“L’uso nocivo dei dazi era estraneo alla mentalità romana perché colpivano innanzitutto gli interessi dei mercanti romani. Semmai avveniva il contrario: l’immunità doganale era uno strumento per favorire comunità alleate e governi amici, aumentando la capacità di influenza”. Intervista al Professor Mattia Pietro Balbo (Università di Torino)
‘Dazi’ «è la parola più bella del dizionario», sostiene il Presidente americano, Donald Trump, che, nel giorno da lui ribattezzato ‘Inauguration Day’, il 2 aprile scorso, ha mantenuto la sua promessa di imporre tariffe su quasi tutte le nazioni e isole disabitate del pianeta, peraltro sulla base di calcoli strampalati.
A seguito del caos sulle borse e non solo, il tycoon ha sospeso i dazi per 90 giorni a tutti Paesi (Unione Europea compresa), tranne che alla Cina, alla quale ha, invece, triplicato le tariffe, sfiorando il 150%, in un’escalation che sembra andare nella direzione di una guerra commerciale per indebolire Pechino.
L’impressione, in generale, è che Trump -abituato a vedere ogni rapporto sulla base della forza e quindi ad impostare la politica estera in senso ‘imperiale’- sia determinato ad usare i dazi come arma di trattativa, utilizzata con amici e nemici, finanche minando il soft power statunitense. Niente di più diverso, per non dire l’opposto, dall’uso ‘più positivo’ che ne faceva, in modo lungimirante, la Roma imperiale, come ci spiega Mattia Pietro Balbo, Docente di Storia economica e sociale di Roma antica oltre che di Storia romana ed epigrafia antica presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università di Torino.
Anzitutto, Professor Balbo, partiamo dall’etimologia latina della parola ‘dazio’.
Nel senso che lo intendiamo noi viene dal latino medievale (‘datio’ oppure ‘datium’), col significato di ‘dare’. Nel mondo romano le tasse sulle merci erano genericamente chiamate ‘porto ti’, da ‘portus’ (‘porto’) oppure con l’indicazione specifica della tariffa, ad esempio Quadragesima Galliarum, la dogana delle Gallie, corrispondente appunto a un quarantesimo (2,5%) del valore delle merci. È una differenza terminologica non casuale. I dazi reciprociinfatti sono diffusi nelle economie multipolari, mentre l’Impero romano era una realtà unipolare nel Mediterraneo. Aveva importanti rapporti economici con l’Oriente, compreso il subcontinente indiano, ma non tali da scatenare una guerra commerciale come quella che sta scoppiando sotto i nostri occhi. I ‘portoria’ dunque erano soprattutto dogane interne all’impero e/o tasse portuali applicate sui confini esterni. Lo scopo principale era contribuire alle entrate fiscali, e non punire il nemico. Per completezza, le tasse in generale si chiamavano ‘vectigalia’, mentre le imposte dirette erano i tributa.
Quale istituzione romana aveva il potere di imporre i dazi? L’imperatore? E ci furono imperatori che vi ricorsero in modo più massiccio di altri?
L’imposizione di tasse era una prerogativa delle autorità politiche: l’imperatore innanzitutto, ma anche il senato. Quest’ultimo aveva competenza sulla politica economica specialmente in età repubblicana, prima di Augusto, ma mantenne un ruolo di condivisione del potere anche nei secoli successivi. Ci piace interpretare i primi tre secoli dell’impero romano (27 a.C. – 200 d.C. circa) come una diarchia fra imperatore e senato. Esistevano infatti due casse pubbliche: il fisco dell’imperatore e l’erario del senato. In esse confluivano le entrate di competenza dei due organi, anche se era l’imperatore a tirare le fila dell’intero sistema. Interessante era anche il sistema di riscossione delle tasse, soprattutto nel caso dei ‘portoria’: in un primo momento il compito di riscuotere veniva affidato a società private di pubblicani, che prendevano in appalto dalla repubblica il diritto di incassare le tariffe decise dal senato e versavano all’erario le somme previste dal contratto. I loro guadagni, enormi, erano rappresentati dalla differenza fra quanto avevano anticipato all’erario e quanto riuscivano a riscuotere (a volte il senato cercava di imporre un limite, per evitare abusi). Come si può facilmente immaginare, era un sistema che si prestava a malversazioni, corruttele e suscitava ampio malcontento fra i contribuenti. In età imperiale questo sistema fu progressivamente affiancato dalla riscossione diretta ad opera del personale di cui disponeva l’imperatore, tipicamente gli schiavi o i liberti imperiali, dei veri e propri funzionari pubblici ante litteram. L’amministrazione imperiale sostituì man mano i pubblicani nella riscossione, erodendo le loro quote di potere e di riflesso quelle del senato.
Un esempio di dazio imposto da Roma fu la tariffa del 25 per cento (nota come tetarte) sulle merci importate. Come funzionava la ‘tetarte’?
La ‘tetarte’ era una tariffa doganale (preferisco chiamarla così,invece che dazio) del 25% attestata nell’Egitto romano e si applicava alle merci provenienti dall’Oriente attraverso il Mar Rosso, cioè al commercio estero nel vero senso della parola. Era una tariffa molto alta proprio perché riguardava merci preziose che arrivavano da aree esterne all’impero (mentre le dogane interne erano notevolmente più basse). Queste merci erano soprattutto beni di lusso, come spezie e gioielli, e il loro alto valore giustificava una tariffa così elevata. Anzi, l’intelligenza politica stava proprio nell’individuare la tariffa ‘giusta’, tale da garantire lauti introiti senza scoraggiare il commercio. L’intento non era punitivo. E difatti gli scambi con l’Oriente fiorirono.
Vi furono altri dazi imposti da Roma nel corso della sua storia?
Per com’era strutturato, l’impero romano non aveva bisogno di scatenare guerre commerciali con l’esterno, neppure con altre grandi realtà politiche come l’impero persiano, sebbene la rivalità economica e militare con quest’ultimo sia una costante della storia romana. Le tariffe doganali sono semmai un problema politico in età repubblicana, fino al I secolo a.C., quando nel Mediterraneo esistevano altri stati rivali dei Romani (i Cartaginesi e i Regni Ellenistici): costoro furono man mano sconfitti e assorbiti nell’impero. Purtroppo abbiamo pochissimi dati su questo periodo multipolare della storia romana e non siamo in grado di riscostruire l’esistenza di guerre commerciali su larga scala. Tuttavia sono attestati alcuni casi in cui i Romani usarono le tariffe doganali come uno strumento politico per colpire gli avversari, oppure per favorire regimi alleati mediante reciproche esenzioni dai portoria a scapito di altri. Per esempio nel 167 a.C. i Romani favorirono la creazione un porto franco sull’isola di Delo allo scopo di punire Rodi, che fino ad allora era un hub commerciale nel Mar Egeo e con cui i Romani erano entrati in conflitto. La strategia purtroppo funzionò, mandando in crisi l’economia rodiese. Ma fu un caso limitato. Va da sé che se l’hanno fatto i Romani non significa per forza che sia una strategia vincente.
Com’era strutturato l’import-export dell’Impero Romano? La bilancia commerciale era in equilibrio? Ed è vero che i romani esportavano molte merci metalliche, di vetro, cereali, vino, ma importavano (per esempio, da Arabia, India e Cina) beni di lusso – stoffe, gioielli, spezie, che compravano soprattutto i più abbienti- su cui gravavano i dazi?
Sull’età repubblicana purtroppo non abbiamo abbastanza dati per poter parlare di bilancia commerciale, mentre in età imperialel’unico vero commercio estero era quello con l’Oriente e con i popoli del Mar Baltico. Il più delle volte quando i Romani erano attratti dall’economia di un territorio…l’annettevano. Così fu per la Britannia, da cui già in epoche remote si importava lo stagno che serviva per creare il bronzo, oppure la Dacia (attuale Romania) ricca di miniere d’oro. Per questi motivi è logico che ad essere scambiati con le aree esterne erano soprattutto beni e materiali preziosi: oro, metalli, spezie, ambra, perle e gemme. L’elevato valore di questi oggetti giustificava lo sforzo notevole che comportava farli viaggiare. Tuttavia, una caratteristica del commercio romano, sia esso interno o esterno, era il tentativo costante di ridurre i costi di transazione, creando un efficiente sistema di trasporti (che prevedeva l’integrazione fra vie marittime, fluviali e terrestri) e tenendo basse le tariffe doganali. Impressionante era la rete di porti creata a partire d’Augusto nel Mar Rosso, allo scopo di incentivare i commerci con il continente indiano, oppure l’enorme porto di Ostia o ancora l’efficiente rete stradale attraverso i passi alpini. Un sistema che permetteva la rapida circolazione di persone, merci e idee e faceva sì che fosse conveniente far circolare anche merci comuni nel Mediterraneo (come il grano), delocalizzare le produzioni o far arrivare il pepe dall’India. Un sistema monetario praticamente unificato, leggi comuni e l’uso di due lingue franche (greco e latino), parlate da quasi tutti i mercanti in giro per il Mediterraneo, facevano il resto.
Stando alle sue dichiarazioni, Trump intende sfruttare i dazi non solo per riequilibrare la bilancia commerciale e, quindi, ad esempio, per favorire il trasferimento delle produzioni negli Stati Uniti, proteggere i posti di lavoro, ma anche per aumentare le entrate e ridurre il grande debito americano. Lo scopo della tetarte era simile? Cioè quello di aumentare le entrate piuttosto che proteggere l’industria locale?
I portoria servivano in parte a ribadire l’autorità del potere centrale e in parte per finanziare l’impero, ripagando anche i costi di mantenimento del sistema descritto sopra. Solo in qualche raro caso sono attestate politiche protezionistiche volte a favorire il sistema produttivo italico, cioè di quella che in teoria era la testa politica dell’impero. Per esempio, nel I secolo a.C., come racconta Cicerone, il senato vietò ai Galli d’oltralpe d’impiantare nuove vigne allo scopo di favorire le esportazioni del vino prodotto in Italia, limitando la concorrenza straniera. Un’operazione simile fu tentata dall’imperatore Domiziano (81-96 d.C.), un governante passato alla storia non certo per la sua popolarità. Non sappiano che successo ebbero tali politiche, probabilmente scarso o nullo.
Quelle maggiori entrate erano per finanziare l’esercito e la guerra, come pare si possa evincere da una recente stima secondo cui bastavano a finanziare (sono i prodromi del fisco) circa un terzo del bilancio militare dell’Impero?
È molto difficile stimarlo. L’esercito tradizionale della repubblica romana era finanziato dalle imposte dirette fino al 167 a.C., anno in cui furono sospese per i cittadini romani in Italia, poi le enormi entrate provinciali, come i bottini di guerra, le tasse provinciali fecero la parte del leone. Non dimentichiamo però che in origine era in parte autofinanziato anche dai cittadini-soldati stessi, i qualisi pagavano da soli l’armamento. Solo a partire dall’ultimo secolo della repubblica il suo mantenimento passò interamente a carico dello ‘Stato’. In età imperiale il controllo e il finanziamento dell’esercito era nelle mani dell’imperatore, il quale usava qualunque risorsa avesse a disposizione a seconda del momento. L’imperatore era inoltre il più grande proprietario terriero dell’impero: aveva ville, pascoli, cave, miniere, ampie produzioni e entrate di ogni tipo che confluivano nel fisco.
Si può, invece, affermare che i dazi di Roma non erano diretti alle singole nazioni e non erano strumenti di trattativa diplomatica, come invece sembra usarli Trump?
Esatto. Le dogane non erano particolarmente usate come arma diplomatica perché colpivano innanzitutto gli interessi dei mercanti romani. Semmai avveniva il contrario: l’immunità doganale era uno strumento per favorire comunità alleate e governi amici, in questo modo permetteva l’espansione dell’influenza romana.
A detta di molti economisti, il rischio per l’economia americana (e non solo) conseguente ai dazi di Trump potrebbe essere la recessione e l’aumento dell’inflazione. Anche nell’antica Roma, uno degli effetti dei dazi era l’aumento dell’inflazione che, come accade oggi, andava a colpire sempre gli strati sociali più poveri, impoverendo, nel complesso, la società?
Per l’economia romana non è dimostrabile. In età imperiale sono attestati casi di grave inflazione, ma la causa principale sembrano essere state le pessime politiche monetarie attuate da alcuni imperatori poco lungimiranti. Non sappiamo se i dazi abbiano avuto un ruolo in tal senso, semplicemente non abbiamo dati a sufficienza per affermarlo. Ma certamente l’inflazione quando si è verificata, soprattutto durante la grande crisi del III secolo d.C., ha colpito i ceti più poveri, creando forti sperequazioni sociali. Non è casuale che negli ultimi due secoli dell’impero (IV e V d.C.) i ceti medi siano molto più difficili da individuare: verosimilmente esistevano ancora, ma sembrano assai meno vitali che nei trecento anni precedenti.
Tra gli altri effetti, i dazi finivano per favorire i mercati neri? Di quali merci? Perché?
Sì, anche se i controlli erano relativamente efficienti, contrabbando e mercato nero sono sempre esistiti. Anche quando le tariffe doganali erano basse. Per esempio sulle Alpi, laddove si riscuoteva una tassa del 2,5%, le città di confine avevano apposite stazioni doganali lungo le vie principali da cui le merci transitavano. Esistevano funzionari itineranti (circitores) che, come una sorta di guardia di finanza, fermavano i mercanti sui sentieri per controllare se le loro merci avessero i piombini doganali – auspicabilmente non contraffatti – che attestavano l’avvenuto pagamento della tassa. Un mestiere difficile e pericoloso.
L’alta inflazione, peraltro, lacerò Roma nel III secolo, durante la cosiddetta ‘Crisi del Terzo Secolo’. Perché quella fase fu così negativamente determinante per la storia dell’Impero?
Le cause di questa crisi sono molteplici e non ancora del tutto comprese dagli studiosi. Nel terzo secolo l’impero subì profondissime trasformazioni che coinvolsero quasi tutti i settori della società, dalla politica alla cultura alla religione. Negli anni centrali del secolo sembra essersi scatenata una tempesta perfetta fra instabilità politica (gli imperatori di quel periodo erano particolarmente effimeri), crisi finanziaria e calo demografico. Sono tutti fattori che resero molto oneroso per la popolazione mantenere un impero che era ormai sovra-dimensionato rispetto alla situazione demografica. Le ingenti spese militari, causate dalle frequenti guerre civili e dalla recrudescenza del conflitto con i Persiani, fecero il resto. A farne le spese, come s’è detto, furono i ceti più deboli: l’instabilità economica nuoce sempre alla mobilità sociale. Paradossalmente, l’impero uscì salvo dalla crisi – nel IV secolo infatti era più piccolo ma assai più stabile e coeso – tuttavia la sua società era più polarizzata e la sua economia più ‘medievale’ (passatemi il termine).
Rimanendo in tema di inflazione, oggi per combatterla esistono le Banche Centrali che aumentano i tassi di interesse, riducendo l’attività economica e, di conseguenza, le entrate fiscali. Ma all’epoca, quali strumenti avevano gli imperatori per combattere l’inflazione che, peraltro, incideva anche sulle retribuzioni dei soldati?
Sostanzialmente agivano sulla moneta. Per capirlo bisogna considerare che le monte circolanti avevano un valore intrinseco dato dalla quantità di metallo fino (oro, argento) di cui erano composte, nonché un valore nominale, più alto, determinato dall’autorità politica. Quando l’inflazione era causata da un’incontrollata espansione del credito, non sostenuta da sufficiente liquidità, si svalutava la moneta riducendone di poco il peso o la percentuale di metallo fino. Così si potevano coniare più monete con la stessa quantità di metallo prezioso mantenendo inalterato il valore nominale (fiduciario). Tutto stava all’abilità dei governanti nell’individuare il giusto rapporto che permetteva di dare una scossa al sistema senza deprezzare troppo la moneta. Per esempio, Giulio Cesare, intorno al 46 a.C., coniò una forte moneta aurea e vietò ai privati (s’intende le banche, i mercanti e i cambiavalute) di tenere in cassa riserve d’oro e d’argento oltre un certo limite, favorendo l’iniezione di liquidità nel sistema. La misura funzionò e salvò le finanze del nascente impero per almeno un trentennio. In alternativa, quando la moneta era troppo svalutata, cioè aveva un valore intrinseco troppo basso rispetto a quello nominale, si coniava nuova moneta forte (pura e pesante) da mettere in circolazione. Così fece Diocleziano (284-305 d.C.) per risolvere la crisi monetaria degli anni precedenti. In attesa che il nuovo sistema andasse a regime, tentò di salvare le deboli monete dei suoi predecessori, agganciandole alla sua, e parallelamente introducendo un calmiere sui prezzi di beni e servizi in tutto l’impero. Queste ultime due misure pare siano state poco efficaci.
All’epoca dell’Impero Romano, il mondo era globalizzato in senso più ‘piccolo’ (anche perché l’Impero ne costituiva una buona parte) e Roma, soprattutto per i beni essenziali, era più autonoma. Se vogliamo, era un mondo meno interconnesso di quanto non sia oggi, dove le catene di approvvigionamento sono lunghe ed un prodotto finito, ad esempio, ha un costo perché le componenti sono di alcuni Paesi e, magari, la manodopera di altri. Questo spinge molti osservatori a denunciare le conseguenze potenzialmente nefaste dei dazi di Trump per l’economia globale. A quell’epoca, invece, sappiamo quali effetti avevano i dazi sull’economia del mondo al di fuori dell’Impero?
Era un mondo estraneamente interconnesso per la tecnologia dell’epoca, ma su scala mediterranea. Molto aree dell’impero si erano specializzate in alcune produzioni che facevano circolare in tutto il Mediterraneo. Non esiterei a usare il termine ‘globalizzazione’, anche se su scala molto più ridotta poiché appunto riguardava il Mar Mediterraneo e le aree limitrofe. Le interconnessioni vanno considerate nel contesto antico, assai diverso da quello attuale. Le conseguenze dei dazi sono difficili da sondare, in parte perché abbiamo pochi dati, in parte perché parliamo di commercio estero soltanto in riferimento ad alcuni prodotti e a specifiche rotte (sebbene sviluppatissime). La maggior parte dei ‘portoria’ erano invero delle dogane interne all’impero romano. La loro origine risale a un’epoca in cui nel Mediterraneo esistevano diversi stati rivali, ma in età imperiale diventano una cosa diversa.
La ‘Crisi del Terzo Secolo’ indebolì considerevolmente Roma. Secondo Lei, i dazi, e i loro effetti, figurano tra le cause del declino dell’Impero Romano?
Purtroppo è un aspetto non valutabile. Oggi tendiamo a preferire il concetto di trasformazione tardoantica rispetto a quello di declino, proprio per sottolineare che i cambiamenti degli ultimi due secoli dell’impero sono ben più profondi e coinvolgono l’intera società. Peraltro, a livello macroeconomico, nel IV e V secolo si assiste a una ripresa, anche se su basi diverse.
‘Dove passano le merci, non passano i carri armati’, è stato il mantra dell’economia globalizzata. Storicamente, però, le guerre commerciali sono spesso l’anticamera delle guerre militari. La storia romana ci può insegnare qualcosa a riguardo?
Sì, l’impero romano è nato prima come una potenza economica e poi come un impero territoriale. Molte aree del Mediterraneo entrarono nell’orbita romana indirettamente, grazie all’influenza di mercanti, imprenditori, affaristi e diplomatici e solo dopofurono conquistate. Si può quasi dire che le legioni fossero le ultime ad arrivare in un territorio. La conquista è stata in molti casi brutale – e non dimentichiamo che ha alimentato l’enorme commercio di schiavi su cui si basava una fetta consistente dell’economia romana – ma nell’arco di un paio di generazioni i territori e le popolazioni vinte sono entrati a far parte di un sistema politico-economico più grande.
In conclusione, quali lezioni, secondo Lei, gli Stati Uniti di Donald Trump potrebbero imparare dall’antica Roma circa i dazi (e ai loro effetti)?
Direi che è meglio non usarli. I Romani se ne servirono forse in età repubblicana, quando la loro espansione fu lenta e faticosa, ma ne fecero volentieri a meno in età imperiale, quando (non grazie ai dazi) erano divenuti ‘grandemente grandi’, per usare la definizione di Elio Aristide, un intellettuale greco che rappresentava il sentire comune degli ormai ex-nemici di Roma. L’uso nocivo dei dazi è estraneo a questa mentalità.