa apertura rifletteva una posizione teologica più ampia: la convinzione che la verità non sia il monopolio della Chiesa, ma si trova nel dialogo, nell’incontro e nella sofferenza condivisa. Nella ‘Fratelli Tutti’ (2020), ispirato dalla sua amicizia con il Grand Imam Ahmed Al-Tayyeb, Francesco ha chiesto una fraternità universale che trascendesse i confini religiosi e nazionali. “Dio ha creato tutti gli esseri umani uguali in diritti, doveri e dignità”, afferma l’enciclica, un’affermazione di universalismo morale fondata su relazioni interreligiose vissute.
Dialoghi interreligiosi e diplomazia religiosa
Se la statura globale di Giovanni Paolo II è stata modellata dal suo confronto della Guerra Fredda con il comunismo e dal papato di Benedetto XVI dal rigore teologico, l’eredità di Francesco risiede nel suo ruolo di diplomatico spirituale della riconciliazione interreligiosa. La sua visita agli Emirati Arabi Uniti nel 2019, la prima di un papa nella penisola arabica, è culminata nella firma del Documento sulla Fraternità umana, una pietra miliare nelle relazioni cattolico-musulmane.
Ha esteso questa sensibilizzazione con gesti significativi: pregare alla Moschea Blu di Istanbul, abbracciare il Grande Ayatollah Ali al-Sistani in Iraq e mantenere un’amicizia per tutta la vita con il rabbino Abraham Skorka, con il quale è stato coautore di On Heaven and Earth. La sua diplomazia ecumenica non era guidata dal compromesso teologico, ma dalla sua convinzione che “l’altro potresti essere tu”. Come ha affermato, “Non è giusto identificare l’Islam con la violenza. Non è giusto e non è vero”
Questo approccio non è stato privo di critiche. I suoi commenti durante la guerra tra Israele e Hamas sono stati visti da alcuni come equivoci sul terrorismo di Hamas e sul diritto di Israele di difendersi. La sua dichiarazione al presidente Herzog secondo cui Israele non deve “rispondere al terrore con il terrore” ha scatenato un contraccolpo tra i leader ebrei. Tuttavia, Francesco era incrollabile nella sua chiamata a proteggere la vita umana, affermando che “la prima cosa importante è salvare le persone”. Ha descritto la crisi di Gaza come “drammatica e deplorevole”, mentre sollecitava anche il rilascio degli ostaggi e chiedeva l’accesso umanitario.
Un’immaginazione diplomatica: guerra, pace e realismo
Lo stile diplomatico di Francesco è stato plasmato dalla sua formazione come gesuita e dalla sua profonda immersione nel pensiero sociale latinoamericano. Evitando grandi strategie o alleanze militari, la sua diplomazia funzionava attraverso la persuasione morale e la presenza pastorale. Si trattava meno di assicurarsi vittorie geopolitiche e più di affermare la dignità dei feriti. Questa preferenza per il dialogo, anche quando impopolare, ha plasmato il suo approccio alla guerra in Ucraina. Nel 2024, ha causato polemiche internazionali esortando l’Ucraina a considerare il “coraggio della bandiera bianca”, il che significa negoziazione piuttosto che spargimento di sangue prolungato. I suoi commenti, consegnati prima della rinnovata iniziativa di mediazione del presidente Erdoğan, sono stati ampiamente fraintesi come resa, ma erano in realtà una reiterazione della sua convinzione che la guerra sia il “vergnoso fallimento della politica”.
Nel terzo anniversario della guerra, nonostante il ricovero in ospedale per polmonite, Francesco ha definito il conflitto “un’occasione dolorosa e vergognosa per tutta l’umanità”, invocando la solidarietà non solo con l’Ucraina, ma anche con le vittime in Sudan, Myanmar, Medio Oriente e Kivu.
Il suo rapporto con la Russia è stato critico. Ha incontrato il presidente Putin e il patriarca russo Kirill e ha tentato una posizione di mediazione tra Kiev e Mosca, che ha attirato disprezzo da entrambe le parti quando ha riconosciuto i “dialoghi segreti” del Vaticano con le parti. I cattolici ucraini si sono sentiti traditi, soprattutto quando il Papa ha usato un linguaggio che faceva eco all’inquadratura russa del conflitto come “violenza fratricida”. Eppure, anche qui, la sua risposta, che chiedeva una collezione speciale per l’Ucraina, è stata profondamente pastorale.
La diplomazia di Francesco potrebbe aver perso il morso geopolitico, ma portava una risonanza spirituale. Il suo metodo assomigliava a quello di un confessore che ascoltava piuttosto che un negoziatore che dettava termini. Non era immune alle critiche, ma la sua posizione derivava da un principio teologico incrollabile: che nessuna guerra è giusta se abbandona la vita e la dignità umana.
Le opinioni di Papa Francesco su Donald Trump e le sue politiche erano caute ma spesso fortemente critiche, specialmente su questioni riguardanti la migrazione, la giustizia economica e la responsabilità ambientale. Non nominava spesso Trump, ma le sue critiche erano inequivocabilmente mirate alla retorica e alle politiche dell’ex presidente degli Stati Uniti.
Uno dei momenti più incisivi è arrivato nel 2016 quando, durante la campagna presidenziale degli Stati Uniti, Francis ha osservato che “una persona che pensa solo alla costruzione di muri, ovunque si trovino, e non alla costruzione di ponti, non è cristiana”. Il commento è stata una risposta diretta al piano di Trump di costruire un muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. Trump, a sua volta, ha accusato il Papa di essere una pedina politica del governo messicano, provocando una guerra di parole insolitamente diretta tra il Vaticano e un candidato presidenziale degli Stati Uniti.
La disapprovazione di Francesco si estendeva al nazionalismo di Trump, al rifiuto degli accordi sul clima e alle dure politiche di immigrazione. Ha ripetutamente avvertito che “il populismo non è la soluzione” e ha denunciato le politiche che danno priorità agli interessi nazionali a spese dei vulnerabili. La sua enciclica Fratelli Tutti (2020) ha implicitamente criticato leader come Trump rifiutando il “nazionalismo miope, estremista, risentito e aggressivo” e sottolineando invece gli ideali della fraternità e della cooperazione multilaterale.
L’eredità di Francesco
Papa Francesco lascia un’eredità che sfida la grammatica convenzionale dell’artigianato statale vaticano. Il suo papato potrebbe non aver risolto le controversie dottrinali o consolidato l’autorità ecclesiastica. Ma è riuscito in qualcosa di probabilmente più vitale: ripristinare la voce morale della Chiesa su una scena globale segnata da frammentazione e paura. Non era un papa degli imperi, ma degli incontri; non un sovrano in trono, ma un pastore che camminava con i feriti.
In uno dei suoi ultimi appelli pubblici, pronunciati pochi giorni prima della sua morte, ha definito Gaza “una crisi drammatica e deplorevole” e ha esortato sia gli israeliani che i palestinesi a “chiedare un cessate il fuoco, liberare gli ostaggi e venire in aiuto di un popolo affamato che aspira a un futuro di pace”. Quella frase – “un futuro di pace” – cattura il cuore del pontificato di Francesco. Non si è mai trattato di consolidare il potere, ma di seminare speranza in luoghi lontani, di guardare fuori dai margini del mondo e di sentire, nei gemiti dei dimenticati, la voce di Dio.