Con buona pace del Premier israeliano, Benjamin Netanyahu, seduto a fianco nello Studio Ovale, pochi giorni fa Donald Trump ha annunciato a sorpresa che, con colloqui di ‘alto livello’, gli Stati Uniti riprenderanno i negoziati sul nucleare con l’Iran nel fine settimana, in Oman, perché “penso che tutti siano d’accordo che fare un accordo sarebbe preferibile all’ovvio. E l’ovvio non è qualcosa in cui voglio essere coinvolto o, francamente, in cui Israele vuole essere coinvolto, se può evitarlo”. Augurandosi “che i colloqui abbiano successo, e penso che sarebbe nel migliore interesse dell’Iran se avessero successo”.

L’Iran ha dichiarato che darà “una vera possibilità” ai colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti domani in Oman. Il Ministero degli Esteri iraniano ha dichiarato su X che gli Usa dovrebbero apprezzare la decisione di Teheran di avviare i colloqui nonostante il “prevalente clamore conflittuale” di Washington. “Intendiamo valutare le intenzioni della controparte e trovare una soluzione sabato – ha scritto il portavoce Esmaeil Baghaei su X – Con sincera vigilanza, stiamo dando una vera possibilità alla diplomazia”.

Pochi giorni fa, la lettera personale di disponibilità di dialogo di Trump alla Guida Suprema della Repubblica islamica, Ali Khamenei, che avrebbe risposto favorevolmente, richiamando al mutuo rispetto da parte di entrambi i Paesi che, come noto, non hanno più relazioni diplomatiche dirette da 45 anni, dal 1980, quando i rivoluzionari islamici assalirono l’ambasciata americana a Teheran e tennero in ostaggio 53 diplomatici per 444 giorni. A maggior ragione se, ad auspicare un accordo, è proprio colui che, nel 2018 (nel suo primo mandato alla Casa Bianca), unilateralmente ha ritirato gli Stati Uniti dall’ accordo sul nucleare iraniano, noto come Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), che l’Iran e sei Paesi – USA, Russia, Cina e i cosiddetti ‘E3’ (Germania, Francia e Regno Unito) più l’UE – avevano faticosamente raggiunto nel 2015, grazie al lungo lavorio dell’amministrazione Obama.

L’accordo, associato alla risoluzione 2231 del 2015 dell’ ONU, richiedeva che l’arricchimento dell’uranio a Fordow e Natanz sia limitato e un reattore ad acqua pesante, quello ad Arak, avesse il nucleo reso inoperabile e quindi incompatibile con qualsiasi uso a livello bellico. Queste strutture vengono ora ripristinate per scopi di ricerca, industriali o medici, e sottoposti a ispezioni da parte dei controllori dell’ Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA).  L’obiettivo è anche quello di limitare la possibile costruzione segreta di un’arma nucleare da parte dell’Iran, imponendo un taglio del 98% sulla scorta dell’uranio arricchito e una moratoria di 15 anni sulla possibilità di arricchire l’uranio e una riduzione pari a due terzi sulle centrifughe. In risposta al ritiro trumpiano, l’Iran aveva deciso di espandere il programma nucleare, ma la decertificazione statunitense ha costituito una grave violazione della fiducia reciproca tale da rendere l’Iran quanto mai cauto a stipulare nuovi accordi senza garanzie concrete.

L’inizio di questi colloqui è certamente un primo passo indiscutibilmente utile, considerando il basso livello di fiducia tra le due parti. A parte il linguaggio bellicoso dell’attuale inquilino della Casa Bianca, negli ultimi anni la regione è stata sconquassata dal conflitto a Gaza rispetto al quale gli Stati Uniti -che hanno recentemente preso di mira i ribelli Houthi sostenuti da Teheran nello Yemen- non hanno mai fatto mai mancare, soprattutto dopo il ritorno di Trump, il sostegno e la luce verde ad Israele. La controversa proposta di Trump per Gaza non ha fatto altro che radicare lo scetticismo iraniano e non farà altro che complicare il confronto.

Fumoso pare ancora essere il formato in cui saranno questi colloqui, se in modo diretto (come sostengono gli USA) o indiretto (come sostiene l’Iran). La differenza è sottile, ma non di lana caprina: nel caso di colloqui indiretti, le delegazioni dei due Paesi si trovano nello stesso luogo, ma in stanze o edifici separati, come accaduto a Ryad nei colloqui tra Stati Uniti, Russia e Ucraina. A differenza del colloquio diretto che, proprio per la sua franchezza, può essere un grande successo o un grande fallimento, il colloquio indiretto rimane in un alveo di maggior cautela, il che potrebbe allungare i tempi, ma anche costringere ad una maggiore ponderazione nelle richieste e nelle concessioni.

Ciò detto, a rappresentare gli Stati Uniti sarà l’inviato speciale (oltre che vecchio amico) del Presidente per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il quale, pur facendo non poca confusione sulle cause della guerra in Ucraina, ha reso noto poche settimane fa che una soluzione diplomatica per quel conflitto sarebbe a portata di mano. Nella stessa intervista con Tucker Carlson, aveva propagandato la forza militare degli Stati Uniti ed essposto le vulnerabilità dell’Iran, per poi affrettarsi a chiarire: “Questa non è una minaccia. Se gli iraniani ascoltano mai questa trasmissione, non sono io che emetto una minaccia. È il Presidente che ha quell’autorità”.

Stando alla versione americana, Witkoff dovrebbe incontrare il Ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, che in un editoriale sul ‘Washington Post’, a proposito del livello del programma nucleare iraniano, lo stesso Araghchi ribadisce che “Dieci anni dopo la conclusione del JCPOA – e quasi sette anni dopo che gli Stati Uniti si sono allontanati unilateralmente da esso – non ci sono prove che l’Iran abbia violato questo impegno. Ciò è stato riaffermato più volte dalle valutazioni dell’intelligence statunitense. Tulsi Gabbard, il direttore dell’intelligence nazionale, ha recentemente riconosciuto che “l’Iran non sta costruendo un’arma nucleare e il leader supremo [Ayatollah Ali] Khamenei non ha autorizzato il programma di armi nucleari che ha sospeso nel 2003””.

Eppure, sebbene Teheran insista nell’affermare lo scopo civile del suo programma, le ultime stime dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) parlano scorte di uranio arricchito al 60% triplicate negli ultimi tre mesi, circa 274 chilogrammi di uranio arricchito ad una soglia pari al 30% in meno della purezza necessaria (90%) per il ‘breakout nucleare’, ossia la costruzione di un ordigno nucleare. Non mancano, però, rapporti secondo cui gli scienziati iraniani, starebbero conducendo ricerche che abbreviano il percorso verso la costruzione di un’arma nucleare.

Per Israele – il cui Premier era seduto proprio accanto a Trump mentre quest’ultimo dava l’annuncio dei colloqui e, come logico, non ne sarà stato rallegrato – la nuclearizzazione della Repubblica Islamica costituisce un pericolo esistenziale da prevenire in tutti i modi. La CNN ha in passato riferito che le agenzie di intelligence USA avrebbero avvertito sia le amministrazioni Biden che Trump che Israele starebbe valutando (già entro la fine del 2025) colpire siti nucleari associati al programma iraniano ed altri obiettivi come parte di un piano più ampio perdi cambio di regime a Teheran. Del resto, la rivalità tra lo Stato Ebraico e la Repubblica degli ayatollah è di vecchia data e resa ancor più grave dal caos in cui versa la regione da mesi (per non dire anni): all’anno scorso risalgono i ripetuti scambi di attacchi tra i due Paesi, culminati nei massicci attacchi missilistici del 25 ottobre scorso che hanno quasi annichilito le batterie di difese aerea iraniane S-300, un sistema fornito dalla Russia, considerato il ‘fiore all’occhiello dello scudo iraniano contro gli attacchi aerei, destinato a proteggere i principali siti nucleari e militari.

Le ostilità tra Tel Aviv e Teheran sono diventate sempre più esplosive a partire dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre ai danni di Israele che, poi, ha risposto prendendo di mira sia la stessa Hamas (di cui ha ucciso buona parte dei vertici storici) sia gli altri componenti della rete iraniana regionale, la cosiddetta ‘Asse della Resistenza’, quali, in Libano, Hezbollah (di cui è stato ucciso il dominus Nasrallah, ma di cui è stata neutralizzata buona parte dell‘arsenale missilistico) e gli Houthi in Yemen. A causa dell’indebolimento della rete di ‘proxy actors’ e del ponte con quest’ultima, con il crollo del regime siriano di Bashar al-Assad, l’influenza geopolitica iraniana nella regione è andata calando nel 2024 e il contestuale aumento della presenza degli Stati Uniti nella regione.

In questo contesto, i colloqui in Oman “sono tanto un’opportunità quanto un test. La palla è nel campo dell’America”, ha scritto nell’editoriale sul ‘Washington Post’ il capo della diplomazia iraniana. Per la Repubblica Islamica sarà anzitutto un’opportunità per impedire lo slittamento in una crisi ancor più nera di quella in cui già versa: infatti, entro la fine dell’anno, l’accordo sul nucleare iraniano, da cui Trump si era già ritirato minandone l’efficacia, scadrà formalmente. L’intesa offre agli ayatollah un alleggerimento delle sanzioni in cambio di limitazioni alle sue attività di arricchimento dell’uranio. Con l’ avvicinarsi della scadenza, riappare il rischio dello snapback, il meccanismo che re-imporrebbe le sanzioni delle Nazioni Unite e che potrebbe essere attivato dai paesi europei (Francia, Germania e Regno Unito, che formano il cosiddetto E3). Il Memorandum presidenziale sulla sicurezza nazionale (NSPM) di Trump, volto a imporre “massima pressione” sull’Iran, chiede di lavorare con i partner europei degli Stati Uniti per attuare lo snapback e le mosse diplomatiche iniziali per innescare questo processo devono aver luogo entro la fine dell’estate. Se così fosse, sarebbe colpo ferale per la già disastrata economia iraniana per la quale il governo riformista di Massoud Pezeshkian tenta, a fatica, di contenere il malcontento della popolazione che si trova a fare i conti con misera, inflazione galoppante, continui blackout.

Come da lui stesso messo nero su bianco nella missiva inviata alla Guida Suprema, l’obiettivo preferibile sarebbe quello di raggiungere un accordo, che, peraltro, scongiurerebbe una fase di proliferazione, aumentando contemporaneamente la sicurezza regionale. La buona riuscita o meno dipenderà molto dalle linee rosse che le parti intenderanno imporre.

L’approccio transazionale di Trump tanto controverso, da affarista quale è stato nella vita precedente, applicato alla diplomazia influenzerà la strategia negoziale a stelle e strisce che, in Medio Oriente, hanno portato agli accordi di Abramo, firmati nel 2020 tra Israele e vari Paesi arabi, tra cui Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, in chiave anti-iraniana, che facevano del commercio e degli investimenti il propulsore della normalizzazione delle relazioni.

Trump potrebbe far leva su questo elemento, proponendo un’apertura al commercio tra Iran e Stati Uniti, mentre l’accordo del 2015 si concentrava soprattutto sulla ripresa del commercio Europa-Iran. D’altro canto, una posizione indebolita sia sul fronte geopolitico che economico non potrà non influenzare la postura negoziale di Teheran che potrebbe assumere un atteggiamento più malleabile e più pragmatico in vista, magari, di un alleviamento delle sanzioni.

Ovviamente, falchi permettendo, che potrebbero voler impedire concessioni. Del resto, anche l’Iran, come molti Paesi in questa fase storica, vive la polarizzazione politica tra i ‘conservatori’ guidati dal leader supremo Ali Khamenei, e i ‘riformisti’ che trovano nell’eletto Presidente della Repubblica, Masoud Pezeshkian, un emblema e che sembrano relativamente più interessati all’apertura al dialogo, sebbene abbiano recentemente perso due importanti figure nel gabinetto, il Ministro dell’economia, Abdolnaser Hemmati, e il vicepresidente, Mohammad Javad Zarif, costretti a lasciare il parlamento. Una frattura che potrebbe essere uno svantaggio per la Repubblica Islamica, incapace di presentarsi compatta e, magari, con pretese moderate, ma anche una leva su cui potrebbe contare l’America desiderosa di strappare quanto più possibile all’avversario.

Se per l’Iran sarà un’opportunità da giocare, per Trump non potrà che essere un test: dato che non sembra, al momento, aver mantenuto la promessa di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore nè tantomeno aver portato una svolta al conflitto a Gaza e senza contare il caos a causa dei dazi, sarebbe cruciale, sia a livello interno che estero, ottenere qualcosa sul fronte iraniano. Non tanto per il tanto bramato (dal tycoon) Premio Nobel, quanto per rafforzare la propria credibilità e la propria leadership. Ma quale accordo, se in passato non ha risparmiato feroci critiche all’intesa negoziata da Obama, che già prevedeva limitazioni e controlli regolari attraverso ispezioni dell’Aiea alle centrifughe iraniane per prevenire il raggiungimento dell’arma nucleare? Ottenere più di quanto abbia ottenuto Obama sarebbe l’intento trumpiano, conferma il ‘New York Times’, ma sarebbe fattibile?

L’incontro in Oman promette di essere di natura esplorativa delle posizioni di partenza, tanto delle richieste quanto delle concessioni che le parti sono disposte a fare. “La nostra difesa non è negoziabile. Come può Teheran disarmare quando Israele ha testate nucleari? Chi ci protegge se Israele o altri attaccano?”, ha detto un funzionario iraniano citato da Reuters. L’Iran, che pure non ha mai manifestato l’intenzione di voler sviluppare un’arma nucleare, non cederà facilmente alla richiesta di smantellamento dell’intero programma nucleare (e la distruzione della capacità di arricchimento, comprese le centrifughe avanzate installate di recente) da cui si vede garantita una capacità di deterrenza, considerata fondamentale per la sopravvivenza del regime, né tantomeno all’esportazione di tutte le scorte di uranio già arricchito e alle ispezioni internazionali intrusive di tutti i siti nucleari dichiarati e non dichiarati. Un cedimento avverrebbe solo a fronte di un’importante riduzione delle sanzioni che, tuttavia, oltre a colpire diversi obiettivi, alcune di esse (quelle CAATSA, Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act) sono ‘inflitte’ dal Congresso dove, al momento, non sembra esserci grande disponibilità ad eliminarle.

Certo è che un eventuale nuovo accordo con Teheran potrebbe avere il vantaggio di conquistare il sostegno del Partito Repubblicano, ma anche di certa parte del Partito Democratico. Non sono pochi, tuttavia, coloro che, anche tra Repubblicani e Democratici, oltre che nell’amministrazione USA -dal consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz al segretario di stato Marco Rubio– sembrano auspicare il massimalismo della postura degli Stati Uniti nella trattativa, puntando ad uno smantellamento totale del programma nucleare e dell’ arsenale missilistico, oltre che ad cesura con l’Asse della Resistenza. Pretese che sarebbero ben accolte da Israele, ma controproducenti per il raggiungimento di un accordo. La linea pragmatica tesa ad un negoziato potrebbe, invece, puntare su una revisione più restrittiva del JCPOA dei limiti imposti al programma nucleare con l’impostazione di un efficiente sistema di verifica, come già era stato fatto nel 2015.

Sempre Trump ha avvertito che “se i colloqui non avranno successo, l’Iran sarà in grave pericolo, e odio dirlo, perché non può avere un’arma nucleare”. Non a caso, nelle stesse ore Washington ha trasferito alcuni bombardieri stealth B-2 presso la base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, in una posizione strategica per poter facilmente attaccare lo Yemen, ma soprattutto lo stesso Iran. E ha aggiunto una seconda portaerei all’imbocco del Golfo Persico. Secondo quanto riferito, quegli aerei sono stati utilizzati in operazioni contro gli Houthi nello Yemen, poiché erano in una precedente onda di attacchi contro gli Houthi nell’ottobre 2024. Ma il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Pete Hegseth ha suggerito che l’Iran debba considerare che questi aerei altamente capaci e i carichi utili pesanti che può trasportare potrebbero essere impiegati anche contro i loro siti nucleari. Già nel primo mandato, ma anche prima di ritornare alla Casa Bianca, Trump non ha mai escluso l’eventualità di un massiccio bombardamento del programma nucleare iraniano così da impedire a Teheran di dotarsi dell’arma atomica. Ipotesi di attacco non ben vista da JD Vance, ma che potrebbe essere realizzata dagli Stati Uniti, da Israele (l’ipotesi più verosimile per Trump) o dai due Paesi in combinazione, forse anche con il sostegno di altri, inciderà, in un modo o nell’altro, sulle trattative nella misura in cui l’Iran percepirà la minaccia militare credibile.

La distruzione della rete di difesa aerea ha rivelato la grande fragilità dell’eventuale resistenza che jet USA o israeliani affronterebbero una resistenza minima penetrando nello spazio aereo iraniano. Le restanti difese iraniane, in gran parte obsolete o prodotte a livello nazionale, non sarebbero sufficienti a far fronte alla tecnologia messa in campo da Washington e Tel Aviv, lasciando, di fatto, gli obiettivi strategici indifesi. Un attacco israeliano e/o americano potrebbe far retrocedere il programma nucleare di qualche anno, ma non azzerarlo del tutto. Sarebbe funzionale, più che altro, solo a prendere tempo.

Ma a quel punto, Teheran porrebbe il deterrente nucleare in cima alle sue priorità costringendo Washington e Tel Aviv a mettere in conto attacchi ripetuti, forse per anni, e una guerra asimmetrica da parte iraniana e della sua rete di attori ‘proxy’. Il Presidente del Parlamento iraniano Mohammad Qalibaf ha minacciato che l’Iran, forte del suo arsenale missilistico, avrebbe attaccato le forze statunitensi e le loro nazioni ospitanti nel Golfo in risposta a un attacco degli Stati Uniti.

“L’Iran preferisce la diplomazia, ma sa come difendersi. Non abbiamo ceduto alle minacce in passato e non lo faremo ora o in futuro. Cerchiamo la pace, ma non accetteremo mai la sottomissione”, mette le mani avanti il Ministro della difesa iraniano. “Non possiamo immaginare il presidente Trump che vuole diventare un altro presidente degli Stati Uniti impantonato in una guerra catastrofica in Medio Oriente – un conflitto che si estenderebbe rapidamente in tutta la regione e costerebbe esponenzialmente più dei trilioni di dollari dei contribuenti che i suoi predecessori bruciarono in Afghanistan e Iraq”. La risposta iraniana, dunque, non mancherebbe.

Due giorni dopo l’annuncio del Presidente americano, gli Stati Uniti hanno imposto nuove sanzioni contro l’Iran: più precisamente, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha affermato di aver imposto sanzioni a cinque entità con sede in Iran e a una persona con sede in Iran per il loro sostegno al programma nucleare iraniano, tra cui l’Organizzazione per l’energia atomica dell’Iran (AEOI) e la Iran Centrifuge Technology Company (TESA) subordinata all’AEOI.

Alla vigilia dell’inizio dei colloqui, il Segretario all’Energia degli Stati Uniti, Chris Wright, ha dichiarato che Washington potrebbero aumentare la pressione su Teheran e bloccare le sue esportazioni di petrolio. Wright, parlando con Reuters durante una visita ad Abu Dhabi, ha detto di ritenere che gli alleati del Golfo degli Stati Uniti siano estremamente preoccupati per un Iran a propulsione nucleare e condividano la determinazione degli Stati Uniti che si tratta di un risultato che non è nell’interesse di nessuno.

Secondo quanto riferito, i rappresentanti di Iran, Cina e Russia si sono incontrati a Mosca l’8 aprile. Il ministero degli Esteri cinese ha rilasciato una dichiarazione che ricorda al mondo che sono stati gli Stati Uniti “che si sono ritirati unilateralmente dal JCPOA [l’accordo nucleare del 2015 o dal piano d’azione globale congiunto] e ha causato la situazione attuale”. Ha sottolineato la necessità per Washington di “mostrare sincerità politica, agire nello spirito di rispetto reciproco, impegnarsi in dialogo e consultazione e fermare la minaccia della forza e della massima pressione”. In questi anni di pressione USA, gli ayatollah hanno approfondito le sue relazioni -economiche e non solo- con Russia e Cina e un eventuale riapertura del commercio con gli USA aiuterebbe Teheran a mantenersi quanto più autonoma rispetto alle posizioni di Mosca e Pechino.

Trump ha fissato un obiettivo di sessanta giorni per raggiungere un accordo. Gli iraniani potrebbero voler prolungare quella linea temporale. Morgan Ortagus, vice inviato speciale per il Medio Oriente della Casa Bianca (sotto Witkoff), ha espresso chiaramente questa posizione durante un’intervista ad Al Arabiya: “Non vogliamo i tempi lunghi della diplomazia. Vogliamo risultati concreti e rapidi”. Se non ci fossero progressi nei negoziati, è improbabile che gli Stati Uniti e i loro partner europei lascino passare la scadenza dello snapback senza ripristinare le sanzioni. Ma l’Iran ha ribadito che se si verificherà lo snapback, si vendicherà, forse ritirandosi dal Trattato di non proliferazione nucleare (che significherebbe la fine delle ispezioni dell’AIEA). Ma se i negoziati si esauriscono e si verifica l’incombente reimposizione delle sanzioni – lo snapback – con una risposta iraniana, Washington si potrebbe trovare costretta a decidere. Trump, a quel punto, dovrebbe passare dalle parole ai fatti, decidendo se o meno procedere con l’escalation militare.